Ed è interessante che egli lo faccia a partire dalla propria analisi personale. A circa trent’anni, cioè quando già aveva compiuto le scoperte che gli sarebbero valse il premio Nobel per la Fisica (1945), il grande scienziato entra in depressione in seguito al suicidio della madre e alla traumatica separazione dalla moglie. Il padre gli suggerisce di rivolgersi a Jung, che lo invia ad Erna Rosembaum. L’analisi si protrae per quattro anni. Durante il suo svolgimento, Pauli sviluppa un interesse per i propri sogni e, più in generale, per il lavoro onirico. Li trascrive con regolarità e, a partire dal 1932, li invia a Jung, che a sua volta li utilizza ampiamente nel proprio lavoro. Ora si ritrovano nelle Opere, sia pure in forma anonima. Il volume è composto da tre sezioni, ma il tema, che giustifica il progetto editoriale e, soprattutto, l’interesse dello psicoanalista, è esplicitato nella prima di esse, intitolata “Moderni esempi di Hintergrundsphysik”:
«Con il termine Hintergrundsphysik intendo il ricorrere di idee e concetti quantitativi della fisica in fantasie spontanee, in senso qualitativo, figurato, cioè simbolico» (p. 26). Secondo Pauli, tale ricorrenza non può essere una semplice “deformazione professionale”, ma al contrario rappresenterebbe un segno decisivo dell’indipendenza dei sogni dalla storia del loro sognatore. Egli s’interroga allora sull’origine e sul senso di alcuni suoi sogni ricorrenti, nei quali di volta in volta una figura più autorevole di lui gli spiega l’importanza fondamentale di certe scoperte, come ad esempio la “scissione di una riga spettrale in un doppietto” o la “separazione di un elemento chimico in due isotopi” (p. 32) e lo invita a farne presto altre. Sulla base di questi contenuti, e anche ricordando come la stessa fisica, perlomeno fino a Keplero, si sia abbondantemente servita di immagini simboliche, per così dire prêtes-à-porter, per illustrare concetti e teorie mai abbastanza dimostrabili, Pauli configura le caratteristiche del lavoro onirico all’interno di una prospettiva epistemologica più ampia, cioè a partire dall’origine “archetipica” del concetto scientifico. Il suo lavoro lascia così emergere, senza peraltro coglierlo, un aspetto originale della ricerca scientifica, cioè il suo operare per “inversione nell’opposto” rispetto al funzionamento dell’apparato psichico.
Qui, ad esempio, appare invertito l’assunto freudiano del Progetto: in analogia al percorso compiuto dalla stessa fisica, da quella qualitativa di Aristotele a quella quantitativa di Galileo, anche il lavoro onirico realizzerebbe la trasformazione della qualità, cioè dell’Archetipo, in una quantità, che qui non assume i modi della scarica, ma la forma appunto del “concetto quantitativo”. In questo senso, la sua comparsa sulla scena onirica non va intesa come una “elaborazione secondaria”, ma interpretata nel suo «secondo senso» (p. 28), appunto archetipico, che in realtà è però il suo primum movens. E’ a questo livello che, secondo Pauli, lo scienziato trova le motivazioni necessarie per «sconfinare nella psicologia» (p. 29): i concetti fisici sono intesi come «proiezioni di associazioni di idee archetipiche» (ibid.); e le loro formulazioni, aggiungo io, appaiono di natura analoga a quella dei processi di verbalizzazione, normalmente operanti tra preconscio e coscienza. In questi termini, il soggetto sarebbe luogo di definizione e transito di trasformazioni, che nulla hanno a che fare con la sua storia personale. Naturalmente, Pauli non si rivolge al sogno con lo stesso rigore delle sue ricerche nel campo della meccanica quantistica. Questa reductio all’Archetipo può apparire, e in molti sensi certamente lo è, una semplificazione.
Tuttavia, per altro verso, tale semplificazione ha il merito sia di rilanciare un’intuizione di Freud sulla natura profonda del lavoro creativo e scientifico, sia di sollecitare dall’interno del lavoro clinico un dibattito epistemologico sulla psicoanalisi e sulla teoria del sogno che, lasciato in mani “esterne”, mostra a tutt’oggi una sostanziale sterilità.