Giovanni Fattori
Stefania Turillazzi Manfredi (Grosseto 1929- Firenze 2015)
A cura di Chiara Matteini
Note biografiche
Stefania Turillazzi nasce a Grosseto il 20 giugno 1929. Si laurea in medicina e si specializza in medicina legale. Sposata con Mario Manfredi, ha avuto due figli Gianna e Matteo.
Si forma a Roma, dove è in analisi con Emilio Servadio, in supervisione con Nicola Perrotti, e la prima allieva di Eugenio Gaddini, come lei stessa ricorda nel necrologio per il maestro sulla Rivista di Psicoanalisi (Turillazzi Manfredi, 1986). Nel 1959 diventa psicoanalista della Società Psicoanalitica Italiana, appena quarantenne ottiene le funzioni di Training. Trasferitasi a Firenze, è tra i fondatori del Centro Psicoanalitico di Firenze, insieme a Arrigo Bigi, Giovanni Hautmann, Giordano Fossi, Franco Mori. Dal 1972 al 1976 è stata segretario scientifico del Centro Psicoanalitico di Firenze e dal 1982 al 1986 vicepresidente della Spi. Muore a Firenze il 6 luglio 2015.
Coniugava la conoscenza profonda della storia del pensiero psicoanalitico con una costante apertura ai contributi contemporanei e al dibattito internazionale. Nel 1974 pubblicò sulla Rivista di Psiconalisi una traduzione del lavoro di Strachey sulle interpretazioni mutative,”La natura dell’azione terapeutica della psicoanalisi”, letto alla Società britannica nel 1933 e pubblicato sull’International Journal of Psichoanalysis nel 1934. Un lavoro che aveva avuto grande risonanza all’estero, ma era poco conosciuto in Italia. Curiosa ed attenta ai contributi internazionali è lei a diffondere in Italia il pensiero di Willy e Madeleine Baranger, curando con Antonino Ferro l’edizione italiana de La psicoanalisi come campo bipersonale. La psicoanalisi argentina, non solo quella dei Baranger ma anche quella di Pichon-Rivière, Racker, Etchegoyen, rimane nel suo lavoro teorico e clinico costante punto di riferimento.
Ha sempre cercato di intercettare lo junctim freudiano fra teoria e clinica, con grande attenzione ad alcuni fattori fondamentali: la storia dei concetti attraverso l’evoluzione del pensiero teorico, i cambiamenti nella tecnica, il lessico psicoanalitico (sottolineandone aporie e incongruenze), la formazione degli analisti e il rapporto fra psicoanalisi e psicoterapie. I suoi contributi si sono soffermati costantemente attorno ai temi centrali del dibattito psicoanalitico di quegli anni: interpretazione, identificazione proiettiva, controtransfert, campo analitico, acting, enactment, intersoggettivitá, sempre esercitando il suo sguardo acuto sulle contraddizioni del dibattito in corso e le possibili aperture sul futuro della psicoanalisi.
Dall’interpretazione al campo:
Sull’interpretazione lavora a lungo, partendo dalla traduzione del lavoro di Strachey sulle interpretazioni mutative e arrivando a definire il lavoro interpretativo come collegato a “fantasie di razza mista” che permeano il campo analitico. Come lei stessa precisa nella nota introduttiva con cui ripubblica nel 1994 “Interpretazione dell’agire e interpretazione come agire”, pubblicato originariamente nel 1978 sulla Rivista di Psicoanalisi, il suo percorso parte da un vertice legato prevalentemente al modello kleiniano per poi spostarsi, attraverso la riflessione sugli autori latino-americani, sull’interpretazione come condensatore di correnti transferali e controtransferali, un luogo nel quale si incontrano le parole del l’analista e le parole del paziente, per generare il frutto del lavoro comune dell’analisi. L’interpretazione data all’interno del campo analitico diviene dunque non più solo un’interpretazione di transfert, ma un’interpretazione nel transfert, che coglie quel particolare momento del lavoro analitico nel quale la ripetizione di qualcosa consente un’apertura a nuovi significati. Nella parola interpretativa compare inesorabilmente il precipitato del vissuto controtransferale e diviene allora necessario lavorare a lungo sulla possibilità di riconoscere e nominare tutte le matrici del campo analitico. Il rischio altrimenti è che l’interpretazione divenga un acting espulsivo, che non alimenta la possibilità di pensiero e favorisce vissuti persecutori nel paziente (Turillazzi Manfredi,1978b). Eppure nel 1998, pur rivedendo l’idealizzazione un tempo accordata all’interpretazione mutativa, ritiene che sia ancora l’interpretazione di transfert il luogo elettivo del lavoro analitico. Scrive in uno dei Seminari Milanesi che nell’interpretazione di transfert si condensano molti aspetti del campo: “l’ascolto, la memoria, il silenzio, la pazienza e l’attesa, il contenimento e il condividere, la tolleranza e il controtransfert, le teorie del paziente e quelle fluttuanti dell’analista, il recupero degli affetti perduti e la loro nominazione, l’antico e il nuovo del transfert, le ricostruzioni, la speranza del cambiamento, il malinteso e la suggestione ed infine il cambiamento stesso (…) In conclusione ci sono più cose nell’interpretazione di transfert di quante ne possano prevedere le nostre teorie.” (Turillazzi Manfredi, 1998, p.110).
Dall’identificazione proiettiva al controtransfert
La riflessione di Stefania Turillazzi Manfredi è costantemente alla ricerca dello junctim, nella convinzione che alla costante evoluzione delle esperienze cliniche corrispondano lacune teoriche, che lasciano una porzione di esperienza muta. Così, a partire da un concetto cardine della teoria psicoanalitica kleiniana come quello di “identificazione proiettiva”, l’autrice avvia un costante lavoro di “messa alla prova” dei concetti più utilizzati nella teoria psicoanalitica dell’epoca. In un lavoro del 1985 “L’unicorno: saggio sulla fantasia e l’oggetto nel concetto di identificazione proiettiva” scrive: “Il termine ‘identificazione proiettiva’, questa specie di unicorno di kleiniana memoria, mi è sembrato emblematico di certi problemi del nostro linguaggio: noi usiamo parole di cui abbiamo smarrito il senso, che tendono a sbalzare chi ci ascolta in una dimensione magica e che costituiscono ormai una cinghia di trasmissione che garantisce la riproduzione, sempre meno consapevole, di una certa ideologia permanente.” (Ibid. p.92). Emerge la necessità di poter collocare i concetti in un orizzonte teorico preciso e condiviso, così l’identificazione proiettiva necessita di essere ripensata alla luce del concetto di campo, e delle riflessioni sul controtransfert.
Ostacoli e appigli: transfert, controtransfert, intersoggettività
Molto lavori di Turillazzi Manfredi saranno dedicati alla teoria del controtransfert a partire dal 1989. In parte questi articoli sono raccolti ed integrati nella seconda parte de Le certezze perdute della psicoanalisi clinica. Un lavoro teso costantemente a mettere alla prova ciò che emerge e lavora nella relazione analitica.
L’autrice parte da una riflessione storica e teorica profonda del concetto di controtransfert, dalla comparsa del Gegenübertragung nel corpus freudiano, alle riflessioni di Ferenczi, Winnicott, Heimann, Little, Racker fino ai lavori allora più recenti, come quelli di Kernberg e di Faimberg. Analizza con precisione tutte le differenti tendenze che si sono succedute rispetto alla lettura del controtransfert, dapprima ostacolo pericoloso alla neutralità analitica, poi luogo di condensazione delle proiezioni del paziente, infine accolto come risorsa ineludibile dell’analisi. Turillazzi Manfredi sottolinea la necessità di tollerare il controtransfert, ritenendo impossibile comprenderne interamente ogni aspetto, ma indispensabile considerarlo costantemente una delle forze in campo. E’ in questa possibilità di tollerare quel che emerge dalla relazione che si ristabilisce l’indispensabile asimmetria della relazione analista-paziente. Perché si suppone che l’analista abbia gli strumenti e la responsabilità di saper gestire ciò che per il paziente può essere a lungo intollerabile, e di saper riconoscere nel tempo gli ostacoli e gli appigli che il campo presenta. E’ da questa posizione che Turillazzi Manfredi riflette anche sui concetti di self-disclosure, enactment e sulle nuove teorie intersoggettive, sottolineando sempre la posizione di un’analista che lavora in un assetto mentale di ascolto, del paziente e di sé, e di contenimento, per giungere infine ad una parola i cui frutti, se ci saranno, emergeranno nel campo attraverso le risposte del paziente, magari a distanza di tempo. Scrive in uno dei Seminari Milanesi: “Paul Valery (…) diceva di guardare il mondo della vita quotidiana come una mucca che guarda passare il treno. Questa è l’autentica meraviglia dalla quale nascono nuovi significati. Penso che lo psicoanalista dovrebbe guardare a ciò che dice il paziente come un animale guarda al mondo umano: con una pacifica perplessità.” (Turillazzi Manfredi, 1998, p. 74).
Sul cambiamento
Un altro dei nodi attorno ai quali Turillazzi Manfredi lavora a lungo è quello del cambiamento. Nel 1991 partecipa al XXXVII Congresso Internazionale di Psicoanalisi (Buenos Aires 1991), il suo intervento sul cambiamento sarà poi pubblicato nel 1992 con il titolo “Cambio y reparacion” sulla Revista de Psicoanálisis e in quello stesso anno sulla Rivista di Psicoanalisi (Turillazzi Manfredi, 1992). Nel volume del 1994 dedica un capitolo all’argomento intitolato “Cambiamento e riparazione” (Turillazzi Manfredi, 1994). Incentra la sua riflessione sul cambiamento partendo da un dubbio: la psicoanalisi è una teoria del cambiamento psichico o una teoria degli ostacoli al cambiamento psichico? Ancora una volta si sofferma su un concetto cardine della teoria psicoanalitica kleiniana, la riparazione, per smontarne l’uso consunto e ormai automatico. Propone un allargamento winnicottiano, immaginando una riparazione che muova dal “to be concerned”, dalla capacità di preoccuparsi per l’oggetto maltrattato e odiato, per tentare infine di ripararlo. Ritornando sul tema nel 2008, in un intervento inviato al Congresso SPI “Identità e cambiamento”, Turillazzi Manfredi sottolinea l’idealizzazione eccessiva depositata nel corso del tempo sulle possibilità di un cambiamento strutturale, definito e certo. Ricorda come il cambiamento sia certo desiderato, ma anche temuto, vissuto a volte come la fine del mondo, di quell’unico mondo in cui era possibile riconoscersi, e allora l’analista può essere a volte percepito come l’agente occulto di un cambiamento in vitro, vissuto come alieno. Non esiste però il cambiamento, ma tanti differenti cambiamenti, interni ed esterni all’analisi. Quello analitico ha certo a che fare con la relazione e con ciò che in quella relazione si produce. Scrive nella relazione del 2008: “Credo che non si introiettino oggetti ma interazioni. Detto in altro modo, se l’analista ha un buon rapporto con alcuni aspetti del paziente, il paziente introietta questo suo buon rapporto: questa è la riparazione. Vorrei concludere dicendo che sono convinta che la riparazione sia soprattutto uno stato della mente e che la mente sia come un’officina dove si ripara in permanenza, fino a quando, a un certo punto, il ritmo diventa insufficiente.” (Turillazzi Manfredi, 2008).
La parola al lavoro:
Non è un caso se il seminario organizzato dal Centro Psicoanalitico di Firenze e dal Centro Milanese di Psicoanalisi Cesare Musatti per ricordare il lavoro di Stefania Turillazzi Manfredi è stato intitolato “Il lavoro della parola nella Psicoanalisi di Stefania Turillazzi Manfredi”. L’importanza della parola, e dell’ascolto analitico come terra di emersione di possibili parole, è stato costantemente al centro della riflessione dell’autrice. La parola interpretativa, che raccoglie e ricompone il lavoro del campo per porgerlo al paziente, ma anche la parola come luogo di deposito e raccolta del “lessico famigliare” di quello psicoanalista in quel momento di quell’analisi e della sua vita: “Nelle nostre interpretazioni infatti compaiono e ricompaiono spesso le parole usate da altre persone significative per noi, le parole della nostra infanzia e della nostra adolescenza, le parole lette nei libri, le parole del nostro analista, le parole di quel paziente e di altri pazienti, come se fossero resti diurni”. (Turillazzi Manfredi 1994, p. 57). Da ricordare anche l’importanza costante da lei attribuita al lessico analitico, alla sua qualità a volte magica di “unicorno”, in cui ciascuno, da un proprio personalissimo vertice teorico, vede qualcosa di differente, con il rischio di una babelizzazione di gergalità autoreferenziali, che smarriscano le possibilità di una lingua condivisa.
In questa sensibile attenzione alla parola nella sua qualità polisemica, sterile o feconda, distruttiva o speranzosa, riparatrice o confondente, Turillazzi Manfredi pare depositare la convinzione che senza accedere alle aporie dei nostri linguaggi e dei nostri silenzi, quelli della comunità analitica e quelli della stanza di analisi, non ci sia accesso al cambiamento. Nei Seminari Milanesi cita i versi di Heine amati da Freud: “Di rado mi avete compreso/ di rado anch’io vi ho compreso,/ soltanto quando ci incontrammo nel fango/ci siamo subito compresi”.
Bibliografia essenziale:
Articoli:
Turillazzi Manfredi, S. (1970), “Alcune considerazioni sul trattamento psicoanalitico dei pazienti psicosomatici”, Rivista di Psicoanalisi, 16, pp. 117-130.
Turillazzi Manfredi, S. (1974), “Dalle interpretazioni mutative di Strachey alle interpretazioni delle relazioni fra gli oggetti interni”, Rivista di Psicoanalisi, 20, pp. 127-143.
Turillazzi Manfredi, S. (1978a), “Interpretazione dell’agire e interpretazione come agire”, Rivista di Psicoanalisi, 24, pp. 223-240.
Turillazzi Manfredi, S., Mancia, M. (1978b), “Interpretazione dell’acting e interpretazione come acting”, Rivista di Psicoanalisi, 24, pp. 452-454.
Turillazzi Manfredi, S., Mancia, M. (1982), “Due scopi per la psicoanalisi: verità e cambiamento”, in di Chiara G. (a cura di), Itinerari della psicoanalisi, Loescher, Torino.
Turillazzi Manfredi, S. (1983), “Il senso del dolore fisico”, Rivista di Psicoanalisi, 29, pp. 571-575.
Turillazzi Manfredi, S., Nissim, L. (1984), “Il supervisore al lavoro”, Rivista di Psicoanalisi, 30, pp. 587-607.
Turillazzi Manfredi, S. (1989), “La nuova teoria del controtransfert”, Rivista di Psicoanalisi, 35, pp. 616-644.
Turillazzi Manfredi, S. (1985), “L’unicorno: Saggio sulla fantasia e l’oggetto nel concetto di identificazione proiettiva”, Rivista di Psicoanalisi, 31, pp. 462-477.
Turillazzi Manfredi, S., Pazzagli, A. (1986), “Acting-out”, Rivista di Psicoanalisi, 30, pp.93-105.
Turillazzi Manfredi, S. (1989), “The New Theory of Countertransference”, Rivista di Psicoanalisi, 35, pp. 616-644.
Turillazzi Manfredi, S. (1992), “Sul cambiamento”, Rivista di Psicoanalisi, 38, pp. 157-175.
Turillazzi Manfredi, S.(1999), “Sull’opportunità di insegnare la psicoterapia negli istituti di Training”, Rivista di Psicoanalisi, 45, pp. 85-91.
Turillazzi Manfredi, S., Ponsi, M. (1999), “Transfert-controtransfert e intersoggettività. Contrapposizione o convergenza?”, Rivista di Psicoanalisi, 45, pp. 697-719.
Turillazzi Manfredi, S. (2006), “Il transfert dai nostri giorni a Freud”, Rivista di Psicoanalisi, 52, pp. 351-399.
Turillazzi Manfredi, S. (2008), “Cambiare rimanendo se stessi”, Relazione letta al XIV Congresso SPI “Identità e cambiamento. Lo spazio del soggetto”, Roma 23-25 maggio.
Volumi:
Turillazzi Manfredi, S. (1979), La linea d’ombra della psicoterapia, Del Riccio, Firenze.
Turillazzi Manfredi, S. (1994), Le certezze perdute della psicoanalisi clinica, Cortina, Milano.
Turillazzi Manfredi, S. (1998), I seminari milanesi di Stefania Turillazzi Manfredi, Quaderni del Centro Milanese di Psicoanalisi Cesare Musatti, La Tipografia Monzese, Monza.
Convegno:
“Il lavoro della parola nella psicoanalisi di Stefania Turillazzi Manfredi”, a cura del Centro Psicoanalitico di Firenze e del Centro Milanese di Psicoanalisi Cesare Musatti. Firenze, 3 dicembre 2016.
Anna Ferruta, Introduzione.
Franco Borgogno, Stefania Turillazzi mafredi e Luciana Nissim Momigliano: un tandem propulsivo per la mia formazione.
Stefano Calamandrei, La parola psicoanalitica e il cambiamento.
Stefania Nicasi, Rileggere “Il piacere della Traumdeutung”.
Paolo Chiari, L’insegnamento delle parole.
Benedetta Guerrini Degl’Innocenti, Conclusioni.