Luigi Solano (1)
A partire dall’unità corpo/mente
Relazione presentata al Centro Milanese di Psicoanalisi
23 Otrtobre 2015
Ricordarei anzitutto che il problema di una distinzione tra materia e pensiero, tra corpo e mente, e quindi dei loro reciproci rapporti, sia nato e cresciuto di importanza in alcuni momenti storici della cultura occidentale, mentre la distinzione è sempre stata meno netta in altre culture, come quelle orientali o quella indigena del continente americano. In realtà la distinzione è stata scarsamente presente anche nella medicina occidentale fino alla metà dell’800: il medico tendeva molto più di oggi a considerare l’insieme della persona del paziente, ed era ben più consapevole dell’influsso di fattori emotivi/relazionali sulla patologia organica.
Parliamo quindi di una costruzione culturale – certo meritevole del massimo interesse – non di qualcosa che scontatamente esiste.
Passerò quindi brevemente in rassegna le diverse posizioni sul rapportocorpo/mente che si si sono susseguite, o piuttosto continuamente confrontate, nella cultura occidentale, per arrivare a vedere come gli sviluppi di pensiero più recenti possano offrire soluzioni, ma anche porre nuovi problemi in questo ambito.
Il Dualismo: Corpo e Mente sono due sostanze distinte
Per molto tempo il filone dominante nella cultura occidentale è stato quello dualista, a partire da Platone, attraverso il cristianesimo, fino a trovare la massima espressione in Cartesio: una res cogitans (mente) conferisce forma, vita e funzioni a una res extensa del tutto inerte, il corpo. Le posizioni dualiste hanno implicato in genere una connotazione metafisico-religiosa, laddove il concetto di mente, nel suo avere carattere di sostanza, distinta rispetto al corpo, si sovrappone a quello di anima.
Il dualismo pone immediatamente il problema di possibili influenze reciproche tra le due entità, come indicato dai termini psico-somatico o somato-psichico. Il modello più diffuso è quello di un influsso della mente sul corpo: è quello dei primi lavori di Freud sull’isteria (anche se si parla di una mente inconscia) e costituisce tuttora la visione “popolare” in questo ambito.
Per quanto oggi pochi sarebbero disposti a sottoscrivere un modello dualista integrale, tracce di questa posizione riemergono non appena ci troviamo di fronte a questioni emotivamente pregnanti. Così si può rimanere turbati quando si legge che sono stati scoperti i mediatori chimici dell’innamoramento, come se quest’ultimo rimanesse privato dei suoi aspetti poetici e ineffabili. Il turbamento deriva dal sentire messa in discussione l’idea che esistano almeno alcuni fenomeni mentali aventi nulla a che fare con fenomeni fisici, quindi verificantisi in una sfera del tutto separata rispetto al corpo; se così non è si affaccia il fantasma del riduzionismo (di cui parlerò più avanti): l’amore non è che una combinazione di mediatori. Allo stesso modo in medicina (ma anche in psicologia) è dura da smontare una netta distinzione tra disturbi mentali e somatici funzionali da un lato e malattie somatiche organiche dall’altro, come se avessero a che fare con sfere, sostanze, diverse.
Il Monismo – il riduzionismo al somatico: esiste solo il “corpo”
Correnti moniste hanno attraversato anch’esse la storia del pensiero occidentale, con connotazioni spesso eretiche rispetto alla religione dominante; hanno trovato la loro piena affermazione nel Positivismo, che si afferma intorno alla metà dell’800 e domina ancora nei fatti il corpo centrale della Medicina, Psichiatria inclusa. Corpo e mente vengono ricondotti ad unità, la mente viene concepita fuori da ogni dimensione metafisica.
Il monismo positivista finisce però per realizzare una riduzione al corporeo dei processi mentali, che rischiano così di perdere qualunque specificità. Riduzione a un “corpo”, beninteso, che somiglia molto alla rex extensa di Cartesio, o al fango della creazione dell’uomo nella Bibbia; che è quello costruito attraverso studi effettuati essenzialmente su cadaveri, per l’anatomia, e su gatti anestetizzati, per la fisiologia. Ben lontano quindi da un corpo reale, vivo, immerso in un universo di relazioni dalla nascita ed anche prima.
Il Positivismo si fonda su dati empirici riscontrabili con i sensi; rifiuta qualunque pratica che possa avere sentore anche lontanamente di magia o di suggestione; assegna valore soltanto a leggi che possano apparire valide per tutti i soggetti. Su questi presupposti raggiunge risultati straordinari nella prevenzione e nel trattamento di patologie che fino a quel momento erano state il terrore dell’umanità. Gli stessi presupposti producono però nel tempo una serie di corollari che ostacolano nei fatti un ulteriore avanzamento delle conoscenze:
– un disinteresse per il ruolo nella salute e nella patologia delle relazioni interpersonali (ivi compreso il rapporto medico-paziente) come anche di fattori emozionali (per non parlare di processi inconsci). Se fino a pochi anni prima era chiaro a tutti, medici e non, che Violetta era morta di tisi per le sventurate vicissitudini del suo rapporto con Alfredo, da quel momento in poi la spiegazione diventa un micobatterio particolarmente virulento unito ad una predisposizione familiare;
– un interesse limitato alle patologie, cioè agli aspetti comuni a tutte le persone affette da una determinata malattia, con scarso interesse per l’individualità del soggetto, fino ai famigerati “protocolli” diagnostici e terapeutici odierni. Questo scarso interesse per l’individuo è alla base di gran parte dell’insoddisfazione diffusa tra la popolazione nei confronti della medicina più ufficiale, e sottende gran parte del successo delle medicine “alternative” o “complementari”.
Anche la nuova definizione e classificazione delle malattie, basata sull’anatomia delle lesioni di singoli organi – per quanto probabilmente migliore delle precedenti – finisce per oscurare la consapevolezza, fino a quel momento ben presente nella mente dei medici, di un coinvolgimento dell’intero organismo, e del suo rapporto con l’ambiente, nella genesi di una patologia; per quanto riguarda le malattie infettive, dell’importanza dei fattori individuali di resistenza. Ne deriva inoltre un disinteresse per disturbi fisici in assenza di alterazioni anatomo-patologiche, strutturali. L’isteria di conversione, che è appunto un disturbo di questo tipo, viene definita una simulazione, perché non rientra nel modello. E poiché il modello non è sostanzialmente cambiato, non c’è da sorprendersi di incontrare ancora oggi medici, pur competenti e qualificati nel loro settore, convinti che l’isteria sia una simulazione, con buona pace di Charcot e di Freud.
L’impatto emotivo delle scoperte dovute al Positivismo è tale da fornire un altissimo livello di credibilità sociale alla medicina. Il paradigma che le sottende perde di storicità, diventa permanente, assoluto, l’unica vera scienza. La medicina occidentale sembra ignorare il principio di indeterminazione di Heisenberg, che da tempo ha riconosciuto quanto i dati ottenuti dipendano dal metodo di osservazione, e sembra pensare di possedere verità definitive, oggettive.
Si dimentica il carattere costruttivo, storicamente relativo della nuova definizione di malattia, anche se probabilmente migliore delle precedenti. Si finisce per credere che l’ulcera peptica o il diabete esistano veramente. Diventa impossibile pensare a paradigmi diversi, a un’idea di malattia come derivante da uno scompenso del rapporto tra sistemi, come in passato nella teoria degli umori, o ancora oggi nella medicina tradizionale cinese, o nella medicina omeopatica. L’irrigidimento del paradigma diviene quindi un ostacolo non solo ad accogliere il contributo di fattori psicologici e sociali, ma allo stesso progresso della ricerca orientata biologicamente.
L’avvento della Psicoanalisi e della Psicosomatica
La psicoanalisi, e in seguito quella che chiamiamo ancora con un termine un po’ infelice “psicosomatica” sono state una reazione a tutto questo, un tentativo anzitutto di riportare in primo piano l’importanza di fattori emozionali, relazionali, sociali nel determinare la salute e la patologia dell’essere umano. Si può collocare l’esordio di questa reazione nell’opera di Freud, che andò ad occuparsi proprio di quei fenomeni fisici, detti isterici, che non corrispondevano ad alcuna alterazione anatomo-patologica e risultavano quindi negletti dalla medicina.
La psicoanalisi si pone dialetticamente nei confronti del positivismo nella misura in cui:
- riporta in primo piano la singola persona con la sua storia, le sue relazioni significative, quelle più precoci ma anche quelle attuali;
- riscopre l’importanza del rapporto medico/paziente nel moemnto che riconosce l’importanza del transfert;
- accetta le inevitabili limitazioni derivanti dal riconoscere che nessun caso è perfettamente identico ad un altro e quindi accetta uno statuto probabilistico, ben lontano da quello della fisica galileiana; accetta il coesistere di aree di sapere consolidate e di aree invece ancora nebulose, aperte a varie ipotesi, che non per questo non meritano di venire esplorate (anche se non ci daranno subito un ritorno in termini di Impact Factor).
- accetta il carattere costruttivo, sempre in divenire della nuova disciplina;
Freud però evitò di occuparsi dal punto di vista psicoanalitico di disturbi che implicassero lesioni organiche, nel timore di essere confuso con la schiera dei guaritori dell’epoca prepositivista (2). Ad occuparsi di patologie somatiche furono inizialmente psicoanalisti forse considerati un po’ “eccentrici”, o studiosi esterni alla Società Psicoanalitica: Groddeck, Alexander, Dunbar, Deutsch, e molti altri.
Le teorie di questo primo periodo (1920-1940), che sono ancora alla base del modello “popolare” di psicosomatica, presentano però una serie di elementi che, oltre ad apparire discutibili sul piano teorico, espongono ad insuccessi sul piano clinico e della ricerca:
- a cominciare dal termine psico-somatica, si suggerisce che qualcosa che accade nella “mente” si possa ripercuotere sul “corpo”, finendo per riproporre un dualismo sostenibile soltanto in termini metafisici;
- si propone una distinzione netta tra malattie “psicosomatiche” ed altre di origine esclusivamente organica. Tale distinzione da una parte esclude la maggiore parte della patologia somatica dall’intervento psicologico, dall’altra finisce per sostenere la possibilità di ottenere risultati terapeutici in alcune malattie con un intervento solo psicologico, con risultati deludenti;
- Nell’intento di apparire “scientifici” si cerca di inviduare:
– “caratteristiche universali”, che valgano per tutti gli individui affetti da una determinata patologia (conflitti o personalità specifiche, Alexander, Dunbar)
– significati simbolici, universali e definibili a priori, per ogni disturbo o sintomo somatico (Groddeck, Chiozza).
Entrambe le pretese hanno trovato scarso sostegno empirico.
Inoltre, l’aspetto “psicosomatico” viene visto come collegato esclusivamente con caratteristiche della mente individuale, con scarsa o nessuna attenzione al rapporto con il contesto relazionale e con quello sociale più allargato. Tale approccio (al di là della scarsa validità scientifica), unito al modello “influsso della mente sul corpo” finisce per essere colpevolizzante nei confronti dei pazienti, i quali lo esplicitano tipicamente con frasi del tipo “allora me lo sono fatto venire io” “è colpa mia” ecc.
La relazione al centro della scena: critica del riduzionismo ma anche del modello psiche (individuale)àsoma
L’affermarsi delle correnti relazionali in psicoanalisi, da Bion agli Indipendenti britannici, fino alle correnti interpersonaliste, relazionali, intersoggettiviste nordamericane, costituisce una critica forte al riduzionismo del mentale al corporeo nella misura in cui viene affermato che il funzionamento mentale non è riconducibile all’individuo isolato, ma si sviluppa, e può quindi essere esaminato, soltanto all’interno di una relazione: “There is no such thing as an infant” (Winnicott, 1940).
La ricerca “psicosomatica” si sposta più o meno consapevolmente dal ricercare gli effetti della mente sul corpo allo studio degli effetti di esperienze relazionali allo stesso tempo su aspetti corporei e mentali. Così i bambini istituzionalizzati studiati da Spitz e Wolf nel 1946 presentano la cosiddetta depressione anaclitica, ma anche eczemi, scarsa resistenza alle infezioni, mortalità più alta. Studi sperimentali su animali confermano le osservazioni di Spitz: cuccioli di animali separati dalla madre presentano, immediatamente e/o in età adulta, disturbi sia comportamentali che somatici. (3)
Questi effetti della separazione precoce vennero attribuiti dagli autori essenzialmente ad una mancanza di contatto affettivo. Studi più recenti (Hofer 1984; 1987; 1996) hanno invece dimostrato che, al di là dell’innegabile importanza di questo, i contatti fisici (che nella realtà naturale del rapporto si intrecciano con quelli affettivi) producono anche effetti direttamente biologici: così le carezze materne stimolano la produzione di ormone della crescita, mentre il cullare stimola la maturazione del sistema vestibolare.
Gli effetti a livello somatico di vicissitudini relazionali sono stati registrati anche anche a livello adulto. Per citarne qualcuno: persone separate recentemente dal coniuge hanno mostrato (Kiecolt-Gleser et al., 1987; 1988) una situazione immunitaria mediamente peggiore (4) rispetto a persone non separate, mentre tra le persone coniugate la stessa situazione immunitaria risultava connessa (in positivo) con la qualità della relazione coniugale; vastissima è la letteratura sugli effetti delle dinamiche coniugali su salute, longevità, decorso di diverse patologie (vv. ad es. Solano, 2013, pp. 422-429).
Nella nuova prospettiva relazionale l’individuo non viene quindi più visto come un sistema chiuso, in cui un qualche elemento agisce su di un altro (mente à corpo o viceversa), ma salute e patologia appaiono connesse alle relazioni, passate e presenti, della vita di un l’individuo; in termini più ampi, al suo essere-nel-mondo. In questo senso comincia ad apparire inadeguato qualunque termine, come quello di psico-somatica, che si limiti ad indicare l’influenza di un elemento interno all’individuo su di un altro elemento ugualmente interno.
Monismo articolato (o dualismo funzionale)
Il clima culturale diviene quindi favorevole a una proposta che consideri mente e corpo come due aspetti, seppure differenziati, di una stessa entità. Tra le varie proposte ricordo quella di James Grotstein (1997), che parla di mente e corpo come “strana coppia” o “unità stranamente accoppiata”, cioè una singola entità che presenta due aspetti inseparabili, come le facce di una stessa moneta, Giano bifronte, i gemelli siamesi.
Monismo non riduzionista unito ad un dualismo conoscitivo
Ancora più radicalmente, si può affermare che corpo e mente non possiedano alcun tipo di esistenza intrinseca, distinta rispetto all’insieme dell’organismo, ma siano due categorie che hanno a che fare essenzialmente con il vertice da cui si pone l’osservatore. Parafrasando Winnicott, potremmo dire “There is no such thing as a body – There is no such thing as a mind”.
“…..la Mente e il Corpo sono una sola e stessa cosa che viene concepita ora sotto l’attributo del Pensiero e ora sotto l’attributo dell’Estensione…l’ordine delle azioni e delle passioni del nostro Corpo è simultaneo per natura con l’ordine delle azioni e delle passioni della Mente.” (Baruch Spinoza, Etica, Parte Terza, Prop II, Scolio. Citato in Peregrini et al., 2009)
Questa posizione pur avendo, come abbiamo visto, origini piuttosto remote, si sta diffondendo nel mondo scientifico solo recentemente. In ambito psicoanalitico è stata espressa nel modo più chiaro da Carla De Toffoli (1991; 2007) e Irène Matthis (2000). Di quest’ultima appare molto utile la metafora per cui il lampo e il tuono appaiono ad un osservatore ingenuo come due fenomeni diversi e distanziati nel tempo, uno registrato con la vista e l’altro con l’udito, mentre in realtà originano da un unico fenomeno fisico, una scarica elettrica (la metafora verrà ripresa nell’incontro di domani nell’intervento di Angelo Macchia). Analogamente diversi autori (es. Godwin, 1991) hanno ricordato come la fisica quantistica è giunta a riconoscere come a livello subatomico lo stesso fenomeno possa essere rilevato sotto forma di onde o di particelle a seconda dello strumento e delle modalità di osservazione utilizzate.
Così possiamo esaminare una persona, un organismo, con la risonanza magnetica, e vedremo delle aree cerebrali in funzione, o anche uno stomaco contratto; oppure attraverso un colloquio o un test psicologico, e sentiremo delle emozioni, coglieremo dei pensieri, delle modalità di porsi in relazione. L’impiego che appare a questo punto utile della parola “psicosomatico” è nella locuzione “approccio psicosomatico”, a indicare cioè la possibilità di prestare attenzione ad entrambe le serie di osservazioni. Questa posizione, che possiamo definire monismo non riduzionista unito ad un dualismo conoscitivo, si sta ampiamente diffondendo nel mondo psicoanalitico e non (vv. ad es. Bruni et al., 2009; Peregrini et al., 2009) (5).
Problemi posti da una prospettiva unitaria e possibili soluzioni(oggetto principale di questo lavoro)
L’adozione di una prospettiva unitaria Corpo/Mente (o meglio, CorpoMente), che può apparire a prima vista come l’uovo di Colombo, comporta però una serie di corollari piuttosto problematici, su cui cercherò di soffermarmi nel seguito di questo lavoro:
– all’interno di un paradigma unitario, è necessario trovare un modo di ristabilire una distinzione, una dialettica tra diversi livelli di funzionamento dell’organismo, che potranno essere visti come operanti in parallelo, ignorarsi a vicenda, influenzarsi reciprocamente ecc.
– se corpo e mente sono “una sola e stessa cosa” diviene necessario attribuire a ciò che si è soliti chiamare corpo le stesse qualità che siamo soliti attribuire al mentale; considerare cioè un corpo che pensa, che sente, che risponde, che soffre, che gioisce; un corpo che mostra movimenti relazionali, al punto di ipotizzare un transfert corporeo e un controtransfert corporeo.
– è necessario ripensare l’origine e il possibile significato della patologia somatica, non più inquadrabile come influsso della mente sul corpo.
Come concepire una dialettica tra livelli diversi di funzionamento dell’organismo
Come psicoanalisti non abbiamo bisogno di guardare lontano per trovare risposte a questa domanda: la storia della psicoanalisi abbonda di teorie che hanno descritto distinzioni tra diverse entità, o diversi tipi di funzionamento mentale: processo primario/processo secondario (Freud), simmetrico/asimmetrico (Matte Blanco); protomentale/elementi beta, funzione alfa, apparato per pensare i pensieri (Bion) (6).
Possiamo quindi pensare di sostituire alla dialettica mente/corpo il rapporto tra diversi sistemi, a patto di considerarli ciascuno come dotati di un aspetto sia corporeo che mentale, a seconda del vertice da cui li consideriamo, onde evitare di ricadere in un dualismo.
Quest’ultimo aspetto non è così definito nei diversi autori della tradizione psicoanalitica. Per questo motivo ho trovato molto utile la Teoria del Codice Multiplo di Wilma Bucci (1997a, 2009a), che prevede un Sistema Non-Simbolico (7) e due Sistemi Simbolici, uno Non Verbale (per immagini (8)) e uno Verbale. Il punto che mi appare centrale rispetto al discorso che sto portando avanti è che viene chiaramente esplicitato il doppio aspetto, mentale e corporeo, di ciascuna entità componente: il sistema Non Simbolico osservato in termini somatici corrisponde a ciò che viene comunemente chiamato “corpo”, incluse però le aree cerebrali legate ai movimenti involontari, il sistema nervoso autonomo, l’amigdala e gli altri centri legati agli aspetti non simbolici dell’emozione; i sistemi Simbolici corrispondono alla corteccia cerebrale (soprattutto prefrontale e limbica) e all’ippocampo (per le immagini).
Possiamo quindi pensare di ridefinire il rapporto mente/corpo come il rapporto tra i sistemi simbolici e il sistema non-simbolico, ricordando come ciascun sistema può essere visto a seconda del vertice da cui lo osserviamo come mente o come corpo, e quindi senza ricadere in un dualismo metafisico (Solano, 2009; 2010).
Come concepire un corpo che pensa, che sente, che si relaziona: il corpo come Sistema Non-Simbolico
Il Sistema Non Simbolico è a mio avviso l’aspetto più originale della Teoria del Codice Multiplo (0). Comprende funzioni che siamo soliti chiamare funzionamento corporeo, memoria procedurale, memoria implicita, livelli fisiologici dell’emozione. Coordina le azioni motorie anche più raffinate, come guidare un’auto, giocare a tennis, giocare a calcio. Come i sistemi simbolici, ha dignità di pensiero organizzato, anche se non simbolico e in genere non volontario o consapevole. Può essere visto come il canale lungo il quale viaggia l’identificazione proiettiva (Cimino e Correale, 2005), e anche la comune comunicazione emozionale. A differenza di entità facenti parte di altre teorie, come il Pensiero Primario di Freud, o gli elementi beta in Bion, il suo destino non è quello di essere auspicabilmente trasformato quanto prima in qualcos’altro, ma presenta piena dignità autonoma. Sotto questo aspetto potrebbe essere piuttosto avvicinato al simmetrico di Matte Blanco.
Il suo funzionamento corrisponde quindi a quello che nella tradizione psicosomatica viene in genere chiamato corpo. Un corpo però che non è quello “solo biologico” costruito dalla medicina, come ho ricordato sopra, su salme prive di vita e gatti in anestesia: nella derivazione cartesiana, una res extensa priva di senso, funzione, intenzionalità, caratteristiche che dovrà ricevere dalla res cogitans, cioè la mente, l’anima del pensiero religioso. E’ un corpo, invece, che sente, che soffre, che gioisce; un corpo capace di pensiero organizzato, sebbene non simbolico (10). Un corpo molto mentale, “il vero e proprio psichico” nella formulazione di Freud del 1938, o una “materia che assomiglia sempre di più a un pensiero”, in quella di Carla De Toffoli (2007). Un corpo che comprende la memoria implicita, che a volte chiamiamo “memoria del corpo”, e che sottende concetti come “memories in feeling” (Klein, 1957) o quello di “modelli operativi interni” (Bowlby, 1969). Un corpo che si costituisce come un precipitato di relazioni (vv. i già citati studi di Hofer) (11), esattamente come ciò che siamo soliti chiamare mente, e i cui movimenti sono direzionati non solo all’interno del soggetto, ma mostrano anche una componente relazionale, esattamente come i movimenti mentali (Solano, 2000; De Toffoli, 2001).
Ci troviamo quindi a considerare un corpo nel transfert e nel controtransfert.
Carla De Toffoli, nota collega di Roma purtroppo venuta a mancare prematuramente qualche anno fa, e di cui sono stati recentemente pubblicati gli scritti (De Toffoli, 2014), è a mia conoscenza l’analista che nel panorama teorico-clinico attuale è riuscita ad adottare nel modo più coerente una prospettiva corpo/mente unitaria, e a cogliere come il corpo, sia del paziente che dell’analista, possa entrare nella comunicazione di vissuti personali. Comunicazione che possiamo leggere in termini di transfert/controtransfert o di sviluppo di un campo di conoscenza comune: “eventi vissuti dall’uno come psichici, possono passare all’altro come somatici, e ritornare nuovamente psichici attraverso l’immaginazione speculativa e l’elaborazione emotiva. In questo modo gli eventi divengono condivisibili in una interpretazione, e quindi parte di uno sviluppo comune ad analista ed analizzando” (De Toffoli, 2009). Svilupperò il pensiero di Carla De Toffoli nella mia relazione al convegno di domani all’Università Bicocca.
L’origine e il possibile significato della patologia somatica
La maggior parte della psicosomatica tradizionale finiva per affermare e descrivere in vari modi, esplicitamente o meno, l’influenza di processi mentali sul corpo. Anche tutta la ricerca sui correlati fisiologici di emozioni o altre attività mentali può essere intesa in questo modo. Nel momento che accettiamo un paradigma unitario questo modello diventa molto difficile da tenere in piedi (12). Per rientrare in un modello unitario è necessario piuttosto pensare che la condizione relazionale, la situazione di vita del soggetto – cui il soggetto stesso dà ovviamente il suo contributo e che sperimenta secondo le proprie caratteristiche – siano tali da innescare una reazione nell’organismo che a livello della coscienza registriamo ad esempio come ansia, a livello fisiologico come aumento di adrenalina (di cortisolo ecc.).
Il problema a questo punto diviene capire in quali condizioni questa reazione può essere tale da condurre a patologia. Di nuovo la formulazione che mi è apparsa oggi più chiara e completa (traendo molti elementi da teorie precedenti e contemporanee, di cui costituisce una sintesi) è quella della Teoria del Codice Multiplo (Bucci, 1997b; 2009a, b; Solano, 2013, 29-66), che concettualizza la patologia come legata ad una disconnessione tra diversi sistemi dell’organismo.
Secondo questa teoria, i 3 sistemi (Non Simbolico e due Simbolici) in condizioni di salute sono strettamente connessi attraverso quelli che vengono chiamati “nessi referenziali”, che fanno sì che, ad esempio, una emozione sperimentata a livello non simbolico possa trovare rappresentazione in immagini e parole. Questi nessi possono non formarsi a sufficienza per carenze nella funzione di contenimento da parte dell’accudente, o essere interrotti per condizioni traumatiche acute o croniche. Qualunque la causa, una carenza di connessione tra la memoria non-simbolica (implicita) di una situazione traumatica e i sistemi simbolici lascia dietro di sé un’attivazione non-simbolica “senza nome” (in qualche modo paragonabile a elementi beta non trasformati in Bion) o piuttosto “in cerca di nome” (13). Questa potrà trovare connessioni simboliche spurie, dando origine a disturbi mentali come fobie o deliri; potrà esprimersi in agìti; nel caso non trovi alcuna connessione simbolica si potrà esprimere nel disturbo di un organo o di un apparato, dal livello solo funzionale (colon irritabile, extrasistoli) fino alle più gravi patologie organiche, in interazione con le fragilità di costituzione della persona.
Diversi altri modelli sull’origine della patologia somatica possono essere visti alla luce del concetto di disconnessione. Così il modello bioniano (Bion, 1962a, b), quando descrive una funzione alfa che non accetta gli elementi beta, che quindi possono finire per dannneggiare il funzionamento corporeo; così concetti come quello di pensée opératoire (Marty et al., 1963), vie opératoire (Smadja, 2001), visioni psicoanalitiche del concetto di alessitimia (Taylor, 1987; Taylor et al., 1997): tutti questi propongono di fatto una disconnessione tra il livello fisiologico (non simbolico) e quello cognitivo-esperienziale (simbolico) dell’affetto. Il concetto di esperienza non formulata proposto da Donnel Stern (1997) può anch’esso essere inserito in questa cornice.
Un modello di disconnessione può essere anche intravisto nel lavoro di Freud (1894) sulla nevrosi d’angoscia, se visto come descrizione di un processo interno, privo di significati simbolici (la “pressione sulle pareti, munite di terminazioni nervosa, delle vescichette seminali”) che non trovando una traduzione, una comprensione in termini simbolici, produce tensione nell’organismo. Fin dall’inizio dell’opera di Freud troviamo quindi un modello parallelo, alternativo, a quello di un influsso della mente (seppur inconscia) sul corpo, che è alla base degli Studi sull’Isteria (Ammon, 1974, pp.28-30).
Di fronte ad un disturbo somatico possiamo quindi pensare non più a qualcosa nella mente, un disagio mentale, che si esprime nel corpo, ma piuttosto a un corpo (sistema non simbolico) che reagisce a problemi inerenti la relazione dell’individuo con il suo mondo, trovando scarsa o nessuna connessione con una elaborazione mentale (simbolica), in grado di regolare ed offrire espressione e significato alla reazione.
Tale visione, oltre ad essere a mio avviso più corretta, coerente ed inclusiva dei fenomeni implicati nel processo, ci evita di colpevolizzare i pazienti con patologie somatiche o di etichettarli come mentalmente disturbati.
I disturbi somatici non appaiono più come qualcosa da classificare a parte, come nel concetto mal definito di “malattia psicosomatica”. Vengono invece inquadrati come una delle diverse forme che il disagio può assumere in un individuo, in un continuum che comprende disturbi comumente classificati come psichici, come somatici funzionali, come somatici organici. Anche la ricerca di caratteristiche di personalità qualitativamente specifiche nei soggetti “psicosomatici” appare obsoleta. La forma finale che assume il disagio viene ad essere determinata da un insieme di fattori quali: la gravità della disconnessione; la quantità di attivazione non-simbolica disconnessa, a sua volta secondaria all’entità del trauma e/o della carenza nell’accudimento; la capacità del soggetto di trovare collegamenti simbolici, anche spuri, per l’attivazione non-simbolica, o di incalanarla in agìti; la capacità di cercare aiuto; la risposta dell’ambiente (servizi sanitari inclusi). Non c’è da spiegare nessun “misterioso salto dalla mente al corpo”, che appare come un problema artificiosamente costruito da una visione dualista e limitata a un individuo visto come sistema isolato.
In questo modello un significato simbolico universale, a priori (come sostenuto ad esempio da Groddeck, 1926; Chiozza, 1986; Garma, 1953) non può essere presente per definizione nel sintomo somatico, espressione di un sistema non simbolico. E’ possibile però sostenere che un significato possa essere costruito nella relazione analitica, esattamente come il significato di un sogno (De Toffoli, 2001).
Dal punto di vista clinico questa posizione viene a sostegno dell’opportunità di rimanere anche a lungo a livello non-simbolico (concreto, sensoriale) con il paziente, evitando tentativi prematuri di “traduzione” in termini simbolici (Racalbuto, 1994; Antinucci, 2007). Si potranno istituire in seguito collegamenti non solo con il transfert, ma anche con la situazione di vita del paziente (Eagle, 2011); questo può risultare utile in situazioni di consultazione, in particolare all’interno dell’assistenza sanitaria (Solano, 2011).
Il possibile valore evolutivo/attivante del sintomo somatico
Quanto detto finora può lasciare l’impressione che la comparsa di un sintomo somatico testimoni essenzialmente una disconnessione tra sistemi, espressione di un deficit o di una difesa (14). Ora, se da una parte è evidente che nel modello che propongo l’espressione di un disagio attraverso il corpo (il sistema non-simbolico) sta ad indicare che in quel momento il soggetto non è in grado di esprimerlo in altro modo, è possibile d’altra parte valutare che quella espressione possa essere comunque preziosa, rispetto ad una totale mancanza di espressione, come in situazioni descritte come evitamento generalizzato dell’esperienza (Bucci, 2009b) o vie opératoire (Smadja, 2001). E’ stato recentemente presentato un lavoro dal titolo significativo “Do bodies need to talk?” (Kotowicz, 2013) in cui viene riferito il caso di un “corpo congelato”, che non produceva mai alcun tipo di sintomo o malattia somatica; fino all’improvviso, apparentemente inspiegabile, suicidio.
Winnicott, nel suo lavoro “L’Intelletto ed il suo rapporto con lo Psiche-Soma” (1949) propone un possibile valore evolutivo, attivante del sintomo somatico descrivendolo come un tentativo di “ritirare la Psiche dall’Intelletto per ricondurla alla sua associazione intima originale con il Soma…….”. Posizioni simili sono state espresse anche da Smadja (2001, p.96): “Non è sorprendente vedere come il comparire di una somatizzazione dia sollievo al paziente, come se, in assenza di oggetti psichici disponibili, gli organi e le funzioni somatiche potessero andare più che bene” .
La Teoria del codice multiplo, nell’offrire piena funzione e dignità al sistema non simbolico di elaborazione, offre anch’essa la possibilità di vedere e teorizzare il sintomo somatico, sebbene testimone di una disconnessione, come una prima espressione, non simbolica, di un contenuto che non ha trovato fino a quel momento alcuna possibilità di espressione, e non come effetto di una difesa contro l’emergenza di quel contenuto.
Ugualmente tutto il lavoro di Carla De Toffoli va nella direzione di attribuire piena dignità alla comunicazione somatica, “Il sapere del corpo” (2001, 2007), nell’intento di “spostare progressivamente il punto di vista da ciò che noi sappiamo del corpo a ciò che il corpo sa di noi” (2001, p.142).
In questa visione, i sintomi somatici (come gli agìti, o meglio, gli enactment) possono essere visti in alcune circostanze come adattivi e progressivi, piuttosto che sempre regressivi, come è stato spesso assunto.
Un caso illustrativo: Ginevra
Per illustrare questi ultimi concettiriporto ora un caso che si è presentato all’interno di una sperimentazione di cui sono responsabile e supervisore (Solano et al., 2011; Solano, 2014; Solano et al., 2015) (15) che prevede la presenza di uno psicologo accanto al medico negli studi di medicina generale.
Ginevra ha 15 anni, un fratello e una sorella più piccoli. Arriva allo studio medico con la madre, che dice che da qualche tempo la ragazza incontra difficoltà a scuola perché “è timida”; c’è inoltre una storia recente di alopecia. Medico e Psicologa propongono di organizzare un incontro specifico tra Ginevra e quest’ultima, incontro che viene accettato abbastanza di buon grado.
In questo incontro Ginevra racconta che un paio di mesi fa ha rapidamente perduto i capelli in un’area di diversi centimetri quadrati del cuoio capelluto. Un dermatologo di uno dei più noti centri specialistici della capitale ha posto diagnosi di alopecia, dicendo a Ginevra “è colpa tua perché ti stressi” (16).
La psicologa cerca di ridimensionare questa impostazione, chiedendo a Ginevra di parlare della sua situazione di vita, per vedere se in questa (e non nella sua mente) ci possano essere degli elementi “stressanti”.
Emerge immediatamente una situazione familiare problematica: il padre, dirigente di una grande azienda, si è trovato fin dall’inizio del matrimonio di fronte alla richiesta di continui trasferimenti di sede, in cui è stata coinvolta l’intera famiglia, ogni due-tre anni. Due anni fa, in occasione dell’ultimo trasferimento da Cremona a Salerno, la madre si è rifiutata di seguirlo e si è trasferita invece con i figli al suo paese di origine, nei pressi di Roma (che è quello ove si trova lo studio medico dove si svolge la vicenda), con l’intenzione di non spostare più la famiglia. Il padre da parte sua ha rifiutato anche di prendere in considerazione l’ipotesi di un trasferimento nell’area di Roma, con la motivazione che comporterebbe mansioni meno qualificate. Viene a stare con la famiglia nel fine settimana, ma il rapporto è sempre più distante, scollegato, stereotipato: Ginevra non si sente capita, “vista”, dal padre. Dicendo questo scoppia a piangere, ma subito si riprende e si scusa con la psicologa. Richiesta del perché si scusa, risponde che “mi secca farmi vedere debole, e poi non voglio far preoccupare gli altri”.
La psicologa le segnala che se non esprime le sue emozioni con le parole è probabile che prendano la via del corpo, provocando disturbi: d’altra parte forse la perdita dei capelli è un modo che il suo corpo ha trovato per esprimere in qualche modo il disagio che prova. Si concorda una serie di altri incontri per continuare a parlare della sua situazione.
All’incontro seguente, Ginevra dice di sentirsi più rilassata, e contenta di venire agli incontri perché “è la prima volta che trovo qualcuno che mi ascolta”. E’ molto preoccupata che il conflitto tra i genitori possa risolversi in un nuovo spostamento della famiglia: ha 15 anni, la scuola, le amicizie, sono molto importanti per lei. Anche per questo cerca di offrire il massimo sostegno alla madre perché mantenga la sua posizione. Gradualmente emerge però che parlare di “sostegno” è un eufemismo: da quando ha rifiutato di trasferirsi insieme al marito la madre ha utilizzato Ginevra come contenitore per le proprie angosce e i propri conflitti all’interno del matrimonio, chiedendo consigli ecc., in una dimensione di inversione di ruoli per cui Ginevra, oltre a dover contenere la madre, non ha più avuto un contenitore per sé, in una fase delicata della vita. Contenitore che, come dice, ha trovato in questi incontri.
Le è quindi possibile all’incontro successivo esplicitare che, intorno all’esordio dell’alopecia, la madre aveva scoperto, attraverso il telefono rimasto “casualmente” inserito dopo una telefonata, la presenza di una donna in casa del marito a Salerno, intorno alle 11 di sera. Aveva subito chiamato Ginevra, che nel suo ruolo protettivo si era messa lei ad ascoltare la conversazione per risparmiare alla madre la sofferenza. “E’ una donna sola, sono io, la figlia più grande, che me ne debbo occupare”. In seguito all’episodio Ginevra si era trovata coinvolta in lunghe ore di laceranti discussioni con la madre su cosa fare a questo punto (Divorziare? Discutere? Perdonare?).
Negli incontri successivi la messa in parole della situazione permette a Ginevra di prendere coscienza dell’incongruenza e dell’inopportunità della sua posizione con la madre: accettando una certa dose di sofferenza e anche di gelosia – la madre cerca più adeguatamente aiuto in alcune amiche – riesce progressivamente a sganciarsi e a focalizzare i propri interessi su oggetti confacenti alla sua età. Un viaggio di studio con la scuola, cui riesce a partecipare, la aiuta molto. Ginevra riesce a recuperare il piacere di esplorare nuovi interessi e nuove amicizie, con una maggiore competenza ad entrare in contatto con i propri vissuti e bisogni, finalmente legittimati. Madre e fratelli si lamentano che non la si vede più in casa. I capelli stanno ricrescendo.
Il caso illustra come un sintomo, una attivazione non-simbolica, possa costituire un segnale d’allarme, un movimento evolutivo, rispetto ad una situazione di vita molto problematica e insoddisfacente, invischiata in una relazione simbiotica con la madre e con scarso investimento negli oggetti e attività propri dell’età.
Una notazione importante che possiamo fare è però come questo valore evolutivo possa esprimersi soltanto nel momento che il sintomo trova un contenitore adeguato negli incontri con la psicologa, nel corso dei quali il sintomo acquisisce il significato che ho appena descritto. Contenitore che certo non era stato trovato nella diagnosi di alopecia né certamente nelle “interpretazioni” colpevolizzanti del dermatologo.
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NOTE
1 – Membro Ordinario Società Psicoanalitica Italiana, Professore Straordinario di Psicosomatica presso il Dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica dell’Università Sapienza di Roma.
2 – Piuttosto nota la sua frase: “Vi invito a non civettare con l’endocrinologia ed il sistema nervoso autonomo”.
3 – un comportamento simile alla depressione anaclitica umana (Kaufman e Rosenblum, 1967); ulcere gastriche (Ader,1976); maggiore incidenza di malattie infettive (Ader e Friedman, 1965); maggiore suscettibilità da adulti a lesioni gastriche da stress (Ader, 1970; 1974); incapacità da adulti di avere contatti sociali e sessuali con i cospecifici (Harlow, 1959).
4 – In termini di cellule NK, linfociti T-helper, risposta ai mitogeni.
5 – Mi sembra che questa visione possa contribuire a chiarire alcuni aspetti che potevano apparire ambigui nell’opera di Freud. Così la pulsione, anziché un concetto “al limite tra psichico e somatico” (Freud, 1915) può essere definita come allo stesso tempo psichica e somatica; così le zone erogene (Freud, 1905), una volta riconosciute come dotate di pensiero organizzato, non rischiano più di apparire un concetto riduzionista; così acquistano maggiore chiarezza le affermazioni “L’Io è prima di ogni altra cosa un Io corpo” (Freud, 1922) oppure “La psicoanalisi reputa che i presunti processi concomitanti di natura somatica costituiscano il vero e proprio psichico” (Freud, 1938). Lo stesso Progetto (Freud, 1895), anziché un monumento al riduzionismo, una traduzione dallo psichico al somatico, può essere risignificato come un tentativo di seguire lo stesso fenomeno su due piani diversi.
6 – Va rilevato che se all’inizio del suo lavoro, in Esperienze nei Gruppi (1961) il protomentale può apparire come un sistema in cui fisico e mentale sono indistinguibili, nelle successive formulazioni, a cominciare dalla Teoria del Pensiero (1962a) e Apprendere dall’esperienza (1962b) gli elementi beta non appaiono più come un sistema, una struttura con una propria esistenza autonoma, ma sono piuttosto apparentati a dati sensoriali, destinati ad essere il più possibile trasformati da successivi apparati elaborativi (funzione alfa, apparato per pensare i pensieri). In questo modello gli elementi beta non trasformati risultano in grado di disturbare il funzionamento corporeo, ma non possono essere identificati con il funzionamento corporeo. Solo in tempi relativamente recenti si è giunti a proporre (Hautmann 2002; 2005) che possa essere presente un’attività di pensiero e di trasformazione anche a livello degli elementi beta.
7 – Wilma Bucci usa spesso anche il termine Subsimbolico per indicare questo sistema. Ho deciso di evitare questa dizione per evitare l’impressione di una subordinazione, di una sudditanza, rispetto agli altri due sistemi, concetto opposto alle intenzioni di questa autrice.
8 – Il pensiero per immagini è stato preso in considerazione da diversi autori, come César e Sara Botella, Antonino Ferro, Anna Ferruta (vv. ad es. Ferruta, 2005).
9 – Rispetto alle teorizzazioni psicoanalitiche tradizionali il sistema non-simbolico può essere avvicinato, pur differenziandosene per diversi aspetti, al processo primario di Freud, al simmetrico di Matte Blanco, al protomentale di Bion.
10 – Nelle parole di Carla De Toffoli (2001, p. 154): “il corpo sembra avere un suo codice di elaborazione dell’esperienza, e non essere soltanto il luogo di ciò che non è stato ancora mentalizzato”.
11 – ibidem, p.145: “..il corpo, nella sua struttura e nelle sue funzioni è l’incarnazione di un’idea-esperienza di relazione….”
12 – Non possiamo più pensare ad esempio che l’ansia, intesa come fenomeno mentale cosciente, produca una secrezione di adrenalina; tanto meno possiamo accettare un’impostazione biologico-riduzionista secondo la quale l’ansia sarebbe causata dalla secrezione di adrenalina, poiché non si capirebbe a questo punto da cosa sarebbe causata la secrezione di adrenalina stessa.
13 – Il concetto può essere avvicinato a quello di “coazione a integrare” di Roussillon (ad es. 2015).
14 – Così il disturbo somatico è stato visto derivare (Bion,1962a) da un eccesso di elementi beta, derivante da una carenza (assoluta o relativa) della funzione alfa; oppure da una interruzione difensiva di connessioni, come nel concetto di Attacchi al legame (Bion, 1957) o di désaffectation (Mc Dougall, 1989); oppure da una condizione alessitimica (Nemiah and Sifneos, 1970; Taylor et al., 1997).
15 – L’esperienza dura ormai da circa 15 anni. Ha coinvolto finora 20 studi medici, per 3 anni ciascuno. Il caso riportato è stato fornito dalla psicologa Pamela Strafella.
16 – E’ possibile ovviamente che il dermatologo non abbia usato esattamente queste parole. Rimane innegabile che questo è il vissuto di Ginevra, e che se l’operatore parte da un modello psicosomatico per cui un contenuto della mente (più o meno cosciente) si ripercuote sul corpo, è molto facile che si inducano questo tipo di vissuti.
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