G. ANSELMO, 1969
Parola chiave: guerra, trauma, base sicura
Lucattini (Spi): “Non c’è nulla di più traumatico della guerra”
Interris.it 7/4/2022 Intervista ad A. Lucattini
L’intervista di Interris.it ad Adelia Lucattini, psichiatra e psicoanalista membro della Società psicoanalitica italiana
Intervista a Adelia Lucattini di Lorenzo Cipolla
Su Interris.it – Copertina, 7 aprile 2022
Introduzione: “Quali effetti ha la guerra sulla psiche delle persone che si trovano a rischiare la vita propria e dei loro cari, ogni giorno durante il conflitto?”La psicoanalisi si è a lungo interrogata sull’impatto che gli eventi traumatici hanno sulla psiche e, come spiega Adelia Lucattini in questa intervista, la guerra causa ferite profonde e fratture emotive che possono durare nel tempo. (Maria Antoncecchi)
Adelia Lucattini, Psichiatra, membro ordinario della Società Psicoanalitica Italiana e dell’IPA, esperta di Psicoanalisi bambini/adolescenti
Su Interris.it – Copertina,
7 aprile 2022
Lucattini (Spi): “Non c’è nulla di più traumatico della guerra”
L’intervista di Interris.it ad Adelia Lucattini, psichiatra e psicoanalista membro della Società psicoanalitica italiana
Intervista a Adelia Lucattini di Lorenzo Cipolla
La guerra infligge ferite visibili, come le macerie dei palazzi colpiti dai bombardamenti, e altre invisibili. Ferite che lacerano il mondo interiore di chi si è trovato nel teatro di un conflitto, tra la paura per la propria vita, la perdita di una persona cara e la distruzione ciò che lo circonda. Chi sopravvive a una guerra e chi riesce a fuggire continua a sentire l’allarme delle sirene antiaeree, quelle che suonano quando sta per iniziare un raid aereo e bisogna correre in un rifugio, un bunker, che in questa conflitto in terra d’Ucraina, alle porte orientali dell’Europa, spesso è uno scantinato o un sottoscala degli edifici rimasti in piedi. Mentre molte altre costruzioni sono state danneggiate se non completamente distrutte, come i 19 ospedali e le 83 scuole che la guerra ha mandato in pezzi. Come in pezzi ha mandato anche le vite di circa 11 milioni di uomini, donne e bambini che hanno dovuto lasciare la propria casa, perché in una zona non sicura o perché non c’era, ormai, più. Quattro milioni e più, soprattutto donne e minori, hanno cercato salvezza fuori dall’Ucraina, nei Paesi limitrofi o più lontano ancora, come in Italia, dove sono accolti da parenti e conoscenti ma anche dalle realtà del terzo settore. Si sono spinti lontano, dove la guerra “combattuta” non può raggiungerli. Ma più del leggero bagaglio, con solo le poche cose essenziali che si sono potuti portare dietro nel loro viaggio della speranza, pesa di più il fardello di quello che hanno vissuto e che, malgrado, hanno portato con sé. Per capire allora quali sono gli effetti della guerra sulla psiche delle persone, Interris.it ha intervistato la psichiatra e psicanalista Adelia Lucattini, membro della Società psicoanalitica italiana (Spi) e dell’International psychoanalitycal association (Ipa).
L’intervista
Cosa significa per la popolazione civile trovarsi dentro un conflitto?
“Questa guerra, come anche altre, ha colto le persone di sorpresa. Lo sappiamo per diverse testimonianze raccolte principalmente tra donne e adolescenti: erano informati, in effetti, ed allertati per i movimenti delle truppe russe, ma con il passare del tempo lo stato di allarme era cominciato a scemare e le informazioni a risultare meno credibili. Dopo l’iniziale negazione, subentra inevitabilmente la realtà e arriva il terrore. Chi ha vissuto guerre come quella dei Balcani, racconta che quando ci si trova dentro un conflitto, dopo un po’ non si percepisce più la gravità della situazione terrorizzante e inconcepibile, si tende a negarla e a dissociare l’angoscia. Nell’ovest dell’Ucraina, allo scoppio della guerra, i più abbienti che avevano un miglior accesso alle informazioni e anche parenti o amici all’estero, hanno cercato di espatriare, mentre le prime migrazioni interne cominciate solo dopo i primi bombardamenti intensi sulle città. La popolazione non si aspettava l’aggressione, la reazione più forte è scattata quando si sono verificati i bombardamenti di abitazioni e scuole: allora, si è cercato di mettersi in salvo, portandosi dietro quello che si poteva – perché inizialmente la fuga è sempre vissuta sempre come situazione transitoria. Quando le cose sono precipitate gli sfollati interni si sono diretti verso i paesi limitrofi”.
Quali effetti ha la guerra sulla psiche delle persone che si trovano a rischiare la vita, propria e dei loro cari, ogni giorno durante il conflitto?
“Non c’è nulla di più traumatico della guerra, che è insieme distruzione reale e distruzione simbolica. La paura delle morte dovuta agli scontri a fuoco, ai bombardamenti, in certi casi anche alla vista delle salme, accresce l’angoscia di morte. I traumi, quelle ‘fratture’ delle emozioni e del pensiero dovuti a eventi inaspettati, improvvisi e non precedentemente pensati, che causa una guerra hanno effetti immediati che possono perdurare molto a lungo, anche per anni. Le reazioni iniziali sono l’insonnia, i pensieri intrusivi come sentire ancora, nella propria mente, il rumore delle sirene antiaeree anche quando non ci sono più, i pensieri traumatici, i flashback che a distanza di due o tre mesi ‘esplodono’, per immagini, nella mente. In questi momenti la persona che lo sta vivendo si sente di nuovo in quella situazione drammatica. Di solito, il Disturbo Post-Traumatico da Stress ‘benigno’ passa dopo un periodo di circa sei mesi, sempre che non ricorrano più le condizioni che hanno causato il trauma. A tutto questo, si aggiunge anche l’emigrazione forzata, che significa perdere la propria casa, i propri parenti, i propri amici e conoscenti. Proprio per questo in tutti i centri accoglienza in Italia gli psicologi e psichiatri fanno colloqui a tutte le persone che arrivano, per aiutarle a ‘ricomporsi’ in un momento di emergenza ed evitare che chi non ha disturbi ne sviluppi qualcuno”.
Diceva che i traumi possono farsi sentire anche dopo alcuni anni. Quanto a lungo possono durare, o dopo quanto tempo ancora possono manifestarsi i sintomi?
“A distanza di qualche anno si possono sviluppare fobie, ansia, disturbi depressivi ricorrenti che, anche se non gravi, richiedono trattamenti psicoterapeutici, perché non sono situazioni che si risolvono da sole. Gli effetti si possono sentire anche dopo venti o trent’anni, perché quello del trauma è un tempo interno, dell’inconscio, che non si misura come il tempo esterno, lineare, ‘sociale’”.
Che impatto ha, sulle psiche di una persona, dover abbandonare la propria casa, la propria città, il proprio Paese per salvarsi la vita e cercare rifugio altrove?
“Rifarsi una vita altrove è un percorso difficile, magari un paese di cui non si conosce la lingua e per questo non si capisce quello che gli altri dicono né si può comunicare i propri bisogni, pensieri e desideri. Molti profughi di questa guerra si fermano infatti nei Paesi limitrofi all’Ucraina in virtù anche di una continuità linguistica: nell’area ex sovietica infatti il russo di base è una sorta di ‘lingua franca’. Altri profughi possono trovare ospitalità da familiari, amici o parenti che vivono in qualche altro Paese che possono fare anche da intermediari, mediatori linguistici e culturali. Ma il rischio che corrono gli ospitanti è di avere loro stessi angoscia e disturbi emotivi poiché sentono i racconti della devastazione della guerra, talvolta ripetuti in modo ossessivo o si trovano nella condizione di doversi occupare di persone chiuse nel silenzio”.
In che modo allora si può dare a queste persone in fuga dalla guerra, soggetti molto vulnerabili, la migliore accoglienza possibile?
“Le famiglie italiane sono sempre state capaci di accogliere, basti pensare ai bambini di Chernobyl che trascorrevano in Italia alcuni periodi dell’anno nella seconda metà degli anni Ottanta, così come lo è sempre stata la rete delle parrocchie e del terzo settore, una rete umana empatica e ricca di vera pietas, un elemento molto positivo e anche preventivo rispetto all’insorgenza di disturbi psicologici. L’ospitalità deve saper creare la condizione più normale possibile, perché si tratta di ospitare persone sofferenti e traumatizzate. Le istituzioni e realtà come la Caritas filtrano le richieste di qualunque tipo di aiuto e coordinano gli operatori che si occupano di assistenza dal punto di vista professionale”.
Cosa significa la guerra, per i bambini costretti a lasciare le proprie case e, come in questo caso, a separarsi da almeno un genitore?
“Per i bambini perdere la casa forse uno dei traumi più grandi, perché la casa è un nido, un rifugio, una ‘base sicura’ come ci insegna John Bowlby, che funge, inconsciamente, da proiezione del nostro mondo interno. La distruzione della casa significa la perdita della protezione, la perdita degli affetti e di un posto dove ‘collocare’ i propri pensieri. Un’altra parte del mondo interno dei bambini sono i loro genitori ed eventualmente i loro fratelli o sorelle: se almeno un genitore rimane con loro, una parte della loro casa è ancora rappresentata. Ma la casa, per un bambino, sono anche gli oggetti, come un peluche, una coppa vinta in una disciplina sportiva, un attestato. Più ‘oggetti transazionali’, che simboleggiano la casa e gli affetti, riescono a portare con sé e meglio attutiscono il colpo della perdita della casa ‘fisica’. L’insieme di queste cose li protegge dalle malattie mentali, ma non dalla paura per esempio che possa succedere qualcosa al papà rimasto in Ucraina. La mamma è importante che riesca a rassicurarli rispetto al padre, raccontargli di lui in modo che resti presente nella mente nella mente del loro bambino”.
Allora i minori non accompagnati?
“Sono bambini a rischio, non solo per i pericoli legati alla guerra, all’emigrazione, alla condizione di profugo, anche la solitudine può causare disturbi della personalità che se non intercettati in tempo e curati, possono arrivare a sfociare nella devianza. I bambini rimasti da soli hanno bisogno di una figura amorevole, presente e costante, che si sostituisca, almeno temporaneamente, ai genitori”.
Rispetto agli adulti, come si può venire incontro ai bisogni dei piccoli profughi?
“Occorre ricreare un ambiente adatto alla loro età, strutturato e di relazione, la scuola è uno di questi, e garantire l’assistenza di un adulto di riferimento che sia una presenza costante. I bambini hanno bisogno di un tempo strutturato, che calmi la loro ansia, la loro iperattività o la loro depressione, e della ‘costanza dell’oggetto’, cioè una persona amata che possono interiorizzare e non sentirsi più soli”.
E qual è invece l’effetto delle notizie e delle immagini della guerra in Ucraina che viaggiano sui social network e sui principali mezzi d’informazione su di noi, che viviamo a chilometri di distanza dal teatro del conflitto?
“L’Informazione su una guerra è indispensabile, mentre bisogna evitare la spettacolarizzazione. Comunque, solitamente la prima reazione è il panico, le immagini che vediamo ci terrorizzano e attivano delle angosce personali – la guerra è di per sé un forte attivatore delle paure interne –, percepiamo in modo errato la distanza tra noi e il teatro di guerra e creiamo il ‘nemico esterno’. In questo frangente va aggiunto che le notizie dei combattimenti intorno alla centrale di Chernobyl hanno riacceso l’antica paura della contaminazione atomica, rinforzata anche ai due anni di pandemia e di paura del contagio. La paura del Coronavirus è stata spostata ovvero è passata a piè pari sull’eventuale e improvvisa paura di una guerra nucleare e della radioattività. Dopo la reazione di panico, c’è il rischio che il sovrainvestimento mediatico provochi una sorta di distacco dagli avvenimenti, come accadde ai tempi della guerra in Iraq. Per quanto riguarda i Social, anche lì c’è il rischio di un fenomeno chiamato ‘erotizzazione della morte’, una sorta di piacere nel guardare la distruzione. A causa della sovraesposizione a tali contenuti, chi guarda non riesce a mettersi nei panni della vittima poiché il trauma e il dolore mentale sarebbero troppo forti, così finisce per identificarsi inconsciamente con il gesto di distruzione e con il carnefice (la cosiddetta Sindrome di Stoccolma) invece che essere empatico e solidale con la vittima. Compito fondamentale dei Media è invece quello di informare ma anche di formare i cittadini, spiegando con un linguaggio comprensibile che la guerra non è caos ma è disciplinata dal diritto penale militare di guerra e dal diritto internazionale umanitario, che prevede, per fare un esempio, che l’Articolo 25 della ‘IV Convenzione dell’Aja del 1907’ ‘è vietato attaccare o bombardare, con qualsiasi mezzo, città, villaggi, abitazioni o edifici che non siano difesi’ e che l’Art. 26: ‘il comandante delle truppe attaccanti, prima d’intraprendere il bombardamento, e salvo il caso di assalto di viva forza, dovrà fare tutto quanto dipende da lui per avvertirne le autorità’ cioè non possono essere fatti a sorpresa su popolazioni disarmate e che non si possono difendere”.
Perché la guerra?” Carteggio tra Albert Einstein e Sigmund Freud con Maria Paiato 27/3/22