Cultura e Società

Società Psicoanalitica Ellenica, 12/4/20 Intervista a S. Thanopulos

20/04/20

Sito della Società Psicoanalitica Ellenica, 12/4/2020

Intervista a Sarantis Thanopulos di Malidelis Dimitris

 

Sito della Società Psicoanalitica Ellenica

12 aprile 2020

 

Intervista a Sarantis Thanopulos di Malidelis Dimitris

 

Introduzione: In questa intervista, pubblicata sul sito della Società Psicoanalitica Ellenica, Sarantis Thanopulos riflette su come la pandemia possa essere un sintomo di una società malata e di uno sviluppo che ci allontana dalla natura e dal senso della nostra esistenza. La psicoanalisi ci offre una visuale diversa in grado di opporsi a questa deriva autodistruttiva. (Maria Antoncecchi)

Sarantis Thanopulos Psichiatra-Psicoanalista, Membro ordinario con funzioni di Training della Società Psicoanalitica Italiana

Malidelis Dimitris Psicologo Clinico-Psicoanalista, Membro della Società Psicoanalitica Ellenica HPS IPA

 

Sito della Società Psicoanalitica Ellenica

12 aprile 2020

Intervista a Sarantis Thanopulos di Malidelis Dimitris

 

 

Intervista di Malidelis Dimitris[1] a Thanopulos Sarantis[2].

È stata pubblicata 12-4-20 sul sito della Società psicoanalitica Ellenica a cura di Andreas Gkorinis[3]

 

DM: Sarantis, avendo già letto tre tue interviste, due fatte in Italia e unaltra in Grecia, ho trovato opportuno e interessante sviluppare una discussione anche tra di noi, tramite la Società Psicoanalitica  Ellenica e il proprio sito web. In particolare, vorrei chiederti cosa ne pensi, a livello psicoanalitico, di questa crisi epidemiologica entrata così rapidamente e inaspettatamente nella nostra vita personale e professionale?

 

ST: Dimitri, abbiamo l’erronea convinzione che l’essere umano si interessa in primo luogo alla propria sopravvivenza. La filosofia (Foucault, Agamben) ha già attirato la nostra attenzione sul ruolo egemonico che la biopolitica tende ad avere sulla nostra vita. La biopolitica è la politica che ha come suo oggetto la ‘nuda vita’ (termine usato da W.Benjamin, a cui personalmente preferisco quello di ‘cruda vita’), un corpo vivente e agente come macchina biologica, ma inerte nello spazio dell’esperienza affettiva, erotica e mentale. La psicoanalisi offre un accesso eccezionale a questa prospettiva perché sa molto bene che gli esseri umani danno sempre la precedenza al loro equilibrio psichico, in altre parole alla coesione della rappresentazione di sé e del mondo. Ciò che davvero non tollerano è la mancanza di senso della loro esistenza. La morte fisica crea in loro terrore perché è un’esperienza impensabile che preclude ogni possibilità di rappresentazione non indiretta. Tutte le volte che, per motivi vari, non riescono a dare senso a ciò che sta accadendo, vanno incontro a un sentimento di panico vero e ricorrono a soluzioni irrazionali purché diano loro, in quel momento, l’illusione del ritorno alla coesione psichica perduta. Mettendo a rischio drammatico la loro vita e quella degli altri. Non è per nulla necessario essere psicotici per andare incontro alla morte fisica quando si è in pericolo di perdere la nostra collocazione psichica nel mondo.

Quanto più la nostra rappresentazione affettiva, erotica e mentale della realtà diventa difensiva (perché predomina la logica dei bisogni materiali che, avendo come suo obiettivo la scarica delle tensioni, è cieca e non ci consente di vivere esperienze vere) tanto più andiamo verso l’inerzia interiore, restiamo vivi sul piano somatico, ma rischiamo di morire psichicamente. La morte psichica conserva il pensiero solo su un piano paragonabile a quello delle istruzioni di funzionamento di una macchina che è destinata al suo logoramento finale. L’inerzia dalla quale sorge la biopolitica, potrebbe condurre alla nostra scomparsa materiale.

Cosa c’entra tutto questo con la pandemia? Essa è un sintomo molto serio della nostra inerzia psichica (che ha favorito la pandemia, ci ha resi incapaci di prevenirla e tuttora ostacola i nostri tentativi di affrontarla). Un sintomo (che non possiamo più ignorare) del nostro allontanamento dalla vita reale e anche della gestione della società e della politica giorno per giorno e senza lungimiranza, sulla base dell’egoismo individuale diventato in misura pericolosa psicologia collettiva.

Abbiamo dimenticato l’ieri, viviamo in un presente permanente e non ci interessa il domani. Il Covid-19 è il prodotto della catastrofe progressiva della natura e dei drammatici cambiamenti climatici che continuiamo a denunciare e ad ignorare. L’approssimazione e la disorganizzazione con cui, a livello mondiale, abbiamo affrontato un’emergenza sanitaria da tempo annunciata, parlano chiaramente, ma siamo disponibili ad accettare ciò che ci dicono? Siamo passati dal resistere alle catastrofi naturali subite al provocarle noi stessi. Distratti nei confronti delle tempeste che arrivano fino al momento che si abbattono su di noi.

Noi psicoanalisti siamo in una posizione privilegiata per vedere e comprendere l’uragano che incombe, di cui il Covid-19 non è che un ammonimento, ma non possiamo sedere sui nostri allori. Dobbiamo rinnovare il nostro pensiero. A partire dalla netta distinzione tra desiderio e bisogno (che corrispondono a due opposte, anche se non inconciliabili, logiche della vita); dalla ferita della femminilità, che minaccia la nostra civiltà; dalla fobia nei confronti dell’altro e del coinvolgimento erotico/affettivo con lui; dal principio meccanico, omeostatico del funzionamento psichico che getta un’ombra pesante sulla nostra esistenza. Possiamo riconsiderare il “lavoro del negativo” (Green), il lavoro di Thanatos, avversario di Eros, e vederlo più appropriatamente non come pulsione di origini biologiche, ma come cortocircuito della psiche, quando essa contrae il proprio movimento sotto la pressione di tensioni che non può elaborare per motivi ambientali e sociali.

Il problema di fondo che affronta la psicoanalisi e la nostra civiltà oggi, è perché gli umani trascurano la qualità della loro vita e il loro futuro, andando verso l’autodistruzione, senza soffrire nella loro grande maggioranza da disfunzioni cerebrali o avere problemi di natura genetica. La domanda che fronteggiamo è: dobbiamo conservarci vivi per vivere un vita soddisfacente o viviamo per conservarci vivi?

 

 

DM: Come, secondo te, entra oggi in mobilitazione il nostro arsenale psichico difensivo. Molte persone sono guidate dall’indifferenza, dal panico o persino da elementi profetici”. Oppure senti alcuni affermare che gli italiani funzionano in modo superficiale” o altri che dicono con certezza che ne usciremo più forti di prima”…

 

S.T: Tutto il mondo, non solo gli italiani, ha mostrato superficialità, leggerezza. Questo fa parte del nostro modo di vivere, della diffidenza generale verso l’esperienza profonda che spesso è vissuta come fonte di destabilizzazione. Si vive alla ricerca di stimolazioni superficiali e di esperienze epidermiche. La “superficialità” preesisteva della pandemia e ora si adatta ad essa. Per silenziare il sentimento di mancanza e di solitudine, ci identifichiamo, essendo costretti a restare a casa, con tutto quello che ci consente di dimenticare la vita vera e di distrarci dalla frustrazione dei nostri desideri più profondi. L’isolamento da fenomeno quotidiano silenzioso ora si ufficializza, è legittimato. Non è casuale che la campagna di sostegno della quarantena, una cattiva gestione del fattore psicologico, ci tratta come bambini da educare, usa una retorica che conduce a una relazione addormentata con noi stessi e con il mondo. Alimenta così un atteggiamento passivo incline all’indifferenza, o una tendenza alla trasgressione, non un pensiero critico, libero, bensì un sentimento reattivo di rigetto senza una proposta creativa. Indifferenza e ribellione senza un oggetto reale portano, direttamente o indirettamente, all’invocazione dell’autoritarismo.

La sola relazione sana con la reclusione in casa è la disobbedienza interna contro un modo di vivere costrittivo e isolato, dettato dalla necessità, che in nessun caso deve diventare parte del modo interno. La nostra resistenza all’interiorizzazione dell’isolamento richiede la possibilità di vivere la perdita, la mancanza, il lutto. Il “desiderio che ama il lutto” direi, prendendo in prestito un’espressione di Gorgia, titolo di un mio libro, che la usa ne Lencomio della bella Elena.

Eloisa (più di Abelardo) ci mostra come il lutto necessario del incontro erotico può mantenere vivo il desiderio per sempre. O, se vuoi, possiamo prendere come esempio Mandela che per decenni in carcere è restato vivo nel suo desiderio, come pochi “liberi” sono capaci di fare. È bene vivere questi tempi difficili come assediati liberi. Questo presuppone che riconosciamo l’amartia (nel senso tragico del termine: la concatenazione degli errori preterintenzionali) che ci ha portato fin qui, assumiamo la sua responsabilità (che distinguo dalla colpa) che appartiene a tutti noi (con l’eccezione dei diseredati). Il presupposto complementare di ciò è il desiderare fin da ora, e senza più rinvii, una società giusta e psichicamente sana. I governi finora non hanno detto nulla sugli errori del passato e nulla dicono su un futuro migliore (che è l’opposto a che tutto torni come prima). Parlano solo del problema economico e continuano a ignorare l’evidenza: un’economia dissociata dalla qualità della vita e basata su una ormai intollerabile ineguaglianza sociale, nella quale vivevamo, ci porterà di nuovo e velocemente al punto catastrofico in cui siamo. Non so se il domani sarà peggiore o meglio di oggi, l’unica cosa che mi è più chiara è per cosa combattere.

 

DM: Mi trovo a pensare che la SPI abbia un lavoro difficile da affrontare per quanto riguarda la situazione nel suo insieme ma anche, in particolare, la necessità di introdurre modifiche al setting analitico.. L’Italia è un paese in cui molti sono disposti a percorrere lunghe distanze per raggiungere lo studio del proprio analista. È frequente, ad esempio, che qualcuno da Milano si rechi a Pavia o viceversa. Inoltre, cosa succederà con l’estroversione della vita sociale italiana, che ci è tanto cara ad entrambi?

 

S.T: La maggior parte degli psicoanalisti italiani hanno spostato il loro lavoro psicoanalitico nella comunicazione via video o telefono. Questo nel nord era ovvio, specialmente in Lombardia. Là la situazione era e resta drammatica. Il legame analitico non poteva essere interrotto, in via provvisoria, perché da una parte la situazione era molto angosciosa per i pazienti e dall’altra nessuno sapeva, né tuttora sa, quanto durerà la quarantena. Nel resto dell’Italia ci sono analisti che mantengono aperto il loro studio, per i pazienti gravi ma non solo. Personalmente ho inizialmente spostato sul “remoto ” tutti i miei analizzandi che avevano problemi di salute che esponevano loro a grande rischio (o avevano familiari in questa condizione) e anche chi era sottoposto a limiti di circolazione, venendo da lontano. Successivamente il chirurgo che mi ha operato pochi mesi fa (by pass) mi ha chiesto di chiudere il mio     studio. Ora sento i miei pazienti per telefono (per la maggiore parte) o li vedo in videochiamata. So bene che si sentono abbandonati, perfino loro che per primi mi avevano chiesta una soluzione alternativa. Il fatto che la separazione è necessaria e non desiderata non cancella per nulla l’amarezza.

La comunicazione indiretta funziona, fino a un certo punto, come soluzione straordinaria, soprattutto sulla base di un reciproco sentimento di mancanza tra me e i miei analizzandi. Questo sentimento crea momenti intensi e emozioni e pensieri che si incontrano nonostante la distanza. Tuttavia la seduta fatta in questo modo è faticosa, il silenzio non comunica, dà l’impressione di un’interruzione, senti una pressione a colmare i vuoti. Mancano in gran parte il “respiro” dell’uno che entra in contatto con il “respiro” dell’altra. È ridotto il libero fluire delle associazioni e ridimensionato il carattere onirico dell’incontro, diventa più rarefatta la presenza dell’inconscio come parte viva dell’esperienza, più debole la sensazione di godere di uno spazio privato di solitudine all’interno di una comunicazione con l’altro.   Mi è chiaro che il mio lavoro analitico in queste condizioni regge ed è contenitivo perché si basa sulla speranza di rivederci e sul riconoscimento del lutto che dà consistenza e vita alla speranza. Mi mancano i miei pazienti e manco a loro.

Quanto all’estroversione della vita sociale italiana, a noi entrambi molto cara, anche questa mi manca molto. Mi mancano tantissimo i miei amici. Molti sono colleghi. L’estroversione vivrà.

 

DM: L’incertezza della situazione ci porta a parlare di un qualcosa che sembra totalmente inconsueto, inedito. Se confrontiamo la situazione attuale con la guerra, il terremoto, ecc., la mia opinione è che , adesso, è come se avessimo perso ogni certezza. Ad esempio, nella guerra è individuato un nemico definito, nel terremoto dobbiamo pensare a nuove costruzioni le quali devono prevedere il prossimo ed essere più resistenti. Nel attuale contesto, ci troviamo in una situazione in cui non possiamo fidarci nemmeno delle nostre stesse mani” come un bambino di pochi mesi. Purtroppo non ci troviamo in uno stato di crisi in cui possono essere definiti amici e nemici o si possono prevedere fasi evolutive molto più avanzate, come, per dirlo in termini psicoanalitici, quella “della stabilità affettiva dell’oggetto”, la ragionevole attesa di una stabilizzazione degli affetti che gioca un ruolo costruttivo. In altre parole, la questione che emerge da questa storia è “se il bambino vivrà” e non “cosa accadrà quando crescerà”. Forse prendere in considerazione tutte le possibilità negative e positive, mantenere tutte le porte aperte, di fronte a una situazione completamente inconsueta e senza precedenti potrebbe aiutarci a far sopravvivere alla fine il “ bambino”?

 

S.T: Partirei da questa considerazione: non viviamo per scaricare tensioni sgradevoli, ma per esperire tensioni piacevoli che persistono, permangono e per avere vissuti complessi che non ignorano la delusione o il dolore. In una mia conversazione su Il Manifesto  con Fabio Ciaramelli, amico e professore di filosofia del diritto, abbiamo dissentito su un articolo di Agamben (io lo sostenevo nelle sue tesi centrali, lui lo rigettava pur nel rispetto di un pensatore tra i più originali di oggi). Fabio a un certo punto ha fatto notare: “Primum vivere, deinde philosofari”. Ho risposto in questo modo, da lui condiviso: “La politica di Pericle aveva grandi limiti, ma sono sempre valide le sue parole: Amiamo il bello [della vita] con sobrietà [senza futilità estetizzanti] e filosofiamo [amiamo il pensiero critico] senza essere molli [dentro]”.

Non possiamo scegliere tra la sopravvivenza fisica e il pensiero critico (indissociabile dall’amore sobrio per il bello e dalla forza interiore) anche quando è in pericolo immediato la nostra vita. Dalla polmonite mi salverà il medico e non il filosofo, lo psicoanalista o Prassitele. Tuttavia che senso hanno la guarigione, il medico e la mia salute fisica senza l’amore per una vita bella, che vale la pena di vivere? Dico questo sapendo che anche nell’essere umano più “semplice” può esserci saggezza e tensione creativa. È questione di sensibilità.

Lo dirò diversamente. Se nel “bambino” vedessimo l’uomo contemporaneo nel sorgere della sua vita (nel suo potenziale), allora questo bambino non potrebbe vivere a lungo se girasse le lancette dell’orologio indietro: nella logica del bisogni materiale dal quale l’ha fatto uscire la logica del desiderio (che in forme elementari esiste anche negli animali). Il dilemma della decisione tra la sopravvivenza del bambino e la comprensione di ciò che diventerà da grande, inganna. Dal Covid-19 sopravvivremo, dalla logica che ci ha condotto al problema della pandemia rischiamo di essere distrutti.

 

 

D.M: Ho visto, nelle tue altre interviste, che nei confronti delle misure di totale isolamento (restiamo a casa) resti pensieroso e prudente. Mi chiedo se in questa nostra situazione così inusuale, senza precedenti e incerta, l’isolamento non rispecchi, forse, la scissione coerente un modo di evitare la frammentazione, come fa il bambino che si isola in modo che l’ambiente non diventi una minaccia intollerabile. Penso a M. Klein che scrive:

“ Da principio [lIo] manca assai di coerenza ed è dominato da meccanismi di scissione. Il pericolo di venir distrutti dall’istinto di morte diretto contro di Se contribuisce alla scissione degli impulsi in buoni e cattivi. In seguito alla proiezione di questi impulso sull’oggetto primitivo, anch’esso è scisso in una parte buona e in una cattiva. Di conseguenza, nei primissimi stadi, la parte buona dellIo e loggetto buono sono in una certa misura protetti, dal momento che laggressività non è rivolta contro di loro. Sono questi i particolari processi di scissione che ho descritto come la base di una relativa sicurezza nel bambino di prima infanzia, nella misura in cui la sicurezza si può raggiungere in questo stadio.”

 

S.T: Proprio come dici: sono pensieroso e prudente. Accetto le misure restrittive perché (per responsabilità, da non confondere con la colpa, di tutti) non abbiamo altri mezzi più efficaci in questo momento per affrontare  il problema del virus, ma non voglio arrendermi alla logica di Orbán che ha preteso e avuto i pieni poteri dal parlamento ungherese. Né arrendermi alla logica dell’indifferenza, che paghiamo cara, nei confronti di politiche preventive adeguate prese in anticipo. L’indifferenza è legata a doppio filo con l’idea insulsa che ogni nostro problema lo risolverà qui e ora la scienza. Confondiamo la scienza con la tecnocrazia. Abbiamo bisogno di saggezza.

Se volessimo andare più in profondità, seguendo una prospettiva più specificamente psicoanalitica, noi all’inizio della nostra vita ci ritiriamo, ci isoliamo e sentiamo il mondo esterno come minaccia tutte le volte che il nostro ambiente umano, a partire dai nostri genitori, vive come destabilizzante, difficilmente gestibile, l’imprevedibile libertà della nostra esistenza. Quando perdiamo il nostro movimento libero nella vita, il solo che ci dà una conoscenza vera, l’ambiente in cui viviamo diventa minaccioso e il nostro assetto difensivo, la tendenza all’isolamento che si attiva, ci può portare a perderci.

Quanto al discorso della Klein, personalmente vedo la pressione della morte come risultato di una dissociazione dalla vita (la paura di vivere è il nostro avversario più forte nel campo dell’esperienza clinica). E tendo a dare al discorso kleiniano sulla scissione una validità nel campo della patologia e non in quello fisiologico. Penso che la sicurezza creata dai processi di scissione sia insidiosa.

 

DM: Ha la psicoanalisi la forza teorica e clinica per far fronte a questa situazione di pandemia, in cui ci troviamo minacciati da noi stessi come il bambino molto piccolo dalle proprie mani? Perché  in altre malattie meno contagiose o con più conosciute e definite modalità di trasmissione, si pensa di trovare qualcosa di positivo, “tirandolo per i capelli”,  come è successo ad esempio lAIDS, quando si diceva, cosa con la quale non ero daccordo, che si poteva passare dalla promiscuità a una maggiore comunicazione e conoscenza dell’altro.

 

S.T: Giochiamo con le prese elettriche o mettiamo cose pericolose nella nostra bocca, come bambini piccoli. La metafora che hai usato ci dice che la nostra vita tecnologica non ci consente di “apprendere dall’esperienza”. Viviamo come se una madre interna ci controllasse continuamente, impedendoci di toccare qualcosa o di gustare qualcos’altro. Il nostro allontanamento dal mondo vero, ci porta a un sentimento difensivo di onnipotenza così quando la prima minaccia reale invade lo spazio della nostra estraniazione ci terrorizza. Non vedo nervi saldi nella gestione della pandemia. Se le cose andranno nel peggiore dei modi, il virus infetterà il 60-70% della popolazione mondiale, uccidendo un 1-2%, mediamente, degli infettati. Numeri enormi. Decine di milioni di potenziali morti, ma non è la terza guerra (nucleare) mondiale. In nessun caso possiamo permetterci una “roulette russa ” collettiva che taglierà vite qui e là. Tuttavia il panico potenziale vero e proprio non è associato a questa paura (che è collegata con un principio etico: non lasciare tanti destini umani al fato). Deriva dalla vaga, oscura percezione che il Covid-19 possa essere il preludio dell’estrinsecazione di una malattia mondiale, sociale e psichica, potenzialmente catastrofica. Alla quale nessuna consolazione “tirata dai capelli” porrà rimedio.

La psicoanalisi ha la forza teorica e clinica di essere in prima linea quando lo sforzo di superamento della crisi si muoverà nel suo epicentro reale: il campo psichico decisivo per la democrazia. Ma noi psicoanalisti dobbiamo uscire dalla nostra auto-condiscendenza.

 

DM: Mi ricordo ciò che Freud disse: No, la nostra scienza non è unillusione. Sarebbe invece un’ Illusione credere di poter ottenere da altre fonti ciò che essa non è in grado di darci.” Forse dovremmo -senza interferire con il lavoro degli specialisti che si occupano delle infezioni, né invidiare la loro notorietà mediatica- cercare di approfondire -partendo dalla nostra casa, la “psicoanalisi”, e la ricerca clinica- concetti di grande interesse per tutti come quello della solitudine come “loneliness”,  o della solitudine come la descrive la Klein, in modo che mi ha sempre attirato, per arricchirli. Penso che Winnicott  interpreti la solitudine diversamente dalla Klein.

 

S.T La psicoanalisi è una scienza seria. Si occupa dell’uomo, il suo oggetto è un essere psicocorporeo non un’entità fisica o biologica. Ha le sue contraddizioni come la fisica: la teoria della relatività e quella quantistica si escludono a vicenda. È anche una scienza eccentrica: studia fenomeni la cui comprensione si muove al limite tra la validità del principio aristotelico della non contraddizione (o a è b o a non è b, una terza possibilità è esclusa) e la sua non validità (parziale o totale). La presenza della psicoanalisi rende eccentrico a se stesso, l’intero spazio della scienza e della visuale critica della vita nella sua globalità rappresentata dalla filosofia

Non c’è motivo alcuno per invidiare i medici, e in generale il personale sanitario, che salvano vite fedeli al giuramento di Ippocrate. Inoltre, la tecnica e la tecnologia sono utili e anche salvifiche tutto dipende da come le usiamo. Il problema della tecnologia è il fatto che, facilitando molto il campo della nostra esistenza materiale, del resto necessario per la soddisfazione del desiderio, facilita anche molto l’indolenza e l’inerzia dentro di noi. Tuttavia i medici e gli infermieri sono molto più che dei tecnici: sono, dovrebbero essere, soggetti della cura. Per quanto riguarda gli esperti mediatici di ogni tipo, dubito molto di loro. Li considero populisti della conoscenza.

Nella parte finale della sua vita M.Klein si è occupata della solitudine interna, distinguendo da quella esterna. Ha parlato della solitudine che non è il risultato dell’assenza degli altri, ma è solitudine nella comunicazione con se stessi. Lo spazio di un dialogo continuo con l’impossibilita di conoscerci pienamente, come anche di sentirsi pienamente compresi dagli altri.

Winnicott ci ha insegnato che una parte di noi resta sola in ogni nostra relazione significativa con l’altro. Ciò è il presupposto di una relazione di scambio reale. Ogni soggetto conserva internamente una silenziosa, profondamente privata e idiomatica, comunicazione con l’oggetto del suo desiderio che non usa gesti e parole. Solo così può avere un contatto profondo con esso.

Nel mio libro La solitudine della donna, ho cercato di mostrare un tipo di solitudine che appartiene alla parte femminile di noi ed è molto più sviluppata nelle donne: la sensazione che a un certo punto l’oggetto desiderato non ci segue, che ci troviamo soli, desideranti. La capacità della donna di trasformare questa dimensione melanconica della vita in fonte di ricerca dell’altro, di conservarlo quest’altro vivo nonostante il carattere discontinuo della sua presenza, sostiene la nostra esistenza e l’intera civiltà.

La capacità della donna di gestire la solitudine ci insegna molto in questo periodo, è la forza di Eloisa. La quarantena psichica, la quale, non ci dobbiamo ingannare, esercita una forte pressione dentro di noi, rinforza tutte le nostre fobie nei rapporti con gli altri, converte, con l’aiuto del pericolo reale rappresentato dall’infezione, l’ambiente esterno in spazio straniero, estraneo, ostile. Questo ambiente estraneo non è percepito solo come qualcosa esterno alla nostra casa, ma anche come qualcosa che sta dentro di essa. La desolazione (loneliness) perverte la solitudine (solitude) in isolamento dal nostro Sé desiderante. Questo ci ha detto più di mezzo secolo fa Arendt, valorizzando un’intuizione di Epitteto: l’uomo eremos che non si relaziona con gli altri o li vede come ostili nei propri confronti.

 

 

Note

[1] Psicologo Clinico-Psicoanalista, Membro della Società Psicoanalitica Ellenica HPS IPA

[2] Psichiatra-Psicoanalista, Membro ordinario con funzioni di Training della Società Psicoanalitica Italiana

[3] Psichiatra-Psicoanalista, Membro della Società Psicoanalitica Ellenica HPS IPA

 

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