Cultura e Società

Persecuzione

1/02/11

Alessandro Piperno (2010)
Persecuzione. Il fuoco amico dei ricordi.
Mondadori, pp. 432

 

“La verità è sempre inverosimile. Per rendere la verità più verosimile, bisogna assolutamente mescolarvi della menzogna. La gente ha sempre fatto così”.
 

( I Demoni, F. Dostoevskij)

 

Pur trattandosi, a mio parere, di uno scrittore ancora in qualche misura ‘giovane’ e acerbo (per età, per indugio in uno stile ancora troppo elaborato, per una qualche carenza di vero sfondo drammatico), tuttavia ritroviamo in Alessandro Piperno un narratore italiano di sicuro interesse. Persecuzione vuole essere il primo capitolo di un dittico, in sé però del tutto compiuto, che l’Autore ha raccolto con il sottotiolo ‘Il fuoco amico dei ricordi’.
I ricordi ci uccidono, senza volerlo? Possiamo trovarci in qualunque momento della vita sotto l’inaspettato e immeritato fuoco amico del passato che ci perseguita, che a sorpresa ritorna? Siamo dunque potenzialmente sempre in pericolo, proprio là dove ci sentiamo al sicuro?
E’ quanto accade al professor Leo Pontecorvo, protagonista di Persecuzione. Egli sembra un personaggio tanto stereotipo da apparire quasi non vero: medico pediatra oncologo dalla brillantissima carriera, villa romana all’Olgiata, una famiglia borghese dall’apparenza perfetta, due figli preadolescenti, una moglie, Rachel, dedita alla vita familiare con eleganza e rigore. Un’agiatezza non urlata, non sbandierata, scevra da qualunque volgarità o eccesso. Una posizione acquisita con lo studio (non appassionatissimo, peraltro) e poi con una dedizione ed ambizione indefesse, all’interno della rassicurante cornice borghese che la moglie, pur laureata ma ovviamente dedita a che tutto funzioni in famiglia e quindi avendo senza dolore rinunciato ad una sua propria carriera, non ha smesso un attimo di ricercare e proteggere. I figli, Samuel e Filippo (Leo Pontecorvo è di origini ebraiche), sono ragazzini vivaci, dalle caratteristiche caratteriali apparentemente antitetiche come accade spesso fra fratelli, educati, intelligenti, perfetti figli del loro ambiente.
O almeno, così sembra per gran parte del romanzo…

 

Tuttavia, al professor Leo sono già capitate alcune ‘piccole’ grane giudiziarie, di quelle in cui oggi incorrono non pochi professionisti, che lo hanno un poco inquietato ma senza sostanzialmente modificare il corso di questa pacifica esistenza. Invece, quello che ascolta una sera al Tg delle otto mentre è a tavola amorevolmente con la famiglia, cambia in un attimo il corso della vita. Irrimediabilmente.
L’accusa è, oggi, una della più infamanti: una dodicenne, Camilla, ex fidanzatina di Samuel, lo accusa di averla sedotta, raggirata e in seguito di tentato stupro. Camilla fornisce agli inquirenti dettagli, resoconti, e soprattutto lettere: una serie di dannatissime lettere da cui la sua grafia tonda e infantile rivelerebbe, senza ombra di dubbio, di avere avuto a che fare con un pedofilo, o alla meglio col solito ‘vecchio porco’ che, ricevendo in casa la ragazzina del figlio, non può fare a meno di avvicinarla, sedurla, abusando della propria posizione, del potere, del fascino che un uomo come lui, attraente e di successo, sicuramente esercita su un’adolescente inquieta. Ha inizio così la deriva, la Persecuzione che, come un indifferente e meccanico tapis roulant, da quella sera avvolge il professor Pontecorvo.

 

E’ inevitabile ritrovare, nel corso della lettura e soprattutto all’inizio, echi e ricordi narrativi dei fantasmi Kafkiani, di un certo Buzzati, fino ad alcuni recenti romanzi di Ian Mc Ewan (“Espiazione”, “L’amore fatale”…), da cui in qualche modo l’autore sembra avere tratto un fondo comune di ispirazione; ma Persecuzione non ne imita per intero nessuno, mantenendosi un ponderoso romanzo a suo modo originale ed intrigante. Ciò che pare più interessante, si viene sviluppando nel corso della narrazione: l’iniziale incipit della molestia a Camilla, l’aggancio pressoché inconsistente di una serie di letterine da adolescente piena di fantasia (noi diremmo: un po’ isterica), viene a perdere di interesse. Non si capisce bene perché Camilla metta su questa crudele montatura, né il racconto approfondisce le seduzioni eterne del lolitismo, della facilità e della debolezza con cui, in situazioni del genere, un adulto può scivolare a confondere messaggi, a non interrompere per tempo corrispondenze che magari lusingano il narcisismo ma potrebbero poi prestarsi ad ambiguità… Quello che conta, quello che narrativamente si impone è il clima di fosca deriva agli inferi in cui Leo di colpo precipita. Ciò che colpisce, è il sordo ostracismo e l’abbandono totale in cui lo lascia la moglie, i suoi cari, gli amati figli, i colleghi…una famiglia adorata e apparentemente sobria ed equilibrata, una moglie dedita e sollecita, diventano di colpo, da un giorno all’altro, i più implacabili giustizieri, un tacito e crudele tribunale dell’inquisizione borghese che, sotto le spoglie della tolleranza e dell’intelligenza, condanna senza appello i suoi membri, coloro che commettono uno scivolone, un errore. E’ una deriva senza il cenno di un perdono, senza ombra di pietas, incrudelita dal silenzio, dall’assenza di litigio o di scontro. Le immagini hanno decretato che è così, che Leo è colpevole (come lui stesso urla al suo stolido avvocato) e così dev’essere. La verità dei media viene assunta come la Verità, e come tale interiorizzata ed accettata da tutti.

 

Nella bella dimora dell’Olgiata, silenziosa e discreta, Leo finisce per trascorrere l’anno che segue alla rivelazione del Tg in una sorta di cantina, al piano di sotto alla vita dei suoi cari, una sorta di sottosuolo dostoevskijano dove vivono le anime morte, quelle che non vediamo nella luce del giorno, i reietti, gli impuri: gli viene lasciato un po’ di cibo la notte, quando gli altri dormono, di cui Leo si nutre sempre meno, in preda ad incubi, sogni e ricordi. Il fuoco amico dei ricordi. La memoria ormai girovaga e dolente, il pensiero non più contenuto dalla vita quotidiana, va a soffermarsi su episodi dell’infanzia dei figli, particolari, dettagli che rivelano come non fosse tutto così perfetto: i due fratelli morbosamente attaccati, il piccolo Filippo bambino dislessico, forse con tratti autistici… Rachel, la bella moglie dal rigore apprezzabile, una donna che la memoria riporta ora ottusa e dura, intransigente fino al sadismo. E così l’inetto avvocato, amico pieno di rancori nei suoi confronti, il pubblico ministero che “fa il suo lavoro”, procedendo come se la verità fosse già data, una sorta di ‘a priori’ su cui non vale la pena indagare oltre…
Un mondo di personaggi (pochi, nell’economia della vicenda) tenacemente ottusi, incuranti dell’ascolto di Leo, al quale non resta che il fuoco amico dei ricordi, un incessante dialogo dentro se stesso che appare da subito privo di sbocco, di vita. Un sottosuolo che lo porterà inevitabilmente alla morte.

 

Se avessimo dovuto scegliere un sottotitolo, esso sarebbe stato Umiliazione.
Più ancora del clima persecutorio, è nell’umiliazione che scorre il fil rouge della vicenda. Nella vergogna. Vi è umiliazione ovunque: nel passato (la Storia degli ebrei), nei ricordi di gioventù, nell’incontro con l’avvocato, nella breve permanenza in carcere e nei colloqui col giudice, nella stessa seduzione da parte di Camilla (se vogliamo vederla come una seduzione rovesciata), nell’abbandono da parte di Rachel, fino all’estrema umiliazione di essere ridotto a topo da fogna, ad abitare il sottosuolo, fisico e simbolico, della vita degli altri. La ferocia di un’umiliazione perenne, continua, forse antica. Viene da chiedersi: parte proprio da lì? davvero la vicenda di Leo, il suo essere vittima senza coscienza, il marchio di una vergogna senza nome, inizia con quella notizia al Tg? Oppure la notizia fornisce l’appiglio per un disvelamento, per l’emersione di una zona d’ombra, di una parte scissa, di un retroterra personale mai risolto, mai affrontato, che affonda le sue radici nella vergogna e nella colpa?
Psicoanaliticamente, come ci narra anche Freud dai suoi stessi ricordi d’infanzia (quando sporcò il letto e la madre gli urlò “vergognati!”), la colpa “è generalmente riparabile, mentre la vergogna lo è assai meno o non lo è affatto” (Pandolfi, 2002). Dolorosamente alimentata dallo scarto tra l’Io e il suo ideale, la vergogna può talvolta convertirsi in un macigno che ci perseguita senza sosta per tutta la vita. Magari per avvenimenti banali, sul piano oggettivo, o frequenti e non gravi in sé (la pipì a letto del piccolo Sigmund), o per accadimenti importanti ma fasulli, o fantasticati, o come nel caso del nostro personaggio, costruiti ad arte in un edificio mistificatorio, persecutorio. Non cambia: per chi la prova, la vergogna è un affetto di profondissimo dolore, di inconsolabile pena. Legata allo sguardo dell’altro, essa porta a nascondersi, a rintanarsi, a sottrarre lo scadente spettacolo di sé all’essere visti e percepiti dall’altro. Il sottosuolo di Leo Pontecorvo è l’antro dove non solo la famiglia lo nasconde alla vista del mondo, ma dove lui stesso può consumare la sua vergogna in solitudine, sottratto allo sguardo impietoso dell’altro, quasi liberato, infine.

 

Bibliografia

 

Pandolfi A. M. Le vergogna, Franco Angeli, 2002

 

Rossella Valdrè

 

 

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