La Ricerca

Suicidio

4/12/13
Suicidio

Ophelia JOHN EVERETT MILLAIS 1851-1982

A cura di Mario Rossi Monti e Alessandra D’Agostino 

Nell’era contemporanea il suicidio si caratterizza come un fenomeno trasversale e globale, che interessa l’Occidente quanto l’Oriente, la clinica quanto la cultura e la società intera. Dati recenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (2009) evidenziano che ogni anno circa 1 milione di persone muore per suicidio e un numero venti volte superiore tenta di uccidersi; scendendo più nel dettaglio, il tasso di mortalità suicidaria nel mondo è intorno a 16 su 100.000 abitanti, con un suicidio ogni 40 secondi e un tentativo di suicidio ogni 3; tra il 1950 e il 2000 il numero di chi si è tolto la vita su scala mondiale è salito del 60% e oggi la mortalità per suicidio è l’1-2% della mortalità totale; inoltre, mentre prima il suicidio riguardava soprattutto gli over 45, oggi è tra le tre principali cause di morte nella fascia di età compresa tra i 15 e i 44 anni e tra le prime due per la fascia tra i 10 e i 24 anni.

Numeri che segnalano un allarme. Da essi emerge, tuttavia, solo la punta di un iceberg ben più duro da sciogliere. Il suicidio, infatti, resta ancora un fenomeno sottovalutato, sottaciuto, quando non del tutto negato. E questo a causa della complessità che diversi fattori contribuiscono a determinare.
In primo luogo la categoria “suicidio” è costruita ex post sulla base della “fine della storia”. Come è stato detto, l’ombra del grande albero nero del suicidio finisce per nascondere tutta la foresta della vita. Sulla base di questo ultimo, tragico evento viene riscritta ex-post tutta una storia. Ciò fa sì che la classe di persone accomunate da un comportamento suicidario sia un contenitore eterogeneo, là dove il suicidio diventa l’elemento unificante di storie molto  diverse tra loro o anche tutte difficilmente riconducibili a una patologia mentale. Jean Améry, intellettuale belga morto suicida e autore di una monografia sul suicidio, chiama “momento del salto” il momento in cui il proposito suicidario si trasforma in comportamento senza ritorno, rendendo irrilevanti tutte le differenze e stabilendo una “folle uguaglianza” (1990, p. 11). Non conta più chi sei o da dove vieni, una volta compiuto “il salto” entri a far parte di una categoria unica, fatta solo di un mucchio di cadaveri, tutti uguali.
In secondo luogo è necessario tenere in considerazione il fatto che il “percorso suicidario”, anche quando fosse particolarmente breve, si articola in più livelli: il livello della fantasia suicidaria, il livello dell’ideazione suicidaria e del  progetto suicidario, il livello del comportamento suicidario.

Il primo livello, quello della fantasia suicidaria, ha la massima estensione, nel senso che è ampiamente diffuso nella popolazione generale e non implica necessariamente il passaggio agli altri livelli; fantasticare sulla propria morte ha spesso, al contrario, una forte valenza anti-suicidaria, costituendo talora la manifestazione di una vera e propria spinta trasformativi (così non si può più andare avanti!). Inoltre, nel corso dell’evoluzione, la fantasia suicidaria rappresenta una sorta di organizzatore dello sviluppo psichico, che segna la conclusione della fase di separazione-individuazione e con essa la piena assunzione di responsabilità della propria esistenza.

Il secondo livello, invece, quello dell’ideazione suicidaria, ha un’estensione inferiore al primo ma superiore rispetto all’ultimo: altrimenti detto, solo una piccola parte di chi sviluppa un’ideazione suicidaria passa poi effettivamente all’atto. A differenza però della fantasia, l’ideazione si pone come rappresentazione persistente della propria morte, che può assumere anche la forma di un vero e proprio progetto relativo ( il “come” darsi la morte, quali atti preparatori compiere, quali strumenti utilizzare, etc.).

Infine, il terzo livello, il comportamento sucidario, sottoinsieme del precedente in termini di estensione, è quello che appunto Amery chiama il momento del “salto”: clinicamente parlando, si tratta di un tentativo concreto di suicidio o di un suicidio vero e proprio. Mentre i primi due livelli sono reversibili, l’ultimo non lo è: dalla morte non si torna più indietro. Nemmeno a raccontare come si giunti alla determinazione di compiere quel salto. Le “note suicidarie” (i biglietti o le lettere che solo una minoranza di coloro che si suicidano  lasciano, permettono di cogliere spesso solo una pallida eco di quel percorso).

A contribuire ancora alla complessità del fenomeno suicidio è ancora un altro fattore: la maggior parte dei suicidi si realizza nel contesto di un disturbo mentale diagnosticato in base agli attuali criteri diagnostico-nosografici.
In particolare, la depressione maggiore è la principale categoria nosografica alla quale viene ricondotto oltre il 50% dei suicidi, seguita da schizofrenia, disturbi di personalità, dipendenze da sostanze (soprattutto da alcol), disturbi dell’alimentazione e disturbi mentali organici (Cavanagh et al., 2003). Ma la depressione maggiore è una categoria fondata su criteri iperinclusivi, tale da indurre facilmente una sovrastima: siamo, infatti, in un’epoca in cui la categoria depressione è diventata il grande contenitore di un disagio che è solo genericamente depressivo in termini psicopatologici. In questo senso, si può vedere il legame suicidio-disturbo mentale come il risultato di un bias metodologico, che tende a sovrastimare la rilevanza di elementi psicopatologici, tenendo in scarsa considerazione invece variabili di altra natura, come quelle economico-sociali o culturali-religiose.

I dati che la epidemiologia psichiatrica ci propone indicano che solo una ridotta quota di suicidi si realizza in assenza di disturbi mentali (solo il 10%, secondo uno studio di Hawton & Van Heeringen del 2009). Questo dato tuttavia è da considerare con cautela perché può essere inficiato da una tendenza alla distorsione, legata alla forte medicalizzazione delle condotte abnormi. Infatti è più facile sbarazzarsi del problema suicidio, inquadrandolo come qualcosa di assolutamente alieno dalla vita quotidiana. Karl Jaspers, un secolo fa, in pagine rimaste memoriabili, metteva in guardia proprio da questo rischio, quando scriveva: “la via più semplice e comoda sembra sia quella di attenersi per il suicidio all’ipotesi della malattia mentale [….]. Il problema viene così sbrigativamente risolto, essendo collocato al di fuori del mondo normale; ma non è così” (Jaspers, 1941).
Resta il fatto che una parte di suicidi, per quanto minima, si sottrae comunque all’ interpretazione medico-psichiatrica, tanto da autorizzare a distribuire i comportamenti suicidari lungo uno “spettro” (spettro suicidario), dove ad un estremo si situano condotte suicidarie strettamente legate a disturbi mentali e ad un altro si collocano atti suicidari frutto di scelta consapevole.

Se il percorso suicidario rimane spesso nell’ombra e comunque difficile da ricostruire, resta il fatto che il suicidio può essere studiato non solo dal punto di vista della soggettività di chi lo ha espresso, ma anche come dato oggettivo. Quella massa di corpi morti, i suicidi, si prestano a studi che consentono di ricavare una messe di importanti elementi conoscitivi di carattere generale. Ad esempio: dati sulla estensione del fenomeno su larga scala, la mortalità media di suicidio all’anno nel mondo (14,5 suicidi ogni 100.000 persone), le variabili relative al sesso (per quanto riguarda le differenze tra maschi e femmine, nei paesi occidentali è di 2-4 a 1), l’età (il tasso più elevato si riscontra nella popolazione anziana, ma negli ultimi tempi c’è stata un’inversione di rotta, con un aumento del 55% dei suicidi tra i 5 e i 44 anni), l’appartenenza etnica ( negli Stati Uniti il suicidio è meno frequente tra gli ispanici e gli afroamericani rispetto agli americani di origine europea), i metodi usati (nei paesi europei le donne tendono a gettarsi dalla finestra o si avvelenano, i maschi invece tendono a ricorrere ad armi da fuoco o impiccagione), la professione (le più colpite sono quelle che consentono un più facile accesso allo strumento utile a togliersi la vita, quindi medici, infermieri, veterinari e agricoltori), etc.

Gli elementi di natura soggettiva, che permettono  di inserire il suicidio all’interno di un percorso di senso, sono  di più difficile individuazione. Secondo Schneidman (1993) sarebbe necessario realizzare un vero e proprio “identikit del suicida”, che tenga conto di diversi aspetti: lo scopo da raggiungere, lo stimolo da cui fuggire, lo stressor (ovvero l’elemento contingente) che ha portato alla frustrazione di un bisogno vitale, la sensazione emotiva prevalente, lo stato cognitivo dominante, l’azione realizzata attraverso il suicidio, il valore interpersonale dell’atto e lo stile di adattamento del soggetto che il pattern suicidario in genere riflette.

Nonostante tutto ciò, però,  le nostre capacità di previsione del comportamento suicidario  come clinici sono davvero modeste.  Possiamo prevedere il grado di rischio a cui è esposta una persona ma non, in modo attendibile, la possibilità che il soggetto, gravato da quel rischio, traduca effettivamente in atto i suoi propositi. In altri termini, a rendere da ultimo ancora più complesso il fenomeno suicidio è il grande gap che esiste tra la ricerca epidemiologica che identifica i fattori di rischio e l’esperienza dei clinici che lavorano nel campo della salute mentale. Per ridurre questo gap al minimo, è necessario cercare di comprendere (almeno in parte) il senso che si cela dietro la scelta di darsi la morte.
A partire dalla metà dell’800 si sono sviluppate almeno quattro grandi chiavi di lettura: una sociologica, una psichiatrica,  una psicoanalitica e una psicologica.

Secondo la prima, sociologica, il suicidio è un fenomeno esclusivamente sociale, ovvero causato da condizioni ambientali, economiche e culturali ben precise, come afferma Durkheim (1897) nel suo fondamentale studio sul suicidio.
Secondo la psichiatria il suicidio è sempre effetto e conseguenza di uno stato mentale alterato. Esquirol (1838) affermava che l’uomo tenta di uccidersi solo quando è mentalmente alienato.
Nella prospettiva psicoanalitica, Freud (1915)  propone di considerare il suicidio come un omicidio mancato, perché l’Io può uccidersi solo quando riesce a trattare se stesso come un oggetto e quindi a dirigere verso l’interno l’aggressività che non è in grado di dirigere contro l’oggetto libidico.
Infine, secondo la prospettiva psicologica, il suicidio non esiste in quanto atto, ma in quanto persona che compie quell’ atto; in questo senso si deve focalizzare l’attenzione non tanto sul suicidio come oggetto, ma sul suicida come soggetto, analizzandone la storia personale, le situazioni esistenziali e la disposizione, cioè l’aderenza affettiva alla situazione; secondo Deshaies (1951), ad esempio, il suicidio risolve un conflitto occasionale e apporta una soluzione alla vita stessa dell’individuo, generando una rottura interiore che libera dal mondo attraverso l’annullamento dell’oggetto e l’annientamento del soggetto.

La prospettiva di studio del suicidio basata sulle “note suicidarie” ha consentito, fin dai primi studi di Schneidman alla fine degli anni ’40, di gettare uno sguardo sugli stati affettivi che precedono la fine. Tali stati affettivi possono essere disposti lungo tre assi (Rossi Monti & D’Agostino, 2012): l’asse “vergogna-colpa”, secondo cui il suicidio è associato a un sentimento di colpa, a un senso di responsabilità totale nei confronti di quanto accade intorno, ma anche, molto più spesso, a un sentimento di vergogna, ossia a un senso d’inadeguatezza profonda nei confronti della vita intera; l’asse “vuoto-disforia”, per il quale ad avere alta potenzialità suicidiaria sono sentimenti di ansia, irritazione, umore scontroso, con propensione ad acting out e rigidità affettiva (che racchiudiamo sotto il termine “disforia”) soprattutto se associati a un sentimento di vuoto cronico che pervade sia il mondo interno che quello esterno; e l’asse “hopelessness/helplessness”, per cui ciò che caratterizza in modo prevalente la condizione presuicidaria è la mancanza di speranza, accompagnata dalla convinzione di non poter ricevere alcun aiuto dal mondo esterno.

In ogni caso, però, una parte di questo senso si perde con la morte stessa del suicida. Come sottolinea Hillman, infatti: “Non è la persona che è morta, contrariamente a quanto dice Sartre, ad avere un accesso privilegiato alla propria morte, perché il significato di quella morte le era sempre rimasto in parte inconscio […]. Per comprendere davvero i propri atti c’è bisogno di uno specchio e quindi una comprensione profonda del suicidio si rende possibile in una relazione dialettica a specchio, come quella analitica. Rimane il rischio che anche in una relazione analitica il senso di questo gesto che si affaccia all’orizzonte possa non essere colto. Per questo l’analista deve mantenere un piede dentro e un piede fuori” (2010, p. 85).

Bibliografia

Améry, J. (1976). Levar la mano su di sé. Torino: Bollati Boringhieri, 1990.

Barbagli, M. (2010). Congedarsi dal mondo. Il suicidio in Occidente e in Oriente. Bologna: Il Mulino.

Cavanagh, J. T. et al. (2003). Psychological autopsy studies of suicide: A systematic review. Psychological Medicine, 33, 395-405.

Deshaies, G. (1951). Psicologia del suicidio. Roma: Astrolabio.

Durkheim, E. (1897). Il suicidio. Studio di sociologia. Milano: Rizzoli, 1987.

Esquirol, E. (1838). Des maladies mentales considérées sous les rapports médical, hygiénique et médico-légal. Paris: Chez J.-B. Ballière.

Freud, S. (1915). Lutto e melanconia. In OSF, volume 8, Torino: Bollati Boringhieri, 1989.

Hawton, K., Van Heeringen, K. (2009). Suicide. The Lancet, 373, 1372-81.

Hillman, J. (1997). Il suicidio e l’anima. Milano: Adelphi, 2010.

Rossi Monti, M., & D’Agostino, A. (2012). Il suicidio. Roma: Carocci.

Shneidman, E. S. (1973). Deaths of man. New York: Jason Aronson.

Shneidman, E. S. (1981). The psychological autopsy. Suicide and Life-Threatening Behavior, 11, 325-40.

Shneidman, E. S. (1993). Suicide as psychache: A clinical approach to self-destructive behaviour. Northvale: Jason Aronson.

Shneidman, E. S. (2006). Autopsia di una mente suicida. Roma: Fioriti.

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