Aida Muluneh, The Morning Bride, 2016
A cura di Virginia De Micco
In che termini possiamo fondatamente parlare di un ‘trauma’ migratorio, il quale si configura essenzialmente come un trauma ‘identitario’, uscendo dalla generica percezione di una accentuata vulnerabilità psichica che accompagna l’esperienza migratoria?
Innanzi tutto varrà la pena di seguire un breve excursus storico che ripercorra alcune delle tappe significative che hanno costituito il nesso tra esperienza migratoria e sofferenza psichica. Riflessione che risulta tanto più significativa, e per certi versi indispensabile se si vuole costruire una posizione critica sull’argomento, in quanto si vedrà come storicamente si ripropongono alcune modalità paradigmatiche di impostare , o occultare, la questione di tale rapporto fondativo e delle poste in gioco che vi sono connesse.
Il modello della nostalgia-malattia
Prendiamo come punto di inizio la famosa Dissertatio medica in cui un giovane studente di medicina, Johannes Hofer, nel 1699 conia il termine ‘Nostalgia’ . Non che non esistessero già in epoche precedenti descrizioni e testimonianze soprattutto letterarie e poetiche di vissuti nostalgici legati alla lontananza dalla propria terra natia, sebbene il termine non esistesse ancora, ma quello che ci interessa cogliere è il momento in cui questa generica percezione si traduce invece in una concettualizzazione medica, in una ‘entità’ clinica: diventando così oggetto di un sapere che intende ‘fissarne’ i tratti e le caratteristiche ma soprattutto ripercorrerne le cause. Questione non da poco visto che la posta in gioco è rappresentata niente di meno che dalla stessa costituzione soggettiva dell’umano nel suo ‘legame’ alla sua Heim. , alla sua casa-patria, a ciò che gli è heimlisch, familiare , o, al contrario, a ciò che può essergli o diventare unheimlisch, non familiare o, meglio, in termini più strettamente analitici perturbante.
Il termine ‘nostalgia’ innanzi tutto traduceva nel linguaggio dotto della medicina quella esperienza della ‘Heimweh’, quel ‘dolore della casa’, della patria, di cui nelle valli svizzere si sapeva che si poteva morire. Come si ricorderà si trattava infatti di un grave stato di cachessia psicofisica che in maniera repentina e inspiegabile si impossessava in particolare dei giovani soldati di ventura svizzeri che servivano presso le varie corti europee fino a portarli a morte. Uomini nel pieno vigore fisico, che anzi proprio per il loro vigore fisico venivano scelti per esercitare la ‘professione’ di soldati di ventura, che invece in maniera incomprensibile per la medicina dell’epoca improvvisamente ‘cedevano’ proprio in quello che era il nucleo del loro essere: la forza fisica. Si intuiva che dovesse esserci qualcosa ‘nell’ambiente’ che improvvisamente veniva loro a mancare e si cercava di ripristinarlo attraverso una elementare logica restituiva: così si cercava di issarli con delle carrucole ad una certa altezza per fargli respirare un’aria più fina, più simile a quella delle valli natie: effetto quasi grottesco che in una apparente logica pseudoscientifica cancella il portato emotivo-affettivo-sensoriale della ‘Heim’ per ridurla ad una semplice questione ‘ambientale’. Non sarà forse un caso che nel passaggio dal sapere popolare ( Heimweh) a quello dotto (Nostalgia) è proprio il riferimento alla Heim che scompare. L’osservazione empirica costringe però anche l’occhio dello scienziato dell’epoca – ed è questo il nucleo della Dissertatio- a constatare come il ‘ritorno’ al paese natio, concesso a questi uomini in fin di vita per farli morire vicino alle loro famiglie, avesse invece il potere, quasi miracoloso, di farli completamente riprendere e ristabilire: così come inspiegabilmente si erano ammalati , e sarebbero giunti a morte certa, altrettanto inspiegabilmente guarivano. Fin dal suo apparire sulla scena medica dunque la nostalgia si presenta come una ben strana malattia che pur manifestando i suoi effetti, i suoi pesanti e irreversibili effetti, nel corpo degli individui, dunque sul piano bio-logico, può poi essere risolta efficacemente solo se si tiene conto di ciò che fa di quel corpo, di quel sostrato bio-logico, un ‘umano’ , ovverosia se si tiene conto del suo portato antropo-logico. Ancora oggi del resto, resta come tratto caratteristico delle popolazioni migranti l’espressione di insolute dinamiche di adattamento -e di quel ‘disagio nascosto’ così tipico dell’emigrazione- attraverso disturbi somatici tanto vaghi e difficilmente descrivibili quanto persistenti e addirittura invalidanti. Disturbi etichettati genericamente e semplicisticamente come ‘somatizzazioni’ ma che in realtà traducono un’esperienza molto più complessa e delicata di perdita di ‘solidarietà’ , per così dire, tra mondo interno e mondo esterno, tra quel corpo che è la mia patria e quella patria che è il mio corpo, che nella situazione migratoria sembrano parlare ormai linguaggi differenti, non mutuamente traducibili.
Il modello della nostalgia-malattia come griglia per pensare il disagio migratorio è stato successivamente pesantemente criticato da studiosi di formazione sociologica e storica (cfr. Delia Frigessi, 1982, 1993) che hanno evidenziato come si sia tentato attraverso la lente biomedica una operazione riduzionistica in cui veniva cancellata la costrizione socioeconomica come fattore decisivo rispetto alla ‘scelta’ migratoria e al conseguente malessere individuale e collettivo, riguardante a diversi livelli le comunità coinvolte, che ne conseguiva. Ma la connotazione ‘medica’ della nozione di nostalgia è in realtà più complessa e ricca di implicazioni dal momento che invece, a ben vedere, evidenzia al contrario come l’impalcatura organica non regga alla mancanza dei quell’intelaiatura simbolico-affettiva costituita dalla propria Heim (lingua-ambiente): una delle caratteristiche riportate nella Dissertatio era infatti che un violento ‘attacco nostalgico’ potesse essere scatenato dall’ascoltare suoni e canti appartenenti alla terra natia.
Ma il potenziale critico della nozione di nostalgia rispetto al nascente paradigma biomedico ( ci troviamo infatti ancora in un’epoca di medicina prescientifica , in cui cioè si sta giocando un partita capitale rispetto alla “nascita della clinica” come ci insegna Foucault) viene rapidamente disinnescato, tant’è vero che la nostalgia nell’arco di circa 150 anni uscirà rapidamente dai trattati medici ( assieme al mal d’amore) per andare a indicare quello struggente sentimento che pervade chi è lontano dal proprio mondo e dagli oggetti amati. (Cfr. voce Nostalgia-Spipedia ), mentre la figura paradigmatica del disturbo psichico connesso alla migrazione sarà rappresentato dalla figura de
L’alienèe migrateur
A metà circa dell’ ‘800 Achille Foville figlio, ‘alienista’ che presta servizio nella città di Le Havre, grande porto affacciato sull’Atlantico da cui partono masse di diseredati dall’Europa verso le Americhe, conia questa etichetta nosografica che intende, in un certo senso, dare ‘ordine’ e pensabilità rispetto ad un coacervo di osservazioni ed esperienze ‘disordinate’ , in cui appunto disordine sociale e disordine psichico appaiono sommarsi e confondersi.
Foville osserva le manifestazioni più disparate negli ‘alienati migratori’, dalle reazioni depressive a quelle ipomaniacali , dalla ‘follia ragionante’ ( paranoica) a quella più francamente delirante (paranoide), il cui unico comune denominatore sembra rappresentato da una ‘incoercibile’ necessità di partire, di migrare, di abbandonare le proprie terre. Ecco che già il nesso causale della sofferenza psichica connessa alla migrazione comincia a invertirsi completamente: non è la lontananza che fa ammalare (come nella nostalgia descritta da Hofer) ma, al contrario, è la malattia, la follia già costituzionalmente preesistente, che fa allontanare, che spinge a migrare. Dunque nella folla indistinta dei migranti che si accalcano per partire non bisognerà faticare particolarmente a trovare motivazioni che giustifichino profondi disagi psichici connessi con la dolorosa esperienza del migrare ma, al contrario, quelli che manifesteranno comportamenti bizzarri saranno semplicemente già alienati e la loro migrazione né più né meno che un ‘sintomo’ del loro stesso disturbo psichico. Anzi si andrà oltre nella costruzione di questa griglia di ‘coerenza’ etiopatogenetica della ‘alienazione psichica migratoria’, andando a rintracciare nella labilità del legame ai propri affetti e alle proprie origini le cause prime della successiva partenza: il migrante è dunque ‘costituzionalmente’ a rischio di una crisi psicopatologica proprio in quanto ‘migrante’, che diventa quasi una ‘stigmata’ psicopatologica.
Si prefigura dunque uno sfondo non esplicito ma esplicitabile all’occasione secondo cui in fondo tutti i migranti sono costituzionalmente più vulnerabili dal punto di vista psichico: è solo a questa condizione che si allontanano dalle loro famiglie, per cui non c’è da meravigliarsi troppo se poi, in seguito, si ammaleranno psichicamente: non si tratta di qualcosa di imputabile al contesto di accoglienza né tantomeno all’esperienza del migrare in sé, di cui viene totalmente espunta la ‘portata’ traumatica appunto, ma quasi di una ‘logica’ conseguenza della premessa della vulnerabilità costituzionale, integralmente giustificata in fondo dalla costruzione del migrare come un ‘sintomo’ e non come una dolorosa necessità a cui non ci si può sottrarre. Non sarà superfluo evidenziare come i cardini di questa impostazione di pensiero riemergano sotto mentite spoglie anche nelle odierne letture e reazioni agli imponenti flussi migratori verso l’Europa questa volta, e non dall’Europa.
Lo shock culturale
La psicopatologia dell’emigrazione continua ad accumulare osservazioni e dati in corrispondenza di altre consistenti ondate migratorie tra fine ottocento e inizio novecento, coniando gustose etichette nosografiche in cui confluiscono stigmatizzazioni etniche e attitudini pregiudiziali travestite da conoscenza scientifica: tanto per citarne qualcuna la “mania errabunda” degli scandinavi e la “follia masturbatoria” degli ebrei.
Ma è solo alle soglie degli anni ’60 del secolo scorso che comincia a farsi strada la teoria dello shock culturale : ovverosia si comincia a riconoscere il peso specifico di un improvviso e massiccio cambiamento del contesto culturale nello scatenamento di gravi ‘reazioni’ psicopatologiche.
Varrà la pena di ricordare ad esempio come il dibattito dell’epoca sulla possibilità o meno di individuare forme psicotiche integralmente ‘psicogene’ ruotasse spesso attorno a soggetti sradicati: la partita teorica ed epistemologica in gioco era cruciale dal momento che si trattava addirittura di stabilire se un’esperienza individuale ( un life-event) potesse rendere psicotico un soggetto che non lo era o non lo sarebbe diventato senza quella specifica esperienza psichica. Come si vede si tratta in realtà di una problematica molto complessa a cui non si possono dare risposte troppo semplicistiche o generiche. In questo acceso dibattito alternativamente si riproporranno le due posizioni paradigmatiche che abbiamo individuato in precedenza propendendo, di volta in volta, o per sovrastimare l’effetto del brusco cambiamento del contesto socio antropologico, con la perdita di ‘familiarità’ delle attitudini relazionali e delle modalità di espressione delle emozioni soprattutto, oppure per riscoprire il filo storico individuale e dunque le componenti strettamente personali , ivi comprese le determinanti inconsce, nel provocare una specifica reazione psicopatologica all’esperienza migratoria. In quest’ottica essa perderebbe la sua specificità, e mi riferisco alla sua specificità ‘traumatica’, per diventare né più né meno che uno dei molteplici esempi di grave evento ‘stressante’, le cui conseguenze dipenderebbero dunque essenzialmente dalle capacità di elaborazione individuale, riproponendo dunque di fatto il piano della ‘vulnerabilità’ individuale.
L’obiezione più semplice e immediata in sede clinica alle teorie dello shock culturale era infatti rappresentata dall’osservazione che solo una quota ridotta della popolazione migrante manifestava patologie psichiatriche, ergo ciò doveva dipendere da una ‘costituzionale’ fragilità psichica piuttosto che dalla rilevanza e dalla specificità dell’esperienza migratoria.
Ancora una volta sarà necessario allargare la visuale alla complessità di una dimensione antropologica, piuttosto che alla sola dimensione psico(pato)logica, per reimpostare la questione: il disagio psichico connesso alla migrazione è così diffuso e pervasivo -dal momento che coinvolge la stessa matrice psicoantropologica della quotidianità su cui dopo torneremo- da cristallizzarsi raramente in patologie psichiatriche conclamate. Quello stesso disagio potrà prendere forme ‘irriconoscibili’, nel senso che spesso il migrante non saprà più come esprimerlo e lo psichiatra occidentale non saprà come intenderlo, non potendo contare su modalità culturalmente condivise per manifestarlo. Basterà ricordare a tale proposito la prevalenza sempre riscontrata di patologie psicosomatiche: da manifestazioni gravi e potenzialmente mortali ( per un certo periodo una delle cause più frequenti di morte nei migranti meridionali verso la Germania è stata rappresentata dall’ulcera gastrica perforata) a patologie meno gravi ma facilmente cronicizzanti e potenzialmente invalidanti. Osservazione questa ancora riconfermata recentemente da Frighi e coll. (1988) che erano giunti a proporre una ‘psichiatria di liaison’, che affiancasse le altre branche mediche di base, come unica valida forma di assistenza psichiatrica per le popolazioni migranti.
Ma ancora, come già segnalava Gianfausto Rosoli negli anni ’70, non è semplice stabilire il costo psicologico della migrazione, forse non basta una generazione, bisogna attrezzarsi a valutarne gli effetti di lungo periodo, forse su due o tre generazioni per comprenderne davvero la profondità e la pervasività. Bisogna attrezzarsi a rilevarne gli effetti nascosti: quelli più insidiosi e costanti. Con le sorprendenti, e in un certo senso profetiche, parole di Michele Risso (1982) il compito di una psicopatologia della migrazione autenticamente capace di ricostruire le molteplici declinazioni del ‘trauma migratorio’ dovrebbe piuttosto capire cosa “avviene nella mente di chi emigra e non si ammala”, quali ferite psichiche nasconde, quali cicatrici relazionali lascia, quali fratture trans generazionali comporta quella apparente ‘integrazione’, che spesso costituisce solo una vernice superficiale nelle migrazioni cosiddette riuscite.
Ancora Risso giunge a descrivere lo stesso processo di ‘assimilazione’ , o di ‘integrazione’ con una dizione più moderna, come un “microtraumatismo quotidiano”, e su questo aspetto specifico di un ‘quotidiano’ che assume una qualità intrinsecamente traumatica dopo ritorneremo.
Il contributo italiano: la casistica psichiatrica e i legami spezzati
Varrà giusto la pena di osservare come fino a quest’epoca la storia, i metodi e i campi di interesse della psicopatologia delle migrazioni, pur nelle sue versioni più avvedute e attente anche alle variabili culturali, non abbia praticamente nulla a che fare con le metodologie e con l’ottica etnopsichiatrica. Non è questa la sede per approfondire criticamente i rapporti tra questi due indirizzi disciplinari ma vale la pena di ricordare che, come abbiamo visto, la psicopatologia delle migrazioni ha una lunga autonoma storia, in cui vengono elaborati schemi concettuali e modelli di interpretazione, da un lato, e vengono accumulate osservazioni cliniche dall’altro. Molto a lungo tali osservazioni, come abbiamo esposto, hanno risentito di attitudini pregiudiziali e di una sostanziale incapacità di andare oltre la categorizzazione nosografica ma è proprio nel secondo dopoguerra che ,invece, si fa strada una attitudine innanzi tutto molto più attenta alla casistica psichiatrica, piuttosto che a una statistica sempre molto fallace in questo campo ( Cfr. a tale proposito il lucidissimo “Le statistiche di Sisifo” in Frigessi e Risso, 1982). In questa rinnovata capacità di ricostruzione di quei tragitti antropologici sommersi che possono condurre da accelerati fenomeni di trasformazione sociale e culturale a vere e proprie derive psicopatologiche, un ruolo di assoluto rilievo hanno gli studi di alcuni psichiatri italiani ( Risso, Mellina, Frighi e altri) che tra i primi si confrontano con lo spaventoso costo psichico di questa nuova stagione storica della migrazione italiana, ivi compresa la massiccia migrazione interna , il cui bilancio in sede critica e storica sul piano delle conseguenze psicoantropologiche per intere aree del nostro paese è ancora tutto da scrivere.
Questo costo in termini psichici, a livello individuale-familiare, e in termini antropologici, per le conseguenze sulle comunità coinvolte, in particolare quelle di partenza, era rimasto spesso occulto. Gli studi sulle conseguenze psichiche delle migrazioni, sempre condotti nei paese di accoglienza, restavano inevitabilmente parziali e ciechi su una serie di aspetti, mentre forse per la prima volta in questo campo sono gli studiosi dei paesi di partenza che si ritrovano a ‘vedere’ tutto quello che era restato occultato In particolare gli studiosi italiani di fronte alle migrazioni interne, che hanno letteralmente ‘sovvertito’ il tessuto socioantropologico italiano, si ritrovano in una posizione eccezionale nel poter osservare in un ambiente relativamente ristretto dal punto di vista ‘geografico’ tutto l’arco complesso delle conseguenze psichiche delle migrazioni, le quali comportano non solo conseguenze su chi parte, ma anche su chi resta ( basterà ricordare le cosiddette ‘vedove bianche’ nel meridione d’Italia) e su chi accoglie, e poi ancora su chi ritorna. Tali conseguenze come abbiamo visto non è detto siano immediate, possono far sentire i loro effetti a lungo termine sulle seconde generazioni, non solo su quelle nate all’estero e lì rimaste, ma anche sui ragazzi nati all’estero e poi magari rientrati al seguito delle famiglie o ancora sui bambini rimasti in patria mentre i genitori erano lontani. Fenomeni che per decenni hanno riguardato intere aree del nostro paese, sebbene sempre in maniera piuttosto ‘sotterranea’ e che ora si ripropongono puntualmente nelle nuove migrazioni. E’ a questo che ci si riferisce quando si parla dei legami affettivo-simbolici spezzati dalle migrazioni , in cui consiste in gran parte la portata traumatica dell’esperienza migratoria: si tratta appunto non solo dei legami affettivi ma anche delle posizioni simboliche coinvolte, in particolare la funziona paterna risulta particolarmente depotenziata, in quanto si dimostra inefficace nel fungere da garante dell’ordine simbolico originario che risulta inevitabilmente minoritario e perdente rispetto a quello adottivo.
Per la sua stessa dinamica socioantropologica la migrazione attiva dei veri e propri cambiamenti catastrofici nelle comunità di partenza, mettendone quasi suo malgrado in discussione, fino addirittura a disarticolarla, la struttura simbolica profonda: i sistemi di valori, i sistemi di parentela etc. Anche i tentativi di irrigidimento misoneista di tali sistemi di valori , comprese le più recenti dinamiche di ricostruzioni ‘integraliste’ dei valori religiosi tradizionali, in realtà non costituiscono altro che una reazione a tale disarticolazione profonda, con effetti ancora più disfunzionali e patogeni sui soggetti e le comunità coinvolte com’è evidente. Insomma la stessa dinamica migratoria attiva le fonti traumatogene di cui resta vittima: la tematica del ‘tradimento’ delle proprie origini, fino a giungere ad elaborazioni francamente persecutorie, rappresentano una fonte costante di ‘traumatismo’ psichico per i migranti, stretti in questo senso tra angosce depressive e angosce persecutorie.
Questa serie di osservazioni cliniche, condotte con una profonda sensibilità antropologica, intesa come capacità di contestualizzare costantemente l’individuo nel suo ambiente relazionale affettivo e simbolico, sono assolutamente preziose e consentono di ‘temperare’ l’indubbio peso del brusco cambiamento culturale con l’inesausto lavoro di lutto che anche la migrazione più riuscita richiede .
Con la celebre immagine di Frigessi e Risso il migrante si ritrova sempre “a mezza parete”, come l’alpinista che resta a mezzo lungo la parete di roccia, ormai molto distante dal suo punto di partenza ma ancora non in vista di quello di arrivo, sempre in mezzo al guado sebbene apparentemente ‘approdato’ in un luogo sicuro.
E’ questa la condizione psichica in cui il migrante resta costantemente ‘sospeso’ anche per anni o per una vita intera, che ne logora giorno dopo giorno la struttura psichica e ne fragilizza la tenuta identitaria, costituendo quella condizione di traumatismo diffuso, tanto pervasivo quanto difficilmente rappresentabile, che resta costantemente attivo come sotterranea erosione del tessuto del quotidiano.
Un trauma ‘culturale’ ?
Ma allora come intendere la specificità, e la specificità psichica non genericamente sociale, del trauma migratorio, pur nelle sue differenti declinazioni? uscendo dalle secche della riproposizione sotto mentite spoglie dell’alternativa variabile ambientale/variabile costituzionale?
Leon e Rebeca Grinberg nel loro pionieristico studio sulla “psicoanalisi dell’emigrazione e dell’esilio” equiparavano l’esperienza migratoria ad una vera e propria “esperienza di rinascita”. Questa straordinaria intuizione ci aiuta a ricostruire la profondità psichica di un elemento traumatico che si radica nella necessaria disarticolazione , e dunque poi nella successiva ri-articolazione, di quel nesso fondativo tra psiche individuale, relazioni primarie ed intelaiatura culturale che le regge entrambe.
Dunque per comprendere la portata ‘traumatica’ dell’esperienza migratoria occorrerà innanzi tutto rifarsi alla dimensione costitutiva dell’esperienza culturale per la psiche individuale, in particolare all’interno di quelle relazioni primarie che danno letteralmente ‘corpo’ alla dimensione linguistico-simbolica che costituisce la dimensione culturale. La cultura è in questo senso corpo-affetto, dimensione letteralmente incorporata e che struttura la percezione/rappresentazione della propria corporeità/affettività e della stessa immagine di sé. Tobie Nathan parla a tale proposito di un vero e proprio “doppio culturale” in cui la struttura psichica interna si rispecchia e si reduplica nella struttura esterna: in questo senso il sistema di legami simbolici istituiti nel tessuto culturale non rappresenta un cerchio più esterno che ‘contiene’ la psiche individuale , costituendo una sorta di ‘abito’ culturale che sia dunque possibile cambiare all’occasione: si tratta piuttosto di un elemento strutturale che edifica la psiche costituendone una sorta di ‘connettivo’.
E’ per questo che l’autentica frattura culturale connessa alla migrazione non è tanto una frattura interpsichica, rispetto al contesto esterno, quanto una frattura intrapsichica in cui si altera un fondamentale senso di ‘continuità’ culturale. Quest’ultimo consente una sorta di ‘inavvertito’ e tacito rispecchiamento non soltanto in una dimensione ‘orizzontale’ di significati condivisi -quella dimensione che dunque struttura l’ovvietà del quotidiano per così dire- ma anche in una dimensione verticale, ovverosia in quella dimensione ‘genealogica’ che costituisce l’asse portante del sentimento di identità, sentimento radicato nel senso di appartenenza affettiva ad una comunità simbolica che lega le generazioni.
Come si ricorderà già Freud (1914) segnalava come ogni nuovo nato, ogni figlio, riceva una sorta di ‘premio narcisistico’ in quanto erede e discendente di una tradizione culturale, in quanto continuatore di una stirpe. In questa possibilità di rispecchiamento identitario, sul piano culturale-genealogico, tra genitori e figli, ma ancora di più tra antenati e discendenti, si situa quella dimensione verticale che conferisce profondità e solidità all’edificio narcisistico, costituendo in un certo senso le fondamenta del sentimento di identità.
L’esperienza migratoria inevitabilmente altera tali nessi strutturali, con modalità diversificate e specifiche tra prime e seconde generazioni in particolare: il trauma ‘migratorio’ per la sua particolare natura, infatti, non esaurisce i suoi effetti nell’arco di una generazione, ma necessariamente si ‘propagherà’ nelle successive, e questo esattamente per la sua natura di trauma ‘culturale’.
L’esperienza migratoria comporta dunque una sorta di riproposizione della condizione di Hilflosigkeit infantile, resa drammaticamente evidente proprio dalle più recenti ondate migratorie, in cui si ridiventa preda di bisogni primari che costringono a sperimentare nuovamente una condizione di inermità e di dipendenza. Non solo, l’estraneità al contesto linguistico costringe a ricadere letteralmente nella condizione dell’ infans, sperimentando nuovamente i frammenti pulsionali ed emotivi arcaici che abitano la lingua, mentre il processo di simbolizzazione primaria dell’esperienza deve essere in un certo senso ‘ripercorso’ e , almeno parzialmente, rifatto alla luce del nuovo codice simbolico in cui ci si ritrova immersi, con tutto il rischio che questo rinnovato processo di simbolizzazione psichica possa fallire. Vorrei sottolineare come si tratti proprio di rimettere in gioco aspetti della simbolizzazione primaria, che coinvolgono l’esperienza della corporeità e dell’affettività: non si tratta semplicemente di apprendere una nuova lingua e delle nuove consuetudini quanto piuttosto di un intero ‘modellamento’ degli habitus corporei , per usare l’espressione cara a Pierre Bourdieu, che modifica la stessa autopercezione e autorappresentazione dell’immagine di sé, così come sul piano affettivo si tratta addirittura di riuscire a ‘nominare’ configurazioni relazionali-affettive inedite.
Tra l’altro tali aspetti diventano tanto più evidenti proprio nelle più recenti ondate migratorie, in cui le massicce violenze di cui spesso i migranti sono stati vittime, assieme ai processi di desertificazione culturale già in atto nei paesi di provenienza, provocano una effrazione del guscio identitario, col risultato di trovarsi spesso di fronte a individui che hanno subito una violenta ‘deculturazione’ piuttosto che essere portatori di una presunta ‘identità’ culturale, solida e riconoscibile.
Si tratta dunque di un delicatissimo e incessante processo di riformulazione identitaria che rende i migranti costitutivamente a rischio di un ‘cedimento’ della struttura egoica, soprattutto laddove tale riformulazione appare il frutto di un rapido e massiccio processo di mimesi identitaria, piuttosto che di una autentica metabolizzazione introiettiva . Attitudine mimetica che del resto è indispensabile per assicurare una condizione di sopravvivenza psichica, in cui meccanismi di negazione e di scissione sono indispensabili per evitare il contatto con affetti intollerabili e rappresentazioni ingestibili, incompatibili col mantenimento dello statuto di soggetto.
E’ proprio questo l’intreccio traumatico, costantemente attivo, cui si riferiva Michele Risso a proposito del ‘microtraumatismo quotidiano’ cui il migrante è sottoposto:
a) perdita della ovvietà dell’esperienza quotidiana, che risulta costantemente attraversata da autentici ‘significanti enigmatici’ che devono essere incessantemente sottoposti a un lavoro interpretativo
b) frattura del legame fondativo con le origini, che diventano area di conflitto e di inesausta interrogazione; fonti entrambi di profonde angosce persecutorie e depressive
c) necessità di un continuo lavoro di rifondazione identitaria che si muove su di un crinale molto sottile, in cui si fa sentire con forza l’instabilità di quei referenti metapsichici e metasociali di cui parla Kaes. Se il soggetto ha bisogno di un corpo-gruppo per costituirsi, e soprattutto mantenersi come tale, si intuisce come il migrante sia in realtà costantemente a rischio di smarrire la sua dimensione ‘soggettuale’, restando costantemente a rischio di sperimentarne la costitutiva fragilità. Anche dopo molti anni di una migrazione di successo resta alta la probabilità di sviluppare gravi crolli depressivi, patologie psicosomatiche invalidanti , attitudini rivendicative subdeliranti.
Il trauma migratorio possiede dunque molteplici declinazioni, la sua complessità non si esaurisce affatto nel momento drammatico dello ‘sbarco’ nel paese ospite, si tratta in realtà di un ‘processo’ ramificato e pluristratificato capace di distendersi nel tempo, attraverso le generazioni, e di espandersi nello spazio, coinvolgendo le comunità di partenza e di arrivo.
Processo traumatico, dunque, costruzione soggettiva che ha bisogno di incontrare un ascolto attento, capace di intenderne le profonde eco attraverso i suoi molteplici travestimenti, in particolare le sue perfette mimesi in maschere di riuscita integrazione, le quali potrebbero subitaneamente dissolversi.
La migrazione richiede un incessante lavoro di lutto delle origini, che non si può mai compiere definitivamente, perché questo equivarrebbe a sottrarre definitivamente ai propri antenati la loro stessa discendenza, è per questo che anche il ‘processo’ traumatico che la accompagna non può mai essere davvero ‘elaborato’, dal momento che quella ‘ferita congelata’ è spesso l’unico segno residuo del legame ad una memoria altrimenti inattingibile.
Per i migranti, dunque, non si tratta tanto di sopravvivere al trauma quanto di continuare a sopravvivere nel trauma.
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Giugno 2017