C. BOLTANSKI, 2015
A cura di Franco De Masi
Il concetto di trauma in psicoanalisi ha subito alterne vicende sia nella definizione sia nel rilievo attribuitogli come causa di malattia dell’adulto. In passato si considerava traumatico un evento unico, improvviso e violento. Attualmente si pensa che molti eventi, pur non avendo un carattere violento, siano fonti di futura patologia perché determinano una violazione dell’apparato psichico del bambino.
Esistono traumi che producono effetti catastrofici ad ogni età, ma non tutti gli eventi traumatici producono danni: l’effetto patogeno di un evento dipende, infatti, non solo dalla sua intensità, ma dall’età e dalla fase dello sviluppo dell’individuo che lo subisce. Ciò che è patologico ad una certa età può non esserlo in un’epoca successiva. Inoltre, occorre tener presente che un evento isolato può non avere sempre un effetto patogeno dato che una naturale capacità riparativa può limitare il danno.
Il trauma psichico, pertanto, consiste in un’azione, improvvisa o ripetuta, che risulta lesiva perchè non sono ancora pronte le difese necessarie alla protezione da un avvenimento schiacciante che non può essere compreso ed elaborato.
Tra i primi autori che hanno valorizzato l’importanza del trauma infantile nella sofferenza dell’adulto, Ferenczi (1929) ha messo in evidenza i modi in cui la sensibilità e la competenza del bambino possono essere insidiate dagli adulti quando questi intrudono con i loro bisogni nella sua area privata.
Balint (1968), psicoanalista ungherese e allievo di Ferenczi, ha parlato di difetto fondamentale (basic fault), qualcosa che accade nei primissimi mesi di vita e che porta a una mancata integrazione tra madre e bambino; le brecce traumatiche derivano dall’incapacità materna di adattarsi ai bisogni di base del piccolo.
Al pari della febbre reumatica infantile, che produce danni che compaiono solo successivamente nella vita adulta, gli effetti del trauma emotivo si manifestano in modo imprevedibile e a distanza.
Il concetto di membrana protettiva, formulato da Freud (1920) all’interno della concezione economica dell’apparato psichico, è stato arricchito in particolare dal contributo di Masud Khan (1963), con il concetto di trauma cumulativo. Egli applica coerentemente l’intuizione di Winnicott quando descrive un bambino che ha bisogno della madre e di una madre che fa parte del sé del bambino. Nel caso del trauma cumulativo il bambino risponde alle ripetute intrusioni materne con inibizioni o distorsioni dello sviluppo psicologico.
La funzione di membrana protettiva per la mente corrisponde alla competenza emotiva dei genitori che intuitivamente capiscono quali sono le esperienze psichiche che il bambino è in grado di tollerare.
È la madre, nella visione winnicottiana (unità duale tra madre e bambino) e in quella bioniana (contenitore-contenuto), che si costituisce come barriera contro l’eccesso di stimoli. Il trauma continuativo consegue alla mancanza della funzione materna di contenimento e, nei casi estremi, alle proiezioni dei genitori di loro contenuti psichici patologici nella mente del bambino. Masud Khan indica alcune delle possibili distorsioni derivanti dalla mancata funzione di membrana protettiva come, ad esempio un precoce e selettivo sviluppo dell’io in linea con una collusiva risposta alla madre, false identificazioni con l’oggetto primario e distorsioni nella percezione dell’io-corporeo.
L’ipotesi è che i precursori del pensiero e dell’affettività, che si formano tramite processi inconsapevoli, possano essere disturbati nella primissima infanzia da eventi traumatici ha preso un rinnovato vigore dopo l’introduzione del concetto di memoria implicita, cioè dell’esistenza di eventi nella primissima infanzia, impossibili da registrare e da ricordare.
E’ giusto ricordare che Anne-Marie e Joseph Sandler (1987) avevano già teorizzato l’esistenza dell’inconscio passato, formato da una serie di vicende inconsapevoli, impossibili da recuperare, e dell’inconscio presente, quello accessibile, che si forma più tardi sulla base di esperienze emotive rappresentabili. I neuroscienziati hanno messo in luce che l’assenza di ricordi che caratterizzano i primissimi anni di vita non è dovuta all’amnesia infantile, effetto della rimozione come ipotizzato da Freud, quanto dalla mancata maturazione delle strutture cerebrali deputate a immagazzinare i ricordi, in particolare l’ippocampo. Le conseguenze più rilevanti per la psiche deriverebbero dalla precocità dell’esperienza traumatica quando questa è in grado di disorganizzare ab inizio lo sviluppo delle strutture di base del comportamento.
Seguendo questa linea di pensiero, Fonagy (1999) ha sostenuto, ad esempio, che gli stati borderline derivano da traumi precoci, incorporati quando non esiste la possibilità di rappresentarli. I pazienti borderline e quelli psicotici sarebbero pertanto incapaci di mentalizzare, ossia di rappresentare le emozioni, gli accadimenti psichici e gli stati mentali di cui ignorano il significato.
Si potrebbe, pertanto, concettualizzare l’insieme delle risposte distorte capaci di condizionare in senso psicopatologico lo sviluppo infantile come trauma emotivo, o trauma nella relazione primaria (De Masi, 2012).
L’esperienza clinica conferma l’effetto traumatico delle distorsioni precoci della comunicazione emotiva tra la mente del genitore e quella del bambino.
Si tratta spesso non tanto di un’assenza emotiva, quanto dell’intrusione di parti malate, superegoiche o confuse, dell’oggetto primario. Parti dell’oggetto sono assimilate al sé con la conseguente creazione di un’identificazione patologica con un oggetto invasivo che viene a fare parte del sé del bambino (Williams, 2004).
In questo caso ci troviamo di fronte a un oggetto internalizzato che si comporta come se facesse parte del paziente; nelle patologie più complesse questi introietti lavorano contro il paziente, a volte seducendolo, a volte intimidendolo, ma soprattutto confondendolo.
Nel campo dei disturbi psichici più complessi è importante distinguere le strutture patologiche originate da un’intrusione precoce degli oggetti primari da quelle che presuppongono una costruzione attiva da parte del paziente.
Quello che balza in primo piano in alcuni casi non è una sofferenza traumatica vera e propria, ma l’assenza di strutturazione della mente nel corso della vita infantile.
Se il bambino vive in un mondo privo di risposte emotive da parte dei genitori, non può sviluppare quelle rappresentazioni che sono fondamentali per la costituzione del suo senso di realtà. A volte l’assenza psichica del genitore favorisce una fuga piacevole nel mondo dell’immaginazione a scapito del contatto con la realtà psichica. Questa è una delle ragioni per le quali un certo numero di pazienti, che pure ha avuto un’infanzia traumatica, non è assolutamente consapevole di questo fatto. Secondo il mio modo di vedere (De Masi 2012), due fattori ugualmente importanti, destinati a potenziarsi a vicenda, concorrono a favorire la psicopatologia dei pazienti più gravi: la mancanza d’empatia proveniente dall’ambiente e la costruzione da parte del bambino di strutture psicopatologiche che lo fanno deviare dallo sviluppo normale. Le strutture psicopatologiche, specifiche per ogni paziente, si sviluppano precocemente e, pur collegate al carattere degli oggetti primari e alla loro interazione con il paziente, acquisiscono nel corso del tempo una configurazione stabile e autonoma.
All’estremo dello spettro che mette in relazione la sofferenza psichica dell’adulto al trauma infantile si colloca la reazione vittimistica al trauma di alcuni pazienti che incontriamo nella nostra pratica clinica. Mentre la maggioranza dei pazienti, spesso, non hanno consapevolezza dei traumi emotivi infantili, che di solito emergono solo tardivamente in analisi, altri li comunicano sin dall’inizio della terapia. Essi fanno un’accurata descrizione del carattere dei genitori, delle loro mancanze e delle ingiustizie subite; sembra che annotino tutti i torti, quelli inevitabili e quelli occasionali, per eccitarsi in un rifugio mentale pieno di risentimento e di violenza. La partecipazione emotiva dell’analista non li conforta, anzi sembra aumentare l’entità delle lamentele; nel denunciare le sofferenze del passato, la posizione di vittima si alimenta e sviluppa un’aggressività crescente. Essi possono sviluppare un transfert in linea con questo risentimento nella dipendenza.
J. Steiner (1993) sostiene che specifiche organizzazioni patologiche sono alla base di questi stati di risentimento e rancore, che possono essere intesi come difese passive, masochistiche o maniacali, da sensi di colpa che il paziente non è in grado di accettare. Sentirsi cronicamente vittima di ingiustizie servirebbe a non mettere in discussione la propria parte di responsabilità e a non elaborare il lutto per il trauma sofferto e per quanto è stato perduto nel passato che non è più recuperabile. La sofferenza traumatica è trasformata in una guerra cronica in cui l’oggetto è torturato senza mai perdere la relazione con esso; la soddisfazione perversa che si ottiene eccitandosi nel circolo controaggressivo rende sempre più difficile il cambiamento.
Bibliografia
Balint M. (1968), The Basic Fault: Therapeutic Aspects of Regression, Tavistock, London trad.it. Il difetto fondamentale in La regressione, Cortina, Milano 1983.
De Masi F. (2012) Lavorare con i pazienti difficili. Bollati Boringhieri, 2012.
Ferenczi S. (1929), Il bambino indesiderato e il suo istinto di morte. Vol.4. Cortina “Opere”.
Fonagy P. (1999), Memory and therapeutic action, Int. J. Psycho-Anal., vol. 80, 215-223.
Freud, S. (1920) Al di là del principio del piacere. Vol. 9. OSF
Khan M. (1963), The Privacy of the Self, Hogart Press, London 1974. trad.it. Il concetto di trauma cumulativo in Lo spazio privato del sé, Bollati Boringhieri, Torino 1979.
Sandler J.; Sandler A. M. (1987), The past unconscious, the present unconscious and the vicissitudes of guilt. Int. J. Psycho-Anal., vol. 68, 331-441.
Steiner J. (1993), Psychic Retreats. Pathological Organisations in Psychotic, Neuroticand Borderline Patients. Routledge, London. [tr. it. I rifugi della mente. Bollati Boringhieri, Torino 1996.]
Williams P. (2004), Incorporation of an invasive object. Int. J. Psycho-Anal. vol. 85, 1333-1348.
Luglio 2014