Introduzione
Etica, dal greco èthos (costume), è per lo più considerata come sinonimo di morale. Tuttavia con il termine di etica si vuole indicare la dottrina o la scienza dei motivi e delle regole che di fatto guidano le azioni umane, oppure dei principi e dei fini che dovrebbero guidarle perché risultino buone e degne di approvazione sia da parte della coscienza del soggetto agente sia da parte del giudizio degli altri.
È interessante notare come tutte le dottrine dell’antichità considerino l’etica come lo strumento migliore per raggiungere la felicità. Aristippo, considerando il piacere, che è il bene al contrario del dolore che è il male, il movente di ogni azione, rende di fatto impossibile il raggiungimento della felicità che è la somma di tutti i piaceri essendo questi, secondo la dottrina edonista, istantanei. Per Platone la ricerca del piacere allontana l’uomo dalla felicità che si raggiunge con la ragione e con il valore assoluto dato alla virtù. Secondo Aristotele può raggiungere la felicità, cioè il sommo bene, colui che ha realizzato la propria natura. C’è in questa affermazione molto di ciò che considero essere la natura dell’etica psicoanalitica. E tuttavia per Aristotele il predominio della ragione è una condizione assolutamente necessaria perché l’uomo possa realizzare la propria natura e conseguire la felicità. Per lo Stoicismo chi è virtuoso è anche felice; solo il saggio è virtuoso; quindi solo il saggio è felice. L’apatia e l’impertubabilità definiscono il carattere morale della saggezza.
Epicuro afferma, come i cirenaici, che il movente di ogni azione umana è il piacere: tuttavia non vi sono piaceri spirituali che non si possano ridurre a piacere dei sensi. A differenza di Aristippo, distingue i piaceri stabili e duraturi da quelli istantanei o in movimento che non possono condurre alla felicità. Questa è data dal primo tipo di piaceri e si traduce in quello che è lo stato perfetto del saggio, l’atarassia (assenza di turbamento) e l’aponia (assenza di dolore).
L’etica cristiana interviene a partire dalla delusione e dal pessimismo di poter raggiungere la felicità, affermando una totale sfiducia nell’uomo, dovuta all’introduzione del peccato originale. Sostanzialmente crea un divario nel rapporto dell’uomo con se stesso e con il mondo. Irrompe un terzo, un principio assoluto, metafisico: Dio. Soltanto tramite Dio l’uomo può raggiungere la felicità, anche se dopo la morte. Da questo momento Dio o susseguenti (Natura, Stato, Ragione universale, Ideale dell’Io, etc.), diventa la fonte di tutti i principi ordinatori della vita dell’uomo. L’etica diventa sempre più la morale, cioè lo studio del comportamento umano. In tale dissoluzione dell’etica, in uno studio del comportamento umano, i concetti di libertà, dovere, di fine, di rispetto, ma anche di felicità, piacere, utilità, se pure sono conservati, perdono gran parte del loro significato poiché esulano sia dalla volontà consapevole degli individui sia da un meditato progetto politico, sociale, ecc.
Da questa concettualizzazione dell’etica come morale, derivano una serie di problemi. Primo fra tutti il problema della responsabilità della morale. B. Williams (Dopo la virtù. Saggio di teoria morale. 1981) introduce il concetto di “Moral Luck”, di fortuna morale, in contrasto con l’idea che la moralità sia immune dalla fortuna. Anzi che tale immunità sia l’essenza stessa della morale. Concezione che trova ispirazione in Kant, in quanto il bene ha il suo pieno valore in sé, dovuto al controllo della volontà, e non dall’esito o utilità che può avere nei fatti. La fortuna o sorte morale dipende invece dalla concezione che non è possibile giudicare qualcosa non dipendente dal principio di controllo. Cioè l’azione morale può non dipendere dalla volontà dell’individuo. Un altro problema è quello se i principi morali siano di ordine universale, della cultura sociale o dell’identità individuale. T. Nagel (Uno sguardo da nessun luogo. 1986) pur riconoscendo la necessità, per instaurare una morale, di dover trascendere la condizione esistenziale dell’individuo, ritiene impossibile trascurare i valori soggettivi della persona in nome di un’astratta oggettività normativa.
Una delle caratteristiche più originali dell’etica del XX secolo è costituita dall’estensione dell’idea di soggetto morale o di oggetto morale, e il conseguente ampliamento della nozione di responsabilità.
È difficile introdurre il concetto di evoluzione morale, a parte il pensiero di Platone del divenire saggio. Invece è presente nell’idea dell’etica il concetto di evoluzione della responsabilità. A questo riguardo dovrebbe essere studiato più approfonditamente il rapporto tra bisogni che diventano diritti e responsabilità.
L’idea allargata di “soggetto morale” comprende gli individui umani futuri, gli animali, i vegetali, ma anche le future macchine pensanti e una ipotetica razza elettronica intelligente. Riguardo agli uomini futuri, è particolarmente interessante quanto sta emergendo dalla ricerca epigenetica (Richard C. Francis: L’ultimo mistero dell’ereditarietà. Le scienze. 2011). Simile a questo problema c’è quello dell’etica genetica. Non siamo responsabili dei caratteri ereditari che abbiamo ricevuto e che trasmetteremo. Ma la scienza epigenetica ci complica le cose. A parte il fatto che l’etica prevede di farsi responsabili anche del bagaglio ereditario che abbiamo ricevuto, in ogni caso siamo responsabili dell’eredità che trasmettiamo, perchè I nostri valori o la mancanza di essi hanno un’incidenza ereditaria anche se non fanno parte del codice genetico. L’epigenetica dimostra che attaccati ai geni esistono molecole proteiche che dipendono dalla conduzione di vita e che sono trasmesse parassitariamente anche se non fanno parte del codice genetico. Le generazioni successive potrebbero manifestare le conseguenze patogene di comportamenti degli avi, anche senza perseguire quei comportamenti. Cioè un individuo può essere stato un accanito fumatore ed essere morto prima che si potesse sviluppare un tumore, ma discendenti potrebbero sviluppare quel tumore anche se non sono mai stati fumatori.
Questa scienza studia le modificazioni genetiche che non compromettono la sequenza del DNA. Le conseguenze del nostro comportamento e delle nostre scelte potranno avere degli effetti nei discendenti senza che questi siano genetici. L’epigenetica ci spinge a fare delle considerazioni sull’etica della responsabilità di grande interesse per la psicoanalisi, in cui le patologie e le sofferenze possono essere messe in relazione con l’assenza di etica delle generazioni precedenti che comportano, come avevano capito i greci, che le colpe dei padri ricadono sui figli e da essi sono scontate. Da queste considerazioni nasce una riflessione sui sensi di colpa che possono essere ereditati epigeneticamente dalle colpe dei padri, piuttosto che essere relativi alla propria esperienza colpevole di sentimenti distruttivi, come invece sostiene la concezione etica dei kleiniani, soprattutto di Money-Kyrle (“Psicoanalisi ed etica”)
Money-Kyrle parte dalla domanda della filosofia, in particolare di Platone, circa la questione etica di come possa cambiare la morale e la politica, man mano che si accresca la conoscenza. Per Platone il Massimo dell’etica è realizzata dal saggio perchè conosce tutto. Money-Kyrle prende le distanze da questa affermazione sottolineando che I filosofi non fanno riferimento alla realtà empirica, ma in modo inconcludente al mondo delle idee; mentre la scienza può dare risposte concrete, soprattutto la psicoanalisi. Per cui la domanda diventerebbe: come cambiano I valori morali e sociali, cioè etici e politici, man mano che si accresca la conoscenza di sè e si raggiunga la verità di se stesso?
Lo psicoanalista che porta il paziente alla consapevolezza della verità, come lo aiuta nella determinazione e consolidamento dei valori? Cioè il paziente che scopre di possedere in sè degli impulsi negativi e distruttivi, come decide di perseguire I valori accettati socialmente? Money-Kyrle fa dipendere questa scelta dal rimorso o dal senso di colpa. L’uomo decide di essere morale per non essere tormentato dai sensi di colpa. Ma tutto questo per me non ha nulla a che vedere con l’etica. Non basta portare a conoscenza della verità di se stesso il paziente, ma è necessario renderlo responsabile di ciò che scopre di sè. La semplice conoscenza può portare alla disperazione se si considera il proprio mondo interno dominato dagli impulsi, come staccato dalla propria responsabilità e scelta. L’etica che, come dice Hegel, è la libertà divenuta autocoscienza, induce ad essere liberi di scegliere di fare o non fare qualcosa, dove la vera libertà specifica di chi ha consapevolezza di sè, sarebbe quella di poter non fare qualcosa. Rita Levi Montalcini, interrogata sull’etica della scienza sempre più onnipotente, disse che l’etica non è più quella che sia lecito fare ciò che si può fare, ma di poter non fare quello che si può fare. Il senso di colpa dipende dal fatto di non sentire questa libertà e invece di ritenere di essere costretto a non compiere tutto ciò che si può fare. Perchè fare una cosa che si sa essere distruttiva sarebbe una colpa e non un senso di colpa. L’aneticità che senza volerlo induciamo nei pazienti è data dal fatto che non parliamo mai di colpe ma soltanto di senso di colpa. La classificazione tra autoritaristi e umanisti, che stabilisce Money-Kyrle, non sfugge ad una concezione pessimista, anzi sfiduciata dell’essere umano e si basa sul giudizio che descrive e spiega in modo scientifico autoreferenziale, cioè spiega e conferma le premesse che sono state poste, ma non offre soluzioni se non l’auspicabile adesione al bene e fuga dal male. L’etica della responsabilità significa sentire come propri tutti gli impulsi, le fantasie, I pensieri, I desideri, le sensazioni che abitano in noi. Sentire che mi appartengono, che non me li sono ritrovati, per cui non avrei molto potere di scelta.
La soluzione del problema auspicato da Money-Kyrle, appartenente alla concezione terapeutica della psicoanalisi di liberare l’individuo dalla persecutorietà del senso di colpa, interpretando che la colpa appartenga alla sfera della fantasia e che nel contempo dovrebbe mantenere la realtà lontana dal male, è pericolosa perchè “sarebbe uno stato in cui il paziente teme solo pericoli reali nel mondo esterno ed ha cessato di temere quelli esistenti solo nella sua fantasia inconscia, perchè ha cessato di credere in essi. Egli potrebbe ancora temere la disapprovazione dei suoi simili o la longa manus della legge, ma avrebbe cessato di temere d’essere castrato o divorato dal suo super-Io.”(Money-Kyrle, 553) Questa apparente soluzione sarebbe pericolosa perchè potrebbe indurre l’uomo, e questo accade sempre più spesso, di scambiare la fantasia con la realtà, e quindi di smettere di credere nei pericoli, nelle colpe e conseguente persecutorietà reali, semplicemente perchè si credono fantastici e quindi inesistenti.
Etica della psicoanalisi
Dopo il pessimismo e la perdita di fiducia in se stessi degli uomini dovuta all’affermarsi della filosofia cristiana e alla confusione insistente tra etica e morale, bisogna attendere Freud perché l’estraniazione dell’uomo da se stesso abbia fine. Anche se ci sono stati spunti di riacquisizioni dei problemi etici da parte dell’uomo responsabile; come la definizione che ne dà Hegel: “L’etica è il concetto di libertà, divenuto mondo esistente e natura, dell’autocoscienza” (fil.del.dir.§142).
La figura di Freud è rivoluzionaria non soltanto in rapporto alle sue “scoperte scientifiche”, quanto in rapporto alla nuova posizione conquistata grazie ad una identificazione col malato mentale. Freud ha ricondotto l’etica all’interno della dinamica psicologica. L’etica della responsabilità più che la morale del comportamento, cioè l’etica del rapporto dell’uomo con se stesso e con il mondo.
Il punto di svolta si ebbe quando Freud abiurò la suggestione come metodo di cura che aveva coltivato e ammirato.
“Mentre studiavo lo stato sunnambolico della signora von N. mi vennero per la prima volta forti dubbi sull’esattezza della frase di Bernheim: ‘Tout est dans la suggestion’” (Studi sull’isteria 1895). Se nel 1898, di fronte alle capacità suggestive ipnotiche di Barnheim aveva provato per la prima volta un senso di “oscura avversione”, più tardi maturò la sua ribellione. Non poteva ammettere che la suggestione, la quale spiegava tutto, non fosse a sua volta suscettibile di spiegazione (Psicologia delle masse e analisi dell’Io 1921). Come se la suggestione potesse essere concettualmente e quindi fattualmente irresponsabile.
Qualche interprete (Andrea Cavalletti in Suggestione) afferma che Freud sostituì la libido alla suggestione come forza naturale di ogni influsso. Riguardo alla resistenza, Freud ravvisa una profonda differenza tra l’analisi e la suggestione. Mentre questa tende a nascondere, se non a vietare ogni resistenza fino a formulare l’accusa al malato vous vous contre-suggestionnez, la psicoanalisi invece lavora per mettere in luce ogni resistenza. “Noi ci siamo decisamente rifiutati di fare del malato che si mette nelle nostre mani in cerca di aiuto una nostra proprietà privata, di decidere del suo destino, di imporgli i nostri ideali e, con l’orgoglio del creatore, di plasmarlo a nostra immagine e somiglianza per far piacere a noi stessi (…). Dall’esperienza ho appreso inoltre che un’attività nei confronti del paziente spinta così innanzi non è affatto necessaria ai fini della terapia” (Freud. OSF 9, 24-25). Più avanti, però, scrive, “è anche molto probabile che l’applicazione su vasta scala della nostra terapia ci obbligherà a legare in larga misura il puro oro dell’analisi con il bronzo della suggestione diretta; anche l’influsso ipnotico potrebbe riacquistare una sua funzione, com’è accaduto nel trattamento delle nevrosi di guerra” (Freud. OSF 9, 27-28). Qui sembra che Freud si contraddica, invece chiarisce e precisa una differenza con la psicoterapia che può avere un’altra etica che preveda anche la suggestione, ma non la psicoanalisi.
“Con questa comunicazione al quinto convegno internazionale di psicoanalisi di Budapest, nel 1918, Freud ha precisato quali debbano essere il ruolo e l’identità dello psicoanalista, ed ha indicato, sia pure implicitamente, il disegno etico che li sottende. Ben consapevole della ideologia psichiatrica di derivazione medica imperante all’epoca, Freud ha inventato un modello terapeutico rivoluzionario che, restituendo al paziente lo status di soggetto ed escludendo qualsiasi fissità e disparità dei ruoli, ha sancito definitivamente la condizione di parità dei due partners nella relazione analitica in quanto a dignità e libertà individuali (Ferrari, A. B. (1983), Relazione analitica: sistema o processo? Rivista di psicoanalisi, 29, 4 : 476-496, Roma: Il Pensiero Scientifico Editore).
“Nel suo lavoro clinico l’analista quotidianamente è tenuto ad operare una scelta‚ tra l’esercitare il controllo sull’analizzando o il rispettarne la libertà e la dignità, tra l’imporgli un suo modello o lasciargli la libertà di operare le sue scelte. La psicoanalisi dunque è un modello governato dall’etica dell’autonomia. Spesso tuttavia il tentativo di aiutare un paziente si trasforma nello sforzo di cambiarne il comportamento rinunciando all’etica dell’autonomia. L’intento dello psicoanalista è quello di aiutare i pazienti ad accettare se stessi per quello che si è, all’assunzione della responsabilità di se stessi, qualunque cosa quel se stessi sia (Maria Orlandi Scati. L’etica nella psicoanalisi: la dimensione umana nella clinica psicoanalitica).
A questo punto nascono alcune questioni, come quella della terapeuticità dell’analisi e quella dell’influenza. Alcuni autori come Thomas Szazs, per confermare l’estraneità della psicoanalisi a tutte le pratiche suggestive e di influenzamento, tendono a rinunciare alla terapeuticità dell’analisi.
Lo stesso concetto di influenza va analizzato e si troverà un’influenza specifica e concorde con l’etica psicoanalitica della responsabilità. Se Freud afferma che l’analista rinunci a esercitare un potere sul paziente, questo non vuol dire che non riconosca che l’influenzamento è un meccanismo inevitabile nei rapport interpersonali. Lo stesso Freud pur non avendo alcun potere, ha esercitato sia da vivo che da morto grandissima influenza. Bisogna allora analizzare e distinguere I diversi tipi di influenza. La sociologia ci insegna che esiste l’influenza materiale ad esempio della ricchezza; l’influenza morale di essere, ad esempio , portatore di valori riconosciuti ed apprezzati; l’influenza carismatica di avere riconosciute facoltà straordinarie di qualsivoglia natura; l’influenza personale che si basa su forme affettive, di attaccamento, di imitazione, di identificazione; l’influenza dei modelli culturali che si osserva nella trasmissione e ricezione di stereotipi, definizioni cognitive, affettive e valutative, pregiudizi e opinioni; l’influenza intellettuale che si fonda su conoscenze, tecniche, forme di competenza. Quest’ultima è l’unica influenza, probabilmente inevitabile, che si può accettare da parte dell’analista. Scrive Szazs: “Psicoterapia è il nome che viene dato a un particolare tipo di influenza personale: mediante comunicazioni, una persona, indicata come lo ‘psicoterapista’, esercita un’influenza di pretesa natura terapeutica su di un’altra, identificata come il ‘paziente’.
Freud ideò un metodo di psicoterapia che ampliasse l’autonomia del paziente e lo chiamò ‘psicoanalisi’; oggi, lo stesso nome viene usato per procedure che limitano l’autonomia. ln questo libro, mi prefiggo di descrivere la psicoterapia come un’azione sociale e non come un metodo di guarigione. Così concepito, il trattamento psicoanalitico viene caratterizzato dal suo scopo: aumentare nel paziente la conoscenza di se stesso e degli altri, e quindi la sua libertà di scelta nella condotta di vita; dal suo metodo: l’analisi delle comunicazioni, delle regole e dei giochi; e, infine, dal suo contesto sociale: un rapporto contrattuale, piuttosto che ‘terapeutico’, fra analista e analizzando. Gli psicoterapeuti fanno molte cose: lo scopo che professano è sempre quello di fornire ‘una terapia’. Spesso, però, i tentativi di ‘trattare’ un paziente sono in realtà sforzi per trasformare la sua condotta da un certo modo in un altro. La mia tesi è che la psicoanalisi non può essere un’impresa di questo genere. Senza dubbio, il termine ‘psicoanalisi’ può essere applicato a tipi di psicoterapia persuasiva; difatti, ognuna delle procedure summenzionate è spesso descritta come ‘psicoanalitica’ nello scopo, nei principi o nel metodo” (T.S. Szazs 1979. L’Etica della Psicoanalisi. Armando, Roma). Bisogna opporsi alla rinuncia della terapeuticità dell’analisi per il pericolo dell’influenzamento, e quindi della perdita della libertà e autonomia del paziente, assumendo la responsabilità anche della terapeuticità. Quella descritta da Szazs è psicoterapia di sostegno, infatti, la conseguenza della posizione etica della psicoanalisi dichiarata da Freud è stata quella di rinunciare oltre alla suggestione o costrizione, anche all’esercizio del potere sull’oggetto della malattia. A quel punto non restava che porsi responsabilmente in prima persona come soggetto che cura il soggetto, per curare l’oggetto: la malattia. “Mi occupo (analizzo, interpreto, prendo coscienza, trasformo) di me per curare te”; che è diverso da: “Mi occupo di te per curare me stesso”. È, in effetti, una rivoluzione del metodo terapeutico consueto. L’analista non soltanto si cura con una approfondita analisi personale, ma continua ad usare per il suo lavoro con i pazienti, innanzitutto, la dinamica con il proprio inconscio e poi con l’inconscio dell’altro. Quindi, si può affermare che l’analista cura con il proprio essere più che con il proprio fare. Pertanto, l’etica dello psicoanalista è quella di assumersi la responsabilità di questa posizione che può non essere chiara agli altri ma all’analista sì.
Etica dello psicoanalista
L’etica psicoanalitica non riguarda la morale né tanto meno il codice deontologico, che per sua natura è per un analista anetico. L’etica psicoanalitica riguarda la responsabilità di conoscere e sapere, cioè mantenere la conoscenza attiva. Noi partiamo dalla consapevolezza che ci ha insegnato Freud, che se c’è bisogno di creare un tabù contro l’incesto, questo è dovuto al fatto che forte è nell’uomo il desiderio di incesto. E dove non funziona la rimozione è necessario un impedimento esterno, anche se è una proiezione di un impedimento interno. Quindi sappiamo che le colpe non sono a carico delle persone cattive o malate o incoscienti, prese da “raptus”, ma sono desideri forti appartenenti a tutti gli uomini. Da qui nasce la necessità primordiale di creare un tabù baluardo contro le pulsioni più pericolose per la civiltà. Ma perché si crei un tabù è necessaria una forte capacità di credere collettivamente nella stessa cosa che come il tabù abbia valore di per sè e non abbia bisogno di leggi. Tuttavia, oggi c’è da essere pessimisti circa la possibilità che esista una tale capacità. Da qui deriva il proibizionismo, le leggi, i divieti, i codici di buon comportamento, che appartengono alla massa di gente inconsapevole e per questo anetica. Ma gli psicoanalisti, per rimanere tali, non possono deresponsabilizzarsi dall’avere coscienza della forza naturale delle pulsioni, e perciò non dovrebbero affidarsi alle leggi morali per arginare le proprie spinte egoistiche o distruttive, che dovrebbero conoscere, avendole analizzate a fondo.
Infatti egli effettua una formazione che lo mette in grado di riconoscere i propri limiti e di assumersi la responsabilità anche di eventuali insuccessi terapeutici, evitando di attribuirli alla non analizzabilità del paziente.
Etica del paziente psicoanalitico
È compito dello psicoanalista aiutare il paziente a conoscere e riconoscere ciò che egli è e a farsene carico responsabilmente. A questo riguardo sono indicativi i casi clinici di donne che non hanno figli, disperandosi e tormentandosi, non riconoscendo che non li vogliono, ne hanno paura, li avvertono come persecutori misteriosi perchè non li conoscono e non li capiscono anche perché non sanno come si fanno. Infatti alla base c’è un problema di attacco alla madre e di mancata identificazione. Accanto alla pulsione di amore o odio, di vita o di morte c’è la forza altra che è l’identificazione. I legami descritti da Bion: amore, odio e conoscenza dovrebbero essere completati con l’identificazione. Infatti la conoscenza di cui si occupa la psicoanalisi è la conoscenza responsabile di sé che con l’identificazione consente la conoscenza dell’oggetto. Il problema risiede in questi casi clinici nel non aver completato o superato l’edipo. Infatti si trascura il fatto che il problema centrale nell’edipo è di come nascono i bambini. Se non si capisce che un corollario fondamentale dell’edipo della bambina è la fantasia di fare un bambino con il padre e che la madre odiata, ma anche amata, è necessaria per sapere come far nascere i bambini, conoscenza che si può avere soltanto identificandosi positivamente con la madre, non si può comprendere l’impossibilità di avere figli di queste donne.
Molti esempi clinici si potrebbero fare circa la necessità di aiutare I pazienti non soltanto a prendere coscienza della verità su se stessi, ma soprattutto ad assumersene la piena responsabilità.
Etica del setting
Il setting dice Etchegoyen è determinato dall’atteggiamento etico dell’analista; aggiungerei dell’etica della responsabilità. Cioè è l’analista responsabile del setting non il paziente, tuttavia è necessario rendere il paziente responsabile del setting e non rimanere solo e sempre un osservante. Allora si creerà una responsabilità condivisa del setting che rappresenta l’eticità della prassi analitica.
L’etica del setting ancora una volta come responsabilità e non come regole di buon comportamento.
Per rispettare la soggettività del paziente e non rinunciare alla teleologia terapeutica, non resta alla psicoanalisi che di dotarsi di uno strumento avanzato che soddisfi il compito di conoscere, contenere e trasformare i desideri e le pulsioni , ma nello stesso tempo mantenga attiva la responsabilità di sapere. Questo strumento per me è il setting. Il setting riguarda più l’etica che la tecnica, più l’essere psicoanalista che fare lo psicoanalista.
Anche l’aspetto tecnico comporta una scelta etica. La tecnica infatti non è mai neutra e la sua pratica è legata alla personalità dell’analista. La scelta di una tecnica è una caratteristica personale ed indica la persona che l’analista è e l’uso che ne vuole fare a vantaggio del paziente.
Il setting serve a costruire un sistema chiuso in cui la trasformazione di un elemento del campo comporta necessariamente la trasformazione di tutto il campo, quindi anche dell’altro elemento.
È importante configurare il setting secondo il principio di responsabilità, che parte dall’assunzione di responsabilità del setting da parte dell’analista inizialmente da solo come offerta di garanzia e impegno. In seguito il compito dell’analista a questo riguardo è quello di far assumere anche al paziente la responsabilità del setting come proprio. Questa importanza è dimostrata ad esempio nell’analisi degli psicotici. Di solito si usa il setting come farmaco o peggio si decide di adottare il farmaco come setting dell’analisi. Nei casi di analisi degli psicotici ho trovato utile stabilire come setting il delirio del paziente.
Etica dell’inconscio
Questa è una questione antica mai risolta, utilizzata da molte componenti culturali estranee alla psiconalisi e tuttavia necessariamente contigue e quindi contagiabili e per questo preoccupate e contrastanti la psicoanalisi; dalla psichiatria, alla filosofia, alla religione, la psicoanalisi è accusata di aneticità perchè fa spesso dipendere le azioni dall’inconscio. La questione è se siamo responsabili del nostro inconscio, dei suoi contenuti, motivazioni, derivati e propaggini. La questione è paradossale perché da un lato come si fa ad essere responsabili di ciò di cui non si ha consapevolezza e coscienza? e d’altra parte come si fa a non avere responsabilità di una parte importante della nostra persona che ci appartiene totalmente?. Il motivo del paradosso è alimentato dalla confusione culturale tra morale ed etica. Una cosa è distinguere e giudicare ciò che è buono o cattivo, giusto o ingiusto ecc, altra cosa è essere responsabili di tutte le componenti buone e cattive di cui siamo fatti e che per acquiescenza culturale tendiamo a rifiutare le cattive come proprie, rigettandole nell’inconscio.
Confusione dovuta alla pretesa onnipotente di coesistenza tra la responsabilità di tutte le proprie componenti e il governo di tutte le parti di sé.
La cosa si complica ulteriormente in quanto l’inconscio non ha una identità stabile e definita di cui essere responsabile, nel senso che se da una parte l’inconscio tende a presentarsi come eternamente lo stesso, a ripetersi; è anche vero che è proteiforme, o quantomeno siamo abituati a vederne tante manifestazioni diverse da considerarlo infinitamente cangiante. Questo dipende dal fatto che non si può cogliere l’inconscio tutto intero e pertanto, ciò che compare è di volta in volta diverso a seconda di quella minima parte che può apparire in quel momento. Perciò sarebbe interessante studiare anche con metodi di tipo matematico (frattali) quelle leggi che governano la comparsa dei vari contenuti dell’inconscio. Il problema potrebbe essere rappresentato dall’esempio delle moderne macchine della lotteria che fanno comparire di volta in volta una singola pallina. Come fatto scelto casuale.
il miglior modo per uno psicoanalista, di studiare l’etica dell’inconscio, è l’analisi dei sogni. A parte I pazienti che disconoscono I propri sogni. L’inconscio cela all’evidenza la verità, tuttavia offre tutte le vie per poterla raggiungere. Vie che la psicoanalisi ha decifrato. L’etica psicoanalitica rende responsabili della verità di se stessi, grazie all’etica dell’inconscio che grazie a Freud, abbiamo imparato a conoscere.
Etica delle pulsioni
A questo punto mi sembra opportuno fare un’escursione all’interno del tema molto dibattuto della pulsione di morte. Senza entrare nel merito del dibattito, mi interessa la pulsione di morte perché a mio parere è legata alla pensabilità e la pensabilità è legata all’etica. Possiamo ipotizzare che l’istinto vitale programmato biologicamente, preveda alla conclusione del mandato la fine dell’esistenza di quell’organismo: la morte. Tutto questo non ha nulla a che fare con la pulsione che è un istinto non programmato, evoluzione di quello programmato, e che nasce da una trasformazione di alcuni elementi percettivi sensoriali in elementi di rappresentazione e quindi di proto-pensiero. La pulsione: la libido, che ha trasformato l’istinto della conservazione della specie in interesse individuale al soddisfacimento e alla permanenza di questo, nega la possibilità della fine e combatte contro tale destino. Inutilmente, ma rafforzandosi sempre più, perché finora non è riuscito l’uomo a modificare significativamente la programmazione biologica. Pertanto l’uomo ha ipotizzato una pulsione di morte che ritiene più trattabile in quanto non programmata ma costruita psicologicamente, e quindi verso cui avere un atteggiamento elaborativo , di credere cioè , considerandola un’anomalia patologica, di poterla combattere o curarla, per una presunta guarigione dalla morte e dalla distruttività, avendola creata psicologicamente, sganciata dalla programmazione biologica della fine. La trasformazione degli elementi sensoriali in elementi alfa e quindi in pensiero, da cui dipende la trasformazione dell’istinto in pulsione con un quanto di psichico, segue le leggi della pensabilità da me ipotizzate.
Etica della resistenza e della sopravvivenza
Quando si parla della cosiddetta crisi della psicoanalisi, bisogna riflettere sulla considerazione che la psicoanalisi o è crisi o non è psicoanalisi. Bisogna allora discutere della crisi degli psicoanalisti e dell’istituzione psicoanalitica.
Sembra che attualmente la Società Psicoanalitica sia contagiata dalla stessa ansietà che pervade le masse sociali internazionali. “Angoscia di estinzione” è il concetto utile a potere interpretare questo nuovo elemento dello psichismo, questo “terrore di non essere più”. L’angoscia della fine della specie, presente sia nell’individuo sia nei gruppi, deve essere differenziata dall’angoscia di morte che è già in parte conosciuta e studiata e che è vissuta culturalmente più come transito che come inesistenza. L’angoscia di estinzione è un elemento più facilmente individuabile nel lavoro di psicoanalisi con il piccolo gruppo, ma è presente anche nella massa e ne determina numerosi effetti, tra cui il riproporsi di teorie sulla fine del mondo imminente che periodicamente costituiscono una cornice rappresentativa del terrore arcaico che si credeva di placare sia con la chiusura narcisistica gruppale autoreferenziale, sia con il sacrificio di parti consistenti, scisse e non riconosciute, di sé.
L’angoscia di estinzione della psicoanalisi, che attualmente si esprime attraverso le paure diffuse di perdita o impoverimento della propria identità, quindi sembra essere espressione di fantasie arcaiche sadiche distruttive di ogni forma di legame. La mancata individuazione ed elaborazione degli elementi dell’angoscia della pulsionalità gruppale presente anche nell’individuo -probabilmente accentuati in una condizione di massificazione istituzionalizzata- è il maggior pericolo per la pensabilità e per la funzione analitica che la sottende. Essendo una angoscia impensabile viene agita attraverso varie forme di autosacrificio di componenti fondamentali di sè.
In che modo si sta manifestando questa autodistruttività tra gli stessi psicoanalisti? probabilmente attraverso una regressione del pensiero, manifesta nella irruzione della realtà, per esempio nella angosciosa convinzione che non ci sono più pazienti e che non ci sono più risorse da investire nella cura psicoanalitica. Questa convinzione amplifica il senso di perdita perché conduce all’idea della troppa concorrenza psicoterapeutica a costo inferiore, e porta ad agiti automutilanti. Cioè si sta realizzando la perdita progressiva della passione di ciò che non si conosce per abbandonarsi al più rassicurante ma impoverente supposto sapere.
Il contagio sociale che si è trasformato nella concretezza apparentemente inconfutabile di queste angosce che hanno la qualità di luoghi comuni, è quindi causa di una pericolosa fuga degli analisti, che potrebbe davvero comportarne l’estinzione: l’abbandono della propria etica, pure difficile da mantenere data la pervasività dell’ansia sociale dilagante.
Etica dell’oggetto psicoanalitico e della pensabilità
L’etica ha in sé un telos è quindi una dimensione in divenire. Ma il divenire dell’etica non è verso la conoscenza o il piacere o altro , ma verso il divenire O. che si può intendere come divenire l’origine o Dio. Oppure si può intendere come interpreto io, come divenire se stessi, o come diceva Aristotele: realizzare se stessi in tutti i sensi, compreso quello della responsabilità di se stessi come si è.
L’etica dell’analista è in effetti una metaetica in quanto la sua etica si esprime occupandosi di affermare l’etica del paziente. Il modo con cui l’analista può accrescere l’etica del paziente è di favorire la pensabilità. L’oggetto della pensabilità è simile all’oggetto analitico, l’oggetto che si crea in analisi dalla relazione analitica e che corrisponde all’oggetto dell’interpretazione. Questo oggetto ha quattro dimensioni e si estende in quattro campi tutti necessari perchè si possa realizzare la pensabilità. Questi campi sono quelli della memoria, degli affetti, del mito, dell’etica. Un oggetto di pensiero che abbia tutte e quattro queste dimensioni e si estenda in questi campi, soddisfa la pensabilità. Altrimenti si realizza l’impensabilità cioè un pensiero privo di una o più di queste dimensioni; in particolare un pensiero privo della dimensione etica, cioè privo della responsabilità di quel pensiero. Questo è un oggetto mentale dell’impensabilità, cioè scisso, non integrato e quindi privo di efficacia elaborativa. In alternativa ci può essere la felicità di accettare i propri pensieri selvaggi. Di non doverli cacciare via come cani randagi. Ma accoglierli e addomesticarli cioè metterli dentro casa ad arricchirla.
Capita spesso che sin dall’inizio dell’analisi un pazienti ci racconti, ci confessi, ci comunichi qualcosa che subito riconosciamo essere presumibilmente il centro del problema e della sofferenza di quella persona, ma il fatto che ne sia consapevole e lo comunichi anche con dolore non ha alcun effetto sulla trasformazione in positivo della sua condizione psichica. Allora da quel punto partiamo allontanandocene sempre più per ritornare alla fine con moto circolare a quel punto iniziale ma con la pensabilità. Cioè con un pensiero di quel fatto, situazione, esperienza interna o esterna, non soltanto con la memoria anche sensoriale, ma anche con l’affettività ad esso collegato, ma anche senza isolamento ma con collegamenti ponte con il resto della propria vita psichica e di relazione, e infine con il senso etico di appartenenza responsabile di quel pensiero a se stessi.
Aprile 2014