Solo oggi mi sono deciso a scrivere qualcosa per rendervi (rendermi) partecipe di quello che è accaduto nel mio paese martedì scorso. Stavo uscendo con il mio bimbo, che tra qualche giorno compirà un anno. Recuperavamo lentamente la normalità persa con l’evento di sabato, avevo deciso di fare una passeggiata con lui in bicicletta. Siamo sulla porta, pronti per uscire, quando improvvisamente parte una scossa, diversa rispetto a quelle di assestamento a cui mi sono abituato, subito molto forte, sembra quasi che un gigante, da fuori, stia stringendo con le dita muri della casa scuotendoli. Il piccolo Andrea, questa volta, a differenza della nottata del 20, si accorge di tutto, scoppia a piangere. Fortunatamente l’ho in braccio, lo stringo forte a me, mentre spero che tutto finisca. Le sollecitudini aumentano sempre più e un rumore “violento” ci aggredisce. Io e lui rimaniamo avvinghiati, con forzoso controllo rimango dentro per la paura che fuori ci possa cadere in testa qualcosa. La violenza continua, per un breve attimo mi lascio prendere dalla rassegnazione, perdendomi in quello che sarebbe potuto accadere. Piatti e bicchieri fuoriescono dagli armadietti frantumandosi e quei colpi “ritmici”, incessanti, mi lacerano la mente. Trascorsi 10 secondi di terrore, usciamo. Una donna grida disperata il nome del marito che non riesce a trovare. La gente è quasi mortificata, bloccata, congelata nelle espressioni. Comincio a cercare mia moglie al telefono. Lei lavora in una azienda biomedicale. Le linee sono bloccate. Non risponde. Io sono in giardino con mio figlio in braccio ed anche lui non si muove, tiene la testa appoggiata alla mia spalla. Non possiamo uscire perché le chiavi sono rimaste in casa. Potrei entrare dalla porta posteriore, ma temendo un’altra scossa non voglio rischiare. Intanto provo a contattare mia moglie ma niente.
Urla, sempre più forti. Dalla ringhiera passo il bimbo ad un ragazzo che lavora nel cantiere nei pressi della mia abitazione. Riesco a prendere le chiavi di casa che mi permettono di uscire. Mi riprendo mio figlio e continuo a chiamare Graziella. Niente. Caos generale nel quartiere. Un’auto della polizia entra sparata, i due agenti che scendono non sanno cosa fare. Un’altra scossa. Questa volta vedo la terra tremare. Andrea continua a rimanere attaccato e non dice nulla. Riprovo a chiamare Graziella. Nulla. Intanto la gente comincia a rientrare a casa dal lavoro. Volti segnati dalle lacrime. Io sono ammutolito. Altra scossa, ancora più forte. Guardo la casa con rammarico e tristezza. L’offesa continua. Continuo a chiamare mia moglie ma niente. Pensieri di morte. Mando SMS. Arrivano SMS di amici e colleghi di Milano preoccupati perché l’hanno sentita anche loro! Trascorre un’ora così. Finalmente mia moglie rientra a casa e abbiamo appena il tempo di abbracciarci, altra scossa, violentissima! Le lascio il bimbo e finalmente ho il tempo per dedicarmi un poco alla mia disperazione. La gente del quartiere diviene una risorsa. Le distanze si annullano e questo mi permette di alleggerire un po’ il carico di angoscia sul gruppo. Siamo tutti accumunati. Arrivano i miei genitori terrorizzati, e mi devo far carico anche di loro. Qualcuno monta dei tendoni per ripararci dal sole. Altra scossa, sembra che l’asfalto debba crepare da un momento all’altro. Prendo la Vespa e corro a vedere come sta il mio caro amico psichiatra. Elicotteri, ambulanze, vigili del fuoco, è pazzesco!
Lui sta bene ma è, ovviamente, sconvolto. Forzo il blocco al centro storico per vedere come stanno gli edifici della mia infanzia.
E’ il deserto. Il “San Francesco”, chiesa del 1200, è crollata. Una polvere bianca, spessa, ricopre la strada e mette ancora più in risalto la voragine che si è creata sull’asfalto. Rimane solo la facciata. Comincio a piangere. Ricordo i giochi che da piccolo facevo coi miei genitori su quelle scalinate. Gli oggetti esterni, che creavano un’abitudine, un setting che ti faceva sentire contenuto e parte di un qualcosa, la cui costanza, permanenza silenziosa, ti faceva sentire a casa, non ci sono più. O meglio, ci sono ancora ma sono morenti, in coma, mortalmente feriti, moribondi. Il tutto ha delle ripercussioni sui miei oggetti interni. I ricordi affiorano violentemente. Non è il momento giusto, ma loro arrivano lo stesso. Forse perché voglio mantenere vivo qualcosa. Forse perché voglio rianimare qualcosa? Un giornalista mi viene in contro e mi chiede: “Scusi, per il duomo?” Gli indico freddamente la strada. L’urgenza degli eventi lascia poco spazio al pensiero, corro a casa, (o meglio fuori casa), decido di annullare tutti gli impegni coi pazienti fino alla settimana successiva. Ricompongo la mia famiglia, e scappiamo in montagna. Una parte di me è ancora lì. La sofferenza è tanta.
Grazie per l’ascolto.
GG