La Ricerca

Trauma e perdono. Una prospettiva psicoanalitica intergenerazionale. Di Clara Mucci (2014). Recensione Di Francesco Migliorino

22/06/16

Francesco Migliorino*
«L’Histoire avec sa grande hache»

“Je n’ai pas de souvenirs d’enfance”: je posais cette affirmation avec assurance, avec presque une sorte de défi. L’on n’avait pas à m’interroger sur cette question. Elle n’était pas inscrite à mon programme. J’en étais dispensé: un autre histoire, la Grande, l’Histoire avec sa grande hache, avait déjà répondu à ma place: la guerre, les camps (Georges Perec, W ou le souvenir de l’enfance, Denoël, Paris 1975, p. 13).
Presentazione del libro di Clara Mucci, Trauma e perdono. Una prospettiva psicoanalitica intergenerazionale, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014.

Vorrei provare a discutere il bel libro di Clara Mucci cominciando a leggerlo dalla fine. Meglio, dalle ultime parole di una citazione di Elie Wiesel: «qualunque sia la domanda, la disperazione non è la risposta» (Mucci: p. 235). Un’apertura di senso, un ricominciare daccapo, l’incontrario di quel che ci si aspetta dalla conclusione di un libro. Una sorta di esergo messo volutamente fuori posto, che dà conto di un doloroso percorso di chi era ancora piccino per ricordare o di chi si sentiva troppo d’impaccio per raccontare. «Trauma» e «perdono» stanno affiancati nel titolo, ma è come se fossero la ‘prima’ e la ‘quarta’ di copertina, in mezzo una miriade di campi che sono al lavoro nel setting analitico, il cui esito non è mai dato per scontato: realtà e fantasia, Io e Tu, interno ed esterno, presente e passato, vittima e persecutore, lutto e depressione, devastazione e riparazione. Ancora con la scrittura aspra di Wiesel: «dall’orlo dell’abisso al sogno della redenzione».
Lungo questa via, nella trama narrativa restano impigliate vite offese e storie maledette che mettono a nudo — col loro carico d’infranto — il coinvolgimento emotivo del lettore, anche del lettore profano che fa fatica a orientarsi nella sterminata testualità in cui il nostro libro è venuto alla vita.
C’è una ragione di ciò. L’Autrice ha una grande capacità di mettersi in dialogo col lettore e anche con se stessa. È evidente, ad ogni pagina. Per dirla con Wayne Booth, geniale teorico della narrazione, nel nostro caso l’autore implicito e il lettore implicito (creature etico-ideali dell’autore) raggiungono un accordo così pieno e completo da connotare la ‘letterarietà’ dell’opera. Il giudizio sul libro, perciò, è inseparabile dall’empatia che riesce a costruire con chi lo legge. Come per i testi narrativi, anche qui siamo portati «ad ammirare o detestare, amare o odiare» (1). Storie di ordinaria miseria che tracciano il perimetro stesso dell’umano: quella del bambino che «rende l’anima» per sopravvivere alla morte, o del piccolo Patrick che se ne sta seduto sul bastone della tenda per svanire dietro la pelle del geco, o del giovane James che abbandona il suo corpo galleggiando fino al soffitto per farsi una ragione di una cosa sbagliata (così la chiama!). Storie simili, fin troppo simili, all’universo psicotico dei campi, al «Warum?» di Primo Levi, al silenzio dei «salvati», col loro fardello di sofferenze psichiche che trapassano e prendono vigore da una generazione all’altra.
Nelle pagine del libro, parole come «Umano», «Etica», «Relazione», «Empatia», «Memoria» sono fra quelle col maggior numero di occorrenze. A partire da queste parole, proverò a raccontare la mia personale esperienza di lettore.
Questo libro ha un’anima. Un nucleo duro che ne sostiene l’impianto teoretico e l’ispirazione etica, l’ermeneutica e le strategie cliniche. Da qui forse bisogna partire, dalla «realtà del trauma» che Clara Mucci assume come chiave euristica fondamentale. Per questa via, presente e passato, individuo e società, realtà e rappresentazione, natura e cultura non sono coppie oppositive, danno vita piuttosto a universi di significato fra loro interconnessi, in cui uno dei due poli passa nell’altro e viceversa. Dialetticamente, nel senso genuinamente hegeliano.
Il trauma come lettura della contemporaneità. Leggiamo in proposito alcuni passaggi del nostro libro. Per Caty Caruth, alle radici del trauma c’è la Storia, con la maiuscola (2): «in una età catastrofica, il trauma stesso può offrire il trait d’union tra le culture», al punto da far dire alla nostra Autrice che «nel trauma perpetrato da mano umana, ciò che è umano definisce anche l’inumano» (Mucci: p. 6). E ancora: «dopo l’esperienza dei traumi reali con cui il Novecento si è dovuto misurare (guerre, eccidi, catastrofi, stermini, pulizie etniche, torture) […] una riformulazione del trauma sia psicoanaliticamente sia eticamente è diventata necessaria […] la verità dell’esperienza traumatica non è una patologia legata alla falsità o allo spostamento del significato, ma alla storia stessa» (Mucci: p. 49). Con le stesse parole di Werner Bohleber, «con le esperienze estreme vissute e sofferte dagli uomini del XX secolo, il trauma si è trasformato in cifra interpretativa: non solo la psicoanalisi, ma anche le scienze umane hanno sperimentato la necessità di recuperare la ricerca e la comprensione in quest’ambito». È del tutto condivisibile, perciò, che Clara Mucci assuma la Shoah come radicale «cesura storica ed epistemologica» (Mucci: p. 71).
È pur vero, però, che l’universo traumatico — coi suoi effetti di disregolazione affettiva, obliterazione del reale, dissociazione del Sé, disturbo di personalità, incorporazione fantasmatica dell’aggressore — ha tante scale di grigio. Dall’attaccamento disorganizzato e insicuro madre-bambino ai maltrattamenti, dall’abuso sessuale all’incesto, dal trauma cumulativo fino a quello sociale massivo. Nei casi più gravi, traumi perpetrati da mano umana producono, col tempo e da una generazione all’altra, comportamenti autodistruttivi e distruttivi delle relazioni interpersonali, deficit immunitari, stati di iperarousal e ripetuti mortiferi kindling. Emozioni troppo forti che sfuggono al controllo della coscienza — in ogni evento, grave o meno che sia — sono il risultato di una sorta di disconnessione tra la zona corticale orbito frontale e il sistema limbico di destra, specialmente l’amigdala e l’ippocampo.
Aggiungerei anche che ben prima del Novecento gli umani hanno vissuto «esperienze estreme» — come le chiama Bohleber — di indicibile crudeltà e ferocia. Ogni volta, per tantissime volte, nello spazio liminale tra umano e inumano. A volerle mettere in elenco, un lunghissimo elenco, lasceremmo fuori quelle storie che — come le carte dell’Impero di Borges — si sono disperse lacere sotto l’inclemenza del sole e degli inverni (3). Eppure, non usiamo il termine «trauma» per descrivere lo squartamento dei condannati a morte, o le grida lancinanti dei supplizi, o i roghi degli eretici, né proviamo una particolare empatia per gli Alemanni trucidati e annientati dai Franchi. C’è una ragione, forse. Il trauma, come evento «reale», vive come tale in un campo che lo significhi. Per essere indagato come fenomeno, non solo individuale, ma soprattutto sociale e culturale, non si può prescindere dalla sua contestualizzazione storica.
Tante gradazioni e tempi storici diversi, dunque. La Shoah, però, come paradigmatico punto di non ritorno. «Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti», l’Angelus Novus della Storia «vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi» (4). Mai prima di allora, però, era stato progettato e realizzato un sistema burocratico-industriale così altamente produttivo per la devastazione dell’idea stessa di umanità. Una sospensione del tempo, «l’abolizione di ogni principio di causalità», la riduzione di milioni di uomini a esseri inanimati, «senza rimorso e senza empatia», privati della vita ancor prima di morire. Una fabbrica di morte che raggiunse il massimo di efficienza in un mirabile (e macabro) accordo tra mezzi e fini, come neppure Max Weber sarebbe stato in grado di immaginare. La distruttività umana esiste da sempre, ma è solo nei campi nazisti che la tecnica ha raggiunto mete così alte, al punto da produrre una ‘macchina astratta’ autopoietica capace di trasformare la quantità in qualità.
Una fabbrica appunto. Se, però, come osserva l’Autrice, «i compiti dell’intera macchina erano stati divisi così microscopicamente in modo che nessun singolo individuo nazista che contribuiva all’intera costruzione fosse del tutto consapevole delle totali conseguenze del suo contributo» (Mucci: p. 63), si potrebbe aggiungere che tutto ciò è stato possibile anche grazie ai collaudati processi di produzione che si erano avviati dalla fine del secolo XIX con l’impiego sempre più esteso delle conoscenze scientifiche e delle tecnologie industriali. In particolare, una nuovissima forma di dominio aveva visto la luce in virtù della divisione tecnica del lavoro che, parcellizzando la manifattura in sequenze, ha di fatto espropriato l’operaio di fabbrica dall’antica sapienza del lavoro domestico, mettendolo all’oscuro di una visione d’insieme del processo produttivo (5).
Si potrebbe, allora, dire con Slavoj Žižek (citato da Clara Mucci) che il trauma è il nòcciolo della società moderna: «ciò che ritorna come nucleo traumatico in tutti i sistemi sociali» (Mucci: p. 5). Tanto più, per quello straordinario laboratorio della Modernità che è stato la Grande Guerra.
Con la guerra industriale l’artificio fa irruzione nella storia umana. Di più, è l’artificio stesso a farsi natura, lasciando per la prima volta nelle menti di migliaia e migliaia di fanti contadini i segni della dura vita di trincea e di una asfissiante angoscia dell’attesa. Un nemico invisibile non antropomorfo, tutto acciaio e gas asfissianti accompagna la nascita della sindrome da stress post traumatico. Per tutta la durata del conflitto, le forze produttive, tecnologiche e scientifiche furono impegnate a produrre la morte di massa su base industriale. Per quasi quattro anni è come se il tempo si fosse sospeso. Con le parole di Rainer Maria Rilke, «il passato rimane indietro, il futuro esita, il presente poggia sul nulla» (6). Stava davvero nascendo il Novecento, con i sinistri presagi di nuove violenze e nuove sventure.
Nessuno meglio di Walter Benjamin ha saputo farci rivivere questo doloroso crocevia del trauma e della sua storia: «Con la guerra mondiale cominciò a manifestarsi un processo che da allora non si è più arrestato. Non si era visto, alla fine della guerra, che la gente tornava dal fronte ammutolita, non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile? Una generazione che era andata a scuola col tram a cavalli, si trovava, sotto il cielo aperto, in un paesaggio in cui nulla era rimasto immutato fuorché le nuvole, e sotto di esse, in un campo magnetico di correnti ed esplosioni micidiali, il minuto e fragile corpo dell’uomo» (7).
È il momento di riprendere in mano la citazione che ho ricordato prima: «ciò che è umano definisce anche l’inumano». Si tratta di un enunciato i cui sintagmi nominali si scambiano continuamente di posto, generando — per tutto il libro — la riscrittura di «trauma» nell’incrocio tra psicoanalisi interpersonale e neurobiologia dell’attaccamento, antropologia culturale e filosofia della mente.
Per Judith Butler, gli uomini sono «corpi socialmente costituiti», e «fragilmente uniti agli altri», così solidalmente da essere sempre a rischio di perderli (gli altri), o di subirne l’offesa e la violenza. «Vite precarie» è il titolo del libro in cui l’antropologa americana individua la costituzione dell’umano nelle sue radici interpersonali e nel sofferto lavoro del lutto e della perdita. Un avvincente itinerario di ricerca che, non a caso, incrocia le pagine dedicate da Clara Mucci alla «persistenza dell’umano» e alla «ricostruzione del legame interno tra Sé e l’altro» (Mucci: p. 194 s.).
Una aperta, radicale presa di distanza dal soggettivismo e dal coscienzialismo che non può non trovare d’accordo chi fa il mestiere di storico. La metafora dell’interno e dell’esterno ha connotato per secoli il discorso della modernità, offrendo alla visione del soggetto uno spazio per rivendicare la piena sovranità su quanto si costituisce come altro da sé. Fra quanti si sono contrapposti a tale tradizione, vorrei ricordare almeno John Dewey, che nel 1925 dedicava memorabili pagine all’ambiguità del paesaggio interiore che da Cartesio in poi ha reso possibile «il dualismo tra l’io e il mondo delle cose e delle persone» (8).
Se, com’è vero, la formazione della mente ha radici relazionali, il processo di individuazione è sincronico al processo di socializzazione. Significato, Sé e Mente, anzi, precipitano simultaneamente, dando forma nell’ontogenesi di ogni singolo individuo a un irripetibile intreccio di natura e cultura, genetica e ambiente.
La vita della nostra mente è segnata da un processo di accrescimento attraverso cui si stabiliscono e si espandono i contatti sinaptici che collegano i neuroni e si rivestono di mielina i loro assoni. Eventi questi che, nel periodo post-natale, fanno crescere il nostro cervello di ben quattro volte, per dimensione e peso. Il processo di plasmazione e riplasmazione delle connessioni sinaptiche dura praticamente tutta la vita (9). Seguendo le acquisizioni più recenti della neurobiologia, per Clara Mucci «la mente si forma nell’ambito delle interazioni fra processi neurofisiologici interni ed esperienze interpersonali e i collegamenti umani plasmano lo sviluppo delle connessioni nervose che sono alla base dell’attività del cervello» (Mucci: p. 24).
Dall’ontogenesi alla filogenesi, la neotenia insieme con l’ingrossamento di diencefalo e telencefalo ha fatto sì che il sistema nervoso centrale dell’homo sapiens si sia formato in gran parte per l’interazione tra natura e cultura. Per Clifford Geertz «ciò che distingue [l’uomo] più vistosamente dai non-uomini è la quantità e la varietà di cose che deve imparare prima di poter funzionare», sicché «la cultura, invece di essere aggiunta, per così dire, ad un animale ormai completo, fu un ingrediente, e il più importante, nella produzione di questo stesso animale» (10).
Sta di fatto, comunque, che in conseguenza dell’immaturità del nostro cervello e della necessità che il corpo e la mente si sviluppino ancora per lungo tempo dopo la nascita, il cucciolo dell’uomo è oggetto di cure e attenzioni genitoriali per un tempo incomparabilmente maggiore a quello dedicato agli infanti di altre specie animali. Si può ben capire allora che l’attaccamento madre-bambino sia costitutivo dell’umano e alla base di ogni forma di legame instaurato nella vita adulta. Le esperienze precoci plasmano infatti la struttura e le funzioni del cervello, influenzando la modalità con cui i geni vengono espressi (Mucci: p. 26). Prendendo a prestito le parole di Mark Solms, si potrebbe dire che la corteccia frontale ventromediale è addirittura una «madre protettiva internalizzata» (11).
L’integrazione dei modelli psicologici e biologici di sviluppo umano richiederebbe, tuttavia, la contestualizzazione dei processi culturali implicati nella relazione madre-bambino. Come fa rilevare Barbara Rogoff, l’idea che tale relazione «osservata nelle famiglie occidentali, rappresenti uno standard universale, è stata messa in discussione da una serie di osservazioni sul trattamento dei bambini in altre comunità». Essere madre in una favela brasiliana, ad esempio, significa imparare a capire quando bisogna «lasciare andare» il bambino che non potrà sopravvivere agli stenti e alla fame. Come quella donna che raccontò a Nancy Scheper-Hughes che due dei suoi figli «non le avevano dato problemi» a morire, semplicemente «avevano roteato gli occhi indietro, restando così immobili e silenziosi» (12).
Alla ricerca dell’umano, il trauma dunque come «malattia della plasticità neuronale» (Mucci: p. 40), come evento che mina alle sue fondamenta la diade empatica primaria e ogni altra forma di relazione. Una «terra di nessuno», sul bordo tagliente del precipizio verso il vuoto e il silenzio del sapere-non sapere.
A margine, qualche considerazione sui traumi massivi e sulla sconsolante assuefazione alla ‘messa in scena’ di traumi e violenze.
Un paio di volte il libro incrocia la ‘questione animale’ a proposito della coppia oppositiva Umano/Inumano. Si fa notare ad esempio, con Judith Herman, che «gli animali non vanno in guerra né torturano i loro simili, né li segregano in campi di sterminio» (Mucci: p. 195), eppure si fa fatica a qualificare azioni così ripugnanti come tratti squisitamente umani. Fa capolino qui quel «ciclo maledetto», come l’ha definito Levy- Strauss, che è servito «a escludere dagli uomini altri uomini e a costruire un umanesimo riservato a minoranze sempre più ristrette». La disumanizzazione dell’altro spesso passa attraverso la sua animalizzazione, ma questa a sua volta è possibile in quanto si sia operata una preliminare bestializzazione del mondo animale, con le armi del dominio e della reificazione (13). Con le parole di Edgar Morin, «l’asservissement du monde animal a créé les modèles de l’asservissement de l’homme par l’homme» (14).
Non ci stupisce allora che nel vocabolario delle corti di giustizia internazionale e nelle testimonianze delle vittime di stupri e torture la coppia Human/Inhuman venga definita ricorrendo allo spazio liminale tra l’umano e l’animale. Sulla semantica di inhuman treatment, la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Irlanda contro Regno Unito, originata da un ricorso inter-statale degli anni Settanta, ci lascia in proposito l’interessante ‘opinione separata’ lasciata agli atti dal giudice Gerald Fitzmaurice: «A mio parere, il concetto di trattamento disumano dovrebbe essere limitato al tipo di trattamento che (tenute in debito conto le circostanze) nessun soggetto appartenente alla specie umana dovrebbe infliggere ad un altro, ovvero potrebbe farlo senza usare una grave violenza all’elemento umano, in quanto opposto a quello animale, della sua stessa costituzione» (15). In un processo pendente davanti alla Corte Penale Internazionale (imputato: Jean-Pierre Bemba, già vicepresidente della Repubblica democratica del Congo), una vittima rende testimonianza, riferendo della animalità del carnefice: «Sono stata trattata come un animale, non posso più vivere come prima. Ero una donna con la sua dignità, ma ho perso la dignità. Io sono stata vittima di un trattamento disumano» (16). Per dirla con Étienne Balibar, gli uomini si ostinano da sempre a rimuovere il lato cattivo della storia fuori dalla realtà umana (17).
Ancora: là dove Clara Mucci osserva giustamente che «le atrocità e le devastazioni del secolo XX […] sembrano aver reso le generazioni attuali abituate a un livello tale di violenza mai vista fino a questo momento storico, e hanno paradossalmente creato, più che una speciale sensibilità e risposta al trauma sociale, una sorta di zona grigia, una zona di trascuratezza e mancanza di responsabilità» (Mucci: p. 132). Credo ci sia dell’altro, più dell’assuefazione alla violenza. Mi riferisco alla sacralità e oscenità dei corpi propinate attraverso le immagini. Guy Debord è stato davvero profetico e ha saputo denunciare la progressiva smaterializzazione della società di oggi: «Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione» (18).
Dai rituali di violenza di Abu Ghraïb ai codici narrativi dell’immaginario sadomaso del bondage, fino al ticking bomb scenario di serial televisivi costruiti sull’epica della violenza giusta, la finzione non è il risultato di una malevola manomissione della realtà. È la realtà stessa che si dà a vedere come normalizzazione della percezione e della sua stessa manipolazione. A essere messe in scena, spesso, non sono la guerra e le sue necessarie sofferenze, ma l’oscenità del corpo. Un «grado zero della pornografia» che è stato magnificamente realizzato da un editore del Web che offriva ai soldati americani un accesso libero a scene hardcore in cambio di immagini cruente dai campi di battaglia. Un «patriottismo delirante» che è stato in grado di realizzare uno sharing virtuoso «fra porno e violenza». Al riguardo, Georg Büchner faceva notare che il pittore Jacques-Luis David sembrava avido di catturare la «vita che pulsa» nel volto dei condannati a morte. Arte oscena (19). Come la foto ufficiale scattata a Trento subito dopo l’esecuzione di Cesare Battisti, che con gusto macabro l’Impero austro-ungarico aveva fatto circolare come Postkarte. Karl Kraus volle che fosse riprodotta nel frontespizio del dramma «Die letzten Tage der Menscheit». Era quel sorriso di morte dei boia che voleva segnalare al mondo. L’annuncio di quella «cultura della morte», descritta magistralmente da Elias Canetti, che ha caratterizzato il secolo della violenza (20).
Se si accetta ─ come fa Clara Mucci ─ che il movente umano primario è la relazione interpersonale e quindi la disposizione alla resilienza e alla riparazione, la psicoanalisi è chiamata, più che mai, all’etica della responsabilità e della testimonianza. L’esperienza traumatica rende il paziente estraneo a tutti coloro che non hanno vissuto una esperienza simile; la vergogna, il disprezzo e il senso di colpa sono sentimenti che si incistano nel suo corpo e nella sua mente. Il trauma non è una questione «privata», ma chiama ad una responsabilità duplice, verso il singolo e verso la comunità. Laddove si opera «con vittime (di violenze domestiche e familiari […], di guerre, di persecuzioni politiche e di eccidi e stermini)» (Mucci: p. 87), il nemico più temibile è il silenzio che, come aveva intuito Ferenczi, ha una mortifera capacità di rendere l’evento sempre reale ed «eternamente presente». Una «terra di nessuno», quindi, ma anche «una terra senza tempo». Per dirla con Otto Kernberg «È nostra responsabilità come psicoanalisti contribuire in ogni modo possibile alla comprensione dei terribili sviluppi del nostro tempo» (Mucci: p. 132). Come si vede, si rivive di continuo nel nostro libro quella torsione teorica che negli anni venti ampliò grandemente l’euristica della psicoanalisi da teoria della mente e dispositivo terapeutico alla diagnosi impietosa della società in quanto tale.
Qui siamo davvero al crocevia di decisive opzioni epistemologiche e di congruenti strategie cliniche che hanno molto a che vedere con l’approdo alla fase più difficile, per paziente e terapeuta, che riguarda la «presentificazione» dei ricordi traumatici. Una «intimità senza paura» tra i due, una autentica empatia e un ricco traffico tra i loro emisferi destri, un lavorio di storicizzazione e ricostruzione «appassionato e benevolo», «dal non linguistico al linguistico, dalla frammentazione alla coesione, dalla solitudine alla reciprocità» (Mucci: p. 113 ss.). Da qui, l’appassionata ricerca della «verità storica» del trauma che è la sola via per sottrarre il paziente dalle «spire dell’istinto di morte e quindi della cieca ripetizione». Diversamente dalla visione classica, inaugurata da Freud dopo l’abbandono dei suoi Neurotica, per il filone teorico e clinico cui si ispira la nostra Autrice, i pazienti traumatizzati «non sono malati di fantasie ma di realtà, e la Storia stessa ha un nucleo traumatico, ovvero il nucleo di verità della realtà risiede proprio nell’esperienza traumatica» (Mucci: p. 49).
In merito, c’è da dire che il rapporto tra la realtà e la sua rappresentazione, tra quel che riceviamo dall’esperienza e quanto si genera all’interno della nostra sfera psichica è sempre riferito alla specifica fenomenologia del trauma. Tanto più che anche sulla primazia della relazione come sistema motivazionale primario, il dibattito è apertissimo anche nell’ambito delle neuroscienze: mi riferisco ai rilievi, benevoli, di Mark Solms ad Allan Schore (21).
In tutto ciò, il nostro libro è una vera tela di ragno, una trama che connette parole pregne di implicazioni teoretiche e di significati simbolici: «realtà» e «rappresentazione», «presente» e «passato», «intrapsichico» e «interpersonale». Uno storico che legge Clara Mucci ritrova molti degli ingredienti che hanno segnato per quasi due secoli la teoria e la filosofia della storia, dal positivismo fino alle correnti più radicali dell’ermeneutica e del costruttivismo. Di volta in volta, «archeologia», «ricostruzione», «interpretazione», «costruzione», «semiotica», «narrazione». D’altronde, l’idea stessa che il passato non è un morto possesso ma una fonte inesauribile di possibilità ha molte consonanze con le procedure di «riscrittura della memoria» di cui parlava Mauro Mancia, tra inconscio freudiano e neuroscienze.
C’è di più. L’umanesimo integrale e l’ispirazione etica del libro di Clara Mucci si potrebbero rendere proprio con le parole di un grande medievista, ebreo francese trucidato dai nazisti. Marc Bloch: «Il buono storico somiglia all’orco della fiaba: là dove fiuta carne umana, là sa che è la sua preda» (22).
Riferimenti bibliografici

(*) Professore Ordinario di Storia del diritto medievale e moderno, Università degli Studi di Catania.
(1) W.C. Booth, Retorica della narrativa, trad. it., La Nuova Italia, Firenze 1996, p. 133. Voce autorevole del gruppo dei Chicago critics (Scuola di Chicago di critica letteraria), sviluppò gli assunti di Ronald Salmon Crane, spaziando dalla poetica alla retorica: V.B. Leitch, American literary criticism since the 1930s, Routledge, London and New York 2010, 2nd ed., pp. 52-69. Sulla «lettura come esperienza etica» di Booth, cfr. G. Bettetini e A. Fumagalli, Quel che resta dei media: idee per un’etica della comunicazione, F. Angeli, Milano 2002, pp. 82 ss.
(2) La metafora di Georges Perec — «L’Histoire avec sa grande hache» — ha una straordinaria forza evocativa. Una combinazione di parole giocata sul termine Hache che significa scure o ascia, e sulla lettera «H» dell’alfabeto (Ache). Hache/Ache: un suono e due parole. La Storia si abbatte sugli uomini con la ferocia della sua pesante scure, ne annichilisce, altresì, le singole insignificanti storie brandendo la sua maiuscola (grande ache).
(3) J.L. Borges, L’artefice, trad. it., Adelphi, Milano 1999, p. 181.
(4) W. Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, trad. it., Einaudi, Torino, 1997, Tesi IX, pp. 35-37.
(5) D.S. Landes, A che servono i padroni? Le alternative storiche dell’industrializzazione, trad. it., Bollati Boringhieri, Torino 1987.
(6) A. Gibelli, L’officina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 224.
(7) W. Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino, 1995, p. 248.
(8) F. Migliorino, Il corpo come testo. Storie del diritto, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 16.
(9) E. Boncinelli, La vita della nostra mente, Laterza, Roma-Bari 2011.
(10) C. Geertz, Interpretazione di culture, trad. it., Il Mulino, Bologna 1987, p. 90 e s.
(11) M. Solms e K. Kaplan Solms, Neuropsicoanalisi. Un’introduzione clinica alla neuropsicologia del profondo, trad. it., Raffaello Cortina Editore, Milano 2002, p. 211.
(12) B. Rogoff, La natura culturale dello sviluppo, trad. it., Raffaello Cortina Editore, Milano 2004, pp. 110-118 (112).
(13) F. Migliorino, Efferati, inumani, mostruosi nelle maglie del diritto, in Diritto e controllo sociale. Persone e status nelle prassi giuridiche, a cura di A. Cernigliaro, Giappichelli, Torino 2014, pp. 1-22.
(14) E. Morin, La Méthode, I, La nature de la nature, Seuil, Paris 1977, p. 247.
(15) Corte europea dei diritti dell’uomo (sezione plenaria), Irlanda vs Regno Unito, ricorso n. 5310/71, sentenza del 18 gennaio 1978, Series A, no. 25, Opinione separata del Giudice Gerald Fitzmaurice, par. 22 e ss.
(16) International Criminal Court, The Prosecutor c. Jean-Pierre Bemba Gombo, ICC-01/05 – 01/08.
(17) E. Balibar, Razzismo e nazionalismo, in Razza, nazione, classe. Le identità ambigue, trad. it., Edizioni Associate, Roma 1990, p. 82.
(18) G. Debord, La società dello spettacolo. Commentari sulla società dello spettacolo, trad. it., Badini & Castoldi, Milano 2013, II ed., p. 53.
(19) B. Maj, Georg Büchner, Ediesse, Roma 2013.
(20) F. Migliorino, Introduzione a A. De Filippo, Apocalypse When? «Il minuto e fragile corpo dell’uomo». Tre casi di studio sulle logiche dello spettacolo, Società di Storia patria della Sicilia orientale, Catania 2013, pp. 2-17.
(21) Solms e Kaplan Solms, Neuropsicoanalisi, cit, p. 212: «ciò che il bambino alla ricerca dell’oggetto sta effettivamente cercando è il piacere o il sollievo dal dispiacere e che l’attrazione per l’oggetto nasce solo perché l’oggetto è in grado di soddisfare i bisogni del bambino, cioè in ultima analisi di ridurre la tensione generata dalle pulsioni».
(22) M. Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico, trad. it., Einaudi, Torino 1969, II ed., p. 41.

Vai alla recensione di Valeria Egidi Morpurgo

Chi ha letto questo articolo ha anche letto…

“Al cinema con il mio paziente"  di G. Riefolo. Recensione di P. Boccara

Leggi tutto

"Femminile melanconico" di C. Chabert. Recensione di S. Lombardi

Leggi tutto