Cultura e Società

“Vivere con Barbablù. Violenza sulle donne e psicoanalisi” di M.C. Barducci, B. Bessi e R. Corsa. Recensione di Lucia Monterosa

7/02/19
“Vivere con Barbablù. Violenza sulle donne e psicoanalisi” di M.C. Barducci, B. Bessi e R. Corsa. Recensione di Lucia Monterosa

“Vivere con Barbablù. Violenza sulle donne e psicoanalisi”

di Maria Cristina Barducci, Beatrice Bessi e Rita Corsa

Ed. Magi, Roma, 2018

Recensione di Lucia Monterosa

Il testo è rigoroso e documentato ed è scritto con un linguaggio fruibile per tutti coloro che hanno interesse a capire i movimenti profondi che accompagnano le configurazioni psichiche delle vittime di violenza di genere.

Le autrici tracciano un percorso approfondito – Maria Cristina Balducci e Beatrice Bessi   facendo riferimento al pensiero junghiano e Rita Corsa a quello freudiano e post-freudiano – per trovare risposte che indichino come aiutare, a livello intrapsichico, quelle donne che, sempre più numerose, denunciano la violenza psicologica e fisica subita dai loro partner.

Maria Cristina Balducci apre il suo scritto facendo riferimento al concetto di violenza simbolica, di cui la violenza psicologica è l’inevitabile conseguenza. Si tratta di un processo dotato di notevole forza, attraverso cui «le idee dei dominanti sono assunte dai dominati passivamente e inconsapevolmente, dando luogo ad un modello culturale per il quale i dominati pensano che le idee che li abitano siano frutto del loro pensiero e non di categorie pensate da altri» (pag. 17). L’autrice mette in evidenza come la psicoanalisi abbia per prima messo in crisi l’universo simbolico del pensiero dominante, da ciò ha potuto svilupparsi il «pensiero della differenza»: un pensiero femminile critico, portato avanti da psicoanaliste, antropologhe, studiose del mito e filosofe.

La Balducci, con un ampio ricorso alla letteratura sul mito ma soprattutto alla sua esperienza clinica, illustra prima il processo di soggettivazione nella teoria junghiana per arrivare poi a definire le caratteristiche che, a suo avviso, accomunano le donne che incappano in uomini maltrattanti. Una costante che si manifesta in questi casi è una psiche fondamentalmente «infantile»: una condizione psichica in cui la relazione primaria con la madre «si presenta come un legame irrisolto e fondamentalmente conflittuale, segnato da ambivalenza e da scissioni che evidenzia la difficoltà ad effettuare una adeguata separazione» (pag. 54). Il rapporto fusionale viene vissuto come felice e mai soggetto a critiche, infatti molte donne sottoposte a violenza dal partner narrano della loro infanzia e adolescenza come esperienze felici «non hanno percezione della realtà e sognano un mondo idealizzato, lo pretendono dai loro compagni così come a loro è stato insegnato» (pag. 59). Queste donne avrebbero subìto un fallimento nella fase di attaccamento che avrebbe prodotto in loro «una carenza di adeguata narcisizzazione» (pag. 63).  Da queste premesse scaturirebbe un incontro col partner in cui gli elementi relativi alla violenza distruttiva dell’archetipo del Maschile non possono essere affrontati e combattuti. L’autrice conclude affermando che «il percorso “eroico” di una donna per accedere alla propria individualità passa dalla consapevolezza della violenza e della distruttività» (pag. 85).

Beatrice Bessi si propone di mettere «l’una a fianco all’altra la riflessione sul femminile della psicologia del profondo e la lotta quotidiana di chi si impegna a cambiare la vita delle donne» (pag. 95). L’autrice accompagna le sue considerazioni teoriche ad una approfondita disamina del lavoro dei Centri antiviolenza, in cui è impegnata personalmente da più di due decenni.

Viene in queste pagine sottolineato come, nell’approccio alla donna maltrattata, sia della massima importanza non solo soffermarsi sui singoli episodi violenti ma su ciò che accade negli intervalli tra questi. Inoltre, non va compiuto l’errore di confondere il maltrattamento col conflitto ed anche quello di considerare maltrattato e maltrattante come parti di una stessa dinamica, essi si trovano invece su due piani distinti.

Viene decritto con molta chiarezza il percorso in cui si costruiscono i rapporti violenti all’interno dei quali le donne sperimentano disorientamento e perdita di valore. Esse «sono state deumanizzate, ovviamente delegittimate radicalmente, in particolare animalizzate, oggettivate, demonizzate» (pag. 109).

L’autrice illustra la prassi quotidiana di chi opera nei Centri antiviolenza e che si attua in quattro fasi: rilevazione, protezione, valutazione e trattamento/ terapia. Mi soffermo brevemente sulla prima e l’ultima di queste fasi, descritte nel testo. Nella «rilevazione», attraverso cui si chiede alla vittima di nominare esattamente quanto accaduto, facendone un elenco dettagliato. Questa si attua all’interno di un processo molto spinoso che porta, alla fine, alla consapevolezza piena, rompe l’isolamento della vittima aprendo la strada ad «un percorso narrativo di scambio» (pag. 117). Nell’ultima fase, quella in cui la donna intraprende una psicoterapia, viene dall’autrice sottolineata l’importanza del lavoro sulla rabbia: «un passaggio fondamentale per ricominciare a sentire la protesta della propria individualità; è l’emergere del rifiuto, del dire no alla violenza» (pag. 124).

La Bessi nota come siano i figli e la loro sofferenza a spingere le donne ad uscire dalla violenza, a trovare nuove strade e ad abbandonare il pensiero magico. Conclude sottolineando come sia «prima necessario ricrearsi uno spazio nel mondo, uscire concretamente dall’isolamento, che è così reale e che fa sentire così diversa ogni vittima di violenza» (pag. 144).

Rita Corsa intreccia la sua trattazione con un commento alla storia narrata nel romanzo Piccole Grandi Bugie di Liane Moriarty, da cui è stata tratta l’omonima serie televisiva, dove lo spettatore viene messo di fronte «agli orrori patinati di privilegio» (pag. 151). Ogni personaggio della storia viene tratteggiato e fornisce lo spunto per considerazioni teorico-cliniche.

L’autrice, a proposito del ciclo dell’abuso, ribadisce che la stessa violenza intrafamiliare «tende ad essere appresa, replicata ed ereditata dalla generazione seguente» e che talvolta si prospettano delle «cosmologie violente», descritte da alcuni studi criminologici (pag. 154-155). Viene approfondita la fase di transizione dell’epoca della pubertà in cui nasce il sentimento di nostalgia e, con il sovvertimento del senso del tempo, la scoperta della morte. La Corsa facendo, riferimento alla sua esperienza clinica, sottolinea come le giovani donne oggetto di violenza abbiano subìto una perturbazione significativa di questa fase della vita e attraversino «un profondo e soffocante senso di vergogna che permea la loro vita emotiva (…) paralizza i loro cuori e impedisce alle loro menti di formulare una qualsivoglia progettualità futura».  La vergogna viene descritta sia nei suoi aspetti tossici che in quelli umanizzanti.

Altri due concetti vengono portati alla nostra riflessione: la fusionalità, che impedisce la costituzione di un sé maturo, e la pulsione d’impossessamento, che porta «al dominio regressivo dell’oggetto di amore». Queste caratteristiche sarebbero alla base di quelle relazioni perverse che legano così fortemente abusante e abusata.

L’autrice supporta il suo scritto con la sua esperienza di supervisore di gruppi specialistici e di volontari che operano nei Centri antiviolenza e riporta sia dati statistici che le rilevazioni realizzate dell’Osservatorio Nazionale sulla Violenza Domestica, di cui essa stessa ha fatto parte.

La Corsa conclude sottolineando quanto sia complesso il lavoro di presa in carico di una donna maltratta: la psicoterapia individuale da sola non è sufficiente ed è fondamentale poter contare su altre figure professionali ed un’articolata rete socio-assistenziale di sostegno. Per descrivere le molteplicità delle matrici che caratterizzano il fenomeno, l’autrice ricorre al mito di Idra, ponendo la nostra visuale su una diversa prospettiva: «La violenza di genere è come un’Idra dalle mille teste (…) Questo è un mito poco amato dalle donne, perché è una leggendaria vicenda tutta fondata sulla potenza maschile. Forse, però, spetta all’uomo il gesto fatale di troncare con coraggio e forza la bieca violenza che scaturisce dalla sua mente e dal suo animo. Insomma, dovremmo essere tutti femministi. Oltre ogni pregiudizio di genere».

 

Roma, 3 febbraio 2019

 

 

 

 

 

 

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