PIPILOTTI RIST, 2018
L’uso degli psichedelici in un setting gruppale (anche naturalistico) favorisce i rapporti interpersonali e spiega il suo uso terapeutico anche a livello individuale.
Francesco Castellet y Ballarà commento a:
Psychedelic Communitas: Intersubjective Experience During Psychedelic Group Sessions Predicts Enduring Changes in Psychological Wellbeing and Social Connectedness.
H. Kettner, F. E. Rosas, C. Timmermann, L. Kärtner, R. L. Carhart-Harris and L. Roseman (2021). Front. Pharmacol. 12:623985.
doi: 10.3389/fphar.2021.623985
KW: psichedelia, comunità, psicoterapia di gruppo, onirico, allucinazione
La dimensione sociale dell’uso degli psichedelici e la sua importanza ai fini di un uso terapeutico è il focus di questo bel lavoro sperimentale che comprende tra i vari autori anche Carhart-Harris, già citato in un mio precedente contributo sul tema.
Se, infatti, la ripresa delle sperimentazioni cliniche nel setting individuale di una psicoterapia adiuvata da psichedelici conta ormai solide basi scientifiche e più di dieci anni di intensa ricerca, pochi sono gli studi che ne indaghino l’efficacia in un setting gruppale, che è invece quello ove di regola vengono assunte queste sostanze, sia nel contesto tradizionale sciamanico che in quello attuale occidentale come nei rave party o nei cosiddetti ritiri psichedelici.
Ad esempio, nei ritiri psichedelici, l’uso delle sostanze é preceduto e seguito da sessioni condotte da facilitatori o terapeuti che hanno il fine di promuovere dinamiche relazionali di scambio emozionale e reciproca fiducia tra i partecipanti, ritenute essenziali per la riuscita trasformativa dell’esperienza psichedelica.
L’auto disvelamento controllato e moderato di pensieri ed emozioni è infatti essenziale per sviluppare relazioni sociali significative e quindi di aumentare o formare una coesione e alleanza intragruppale che sappiamo essere, dalle ricerche sulla psicoterapia di gruppo, una dei più potenti indicatori di outcome positivo al trattamento.
Una tecnica particolarmente utile sembra essere quella degli “sharing rounds” ove ogni partecipante è invitato a condividere le proprie esperienze e i propri racconti in una atmosfera non giudicante o incalzante, con lo scopo finale di promuovere l’auto-etero regolazione emozionale e l’auto-etero accettazione del Sé.
In questo setting che esalta al massimo il ruolo del contesto psicologico, sociale e culturale, l’uso di psichedelici, ovvero degli agonisti del recettore 2A della serotonina (tipo LSD o Psilocibina), avrebbe il ruolo di promuovere una sospensione temporanea delle strutture gerarchiche neurocognitive che causerebbe una ricombinazione meno limitata e rigida di pensieri, l’emergenza di nuovi insight e a volte un riorientamento radicale delle relazioni del soggetto con se stesso, gli altri e la realtà nel suo complesso ( Carhart-Harris and Friston, 2019).
In questo lavoro è particolarmente interessante la comparazione offerta tra lo stato mentale psichedelico e lo stato mentale da fusione identitaria con un cambiamento del concetto di sé, che da personale diventa collettivo dando luogo a comunità spontanee (communitas), definite come un’esperienza di intensa unione e umanità condivisa che trascende temporaneamente le strutture sociali ordinarie (Victor Turner, 1969).
I due stati, secondo questi autori, sono largamente sovrapponibili quasi che l’intersoggettività iperstimolata in questi contesti gruppali promuovesse sia una sincronia emozionale che una fusione identitaria con modificazioni anche a lungo termine de Sé individuale, ovvero una ristrutturazione delle gerarchie neurocognitive in adattamento alla communitas/gruppo, ovvero un effetto intrasoggettivo.
I risultati della parte sperimentale (su 819 soggetti con Psilocibina e Ayahuasca) sono stati ottenuti tramite strumenti che misuravano, dopo la somministrazione dello psichedelico, spesso come singola dose:
l’esperienza intersoggettiva e gli effetti acuti degli psichedelici;
gli elementi relazionali del setting come fusione identitaria, self-disclosure, rapporti con gli altri partecipanti, i facilitatori e i modificatori dei tratti di personalità;
gli outcome psicologici a lungo termine, con riguardo ai sintomi depressivi e ansiosi, ritiro sociale o benessere generalizzato e connessione sociale.
In conclusione, l’appartenenza ad una “communitas”, ovvero ad un gruppo con una speciale coesione e senso di umanità condivisa, è predittivo in maniera statisticamente significativa del. benessere psicologico e del senso di connessione sociale dopo uso di psichedelici. Inoltre, senza l’uso di psichedelici, la partecipazione a fenomeni tipo communitas, come festival di musica o folkloristici, dimostrazioni di protesta, danze di gruppo o attività sportive sociali, oppure eventi traumatici sociali come guerre o catastrofi, ha sì effetti sulla coesione sociale e sul benessere mentale in generale, ma sempre in funzione del grado di condivisione emozionale profonda possibile. Condivisione che col setting adeguato aggiunto all’assunzione anche in singola somministrazione di psichedelici è enormemente facilitata.
Quindi, come scrivono gli autori, questo studio rende esplicite e misurate in modo quantitativo le associazioni tra meccanismi terapeutici molecolari e psicosociali degli psichedelici e rendono visibile il carattere incarnato, situato e (possibilmente) esteso della cognizione, dell’affetto e della salute mentale (pag.13).
Come mia personale riflessione finale, ho trovato molto stimolante uno studio che si interroghi sul rapporto tra psicoterapia individuale e gruppale contemporaneamente e di come l’individuo non possa essere trattato senza considerare la sua appartenenza al suo gruppo di riferimento. Guarire è sempre relativo alla communitas di appartenenza? L’individuo non precede e determina la società e non è, forse, il prodotto dei rapporti sociali stessi?