GIOVANNI ANSELMO
Parole chiave: Self disclosure, Psicoanalisi, Owen Renik
SELF-DISCLOSURE 2
di Cristiano Rocchi
La self-disclosure in psicoanalisi può essere intesa come una esposizione al paziente di certi pensieri, idee, fantasie, emozioni, osservazioni dell’analista che possono riguardare l’hic et nunc della seduta in riferimento sia al paziente («…mi pare di percepire un Suo stato d’animo turbato , forse da…»), sia all’analista stesso («…sento crescere in me una forte emozione di malinconia accompagnata da un certo sentimento come di languidezza ; che sia perché …»), sia alla situazione («… è come se si fossero accese improvvisamente delle luci, mentre un attimo fa si era al buio e sono un po’ accecato, forse anche Lei è accecato come lo sono io …»), sia infine al loro rapporto («…sento come se mi avesse abbandonato, trovandosi di fronte a qualcosa che l’ha impaurita…»). Può anche non riguardare l’hic et nunc, ma sempre si riferisce al riconoscimento, con conseguente verbalizzazione, di eventi concernenti la relazione tra analista e paziente. Tali verbalizzazioni avrebbero il fine di consentire al paziente di entrare in contatto con dei “dati” presenti nella seduta che non sono o non erano stati, per vari ordini di ragioni, ri-conoscibili o ri-conosciuti: dati concernenti l’analista e la relazione. Ed attraverso ciò superare la resistenza, che come diceva Wolstein (1989), è spesso un correlato funzionale del controtransfert.
La gamma delle self-disclosure è molto ampia; esse possono essere diverse per grado, intensità, profondità; non è questo l’ambito adatto e neppure mi è concesso lo spazio per poter disquisire di ciò; dico soltanto che è importante che le consideriamo strumenti tecnici, e non artifici; strumenti tecnici che occorre saper maneggiare con grande destrezza difatti i contenuti a cui si riferiscono derivano non di rado da strati profondi della relazione emotiva inconscia tra paziente e analista e possono da quest’ultimo essere utilizzate per una comprensione migliore -e condivisa- dell’esperienza analitica. È ovvio a questo riguardo sottolineare che solo l’analista accorto e maturo può farne un uso appropriato. E inoltre va tenuto presente che la cornice teorica entro la quale questi si muove è una cornice psicoanalitica relazionale, che prevede per esempio quanto scrive P. Heiman: “Un analista che si permette apertamente di pensare “ad alta voce” -mostrando lo sforzo di comprensione e la sua ricerca passo a passo del significato- indica al paziente ch’egli non si ritiene onnisciente e lo invita a dividere con lui i suoi pensieri recando i suoi propri contributi al lavoro di scoperta della verità” (P. Heimann, 1975,c p. 474); discende da ciò anche che un elemento fondamentale nell’uso della self-disclosure è il suo “dosaggio”. Per precisare ulteriormente il concetto ed il suo uso, interessante quanto scrive Edgar A. Levenson, distinguendo la self-disclosure dalla self-revelation. La self-revelation dovrebbe riferirsi a quegli aspetti del terapeuta che inavvertitamente o deliberatamente è possibile che il paziente colga. La self-disclosure dovrebbe riguardare tutto ciò che deliberatamente decide di mostrare (o dire) al paziente (Levenson, 1996).
A differenza di quanto sostengono i critici a priori della self-disclosure, Owen Renik sostiene che secondo le sue osservazioni la self-disclosure non porta ad un’attenzione eccessiva sull’analista a discapito della centralità del paziente. Accade invece proprio il contrario: quanto più l’analista riconosce ed è disponibile a discutere la propria presenza personale nella situazione terapeutica, tanto minore è lo spazio che occupa e quindi ne lascia di più al paziente. L’analista reticente risulta ingombrante, occupando il centro della scena come oggetto misterioso. Il paziente è profondamente consapevole di essere in rapporto con un altro essere umano e il bisogno di conoscerne le intenzioni, le convinzioni, i valori, vale a dire il bisogno del paziente di sapere qualcosa della persona con cui ha a che fare, non scompare, anche se l’analista lo considera irrilevante ai fini della esplorazione della cosiddetta “realtà psichica” (Renik, 1998). Insomma, con una frase: quanto è maggiore il grado di soggettività riconosciuto all’analista, tanto maggiore sarà quello di oggettività garantito al paziente. Sulla stessa linea Jay R. Greenberg (1986), che considera la self-disclosure un importante strumento tecnico per agevolare il consolidamento della necessaria neutralità, che è vista come la posizione in grado di promuovere un tensione ottimale tra l’essere visto come un nuovo e come un vecchio oggetto.
In un lavoro del 2015 in cui svolgevo una disamina della self-disclosure controtransferale, ne individuavo il precursore nell’analisi reciproca di cui S. Ferenczi aveva scritto nel suo Diario clinico. Sostenevo che nonostante il l’insuccesso di quei tentativi, occorresse dare atto a Ferenczi di aver riconosciuto insito nella analisi reciproca un grosso potenziale, che consiste nella disponibilità dell’analista a creare un legame di fiducia quasi totale che può essere raggiunta solo attraverso la sua rinunzia parziale e temporanea alla asimmetria (nel senso classico che gli diamo in psicoanalisi), in quanto quel significato è inestricabilmente connesso con il principio di autorità. Rinunciare a quest’ultimo non vuol affatto dire abbandonare la necessaria posizione asimmetrica che implica la responsabilità dell’analista per la cura del paziente, la tenuta tanto del setting esterno quanto di quello interno, e neppure sostanzialmente derogare dalle auree regole della astinenza e neutralità, vuol dire però assumere una posizione nuova e diversa che comporta imparare a tollerare la necessità di momenti di simmetria, se non addirittura favorire il loro verificarsi. Questi momenti, che potremmo considerare “presentati” iperbolicamente e concretamente dai tentativi effettuati di analisi reciproca di Ferenczi con alcune sue pazienti, sono quelli in cui l’analista, attraverso la self-disclosure, offre al paziente una dimensione di sé da conoscere, in modo autentico ma non spontaneistico, in modo sincero ma misurato, governato e guidato in definitiva dalla sua funzione analitica ; è anche per questo motivo che sopra richiamavo l’importanza della provata esperienza dell’analista nell’usare questo strumento e la consapevolezza di stare adottando una cornice teorico-tecnica di matrice relazionale :“Non siamo vittime passive dell’esperienza, ma piuttosto creatori attivi e perpetuatori fedeli degli schemi di interazione conflittuale in un mondo che, se non è sicuro, è perlomeno conosciuto” (Mitchell, 1988, pag. 158). Anzi, parrebbe che sia proprio in quei momenti che l’analista, sufficientemente consapevole e tranquillo sulla non confondibilità dei confini tra sé e paziente, possa offrire all’analizzante una funzione psicoanalitica effettiva ed efficace perché integra nel suo svolgersi autenticità, comprensione e rispetto profondi dell’altro e della relazione stessa e può favorire l’accesso a dimensioni inconsce, a nuclei psichici forse inaccessibili altrimenti.
BIBLIOGRAFIA RAGIONATA
Ferenczi, S. (1928), L’elasticità della tecnica psicoanalitica, in Opere, vol. 4, Cortina, Milano 2002
- (1932a), Confusione di lingue tra gli adulti ed il bambino, in Opere, vol. 4. Cortina, Milano 2002
- (1932b), Diario Clinico, Cortina, Milano, 1988
Levenson, E (1996), Aspects of self-revelation and self-disclosure, Contemporary Psychoanalysis, 32: 237-248
Mitchell, S. A. (1988), Relational concepts in psychoanalysis: An integration,Harvard University Press, tr. it. (1993) Gli orientamenti relazionali in psicoanalisi. Per un modello integrato. Bollati Boringhieri, Torino
Renik, O. (1998), The analyst’s subjectivity and the analyst objectivity, Int. Jour. Of Psych., 79:487-497
Rocchi, C. (2003) The counter-transference of the patient, The International Journal of Psychoanalysis, vol 84: 1221-1239
- (2009) Beyond the couch, Rivista di Psicoanalisi, Anno, LV: 765-77
- (2010) Privacy e disclosure dello psicoanalista alle prese con … inconsci difficili” presentato al XV Congresso Nazionale SPI, Taormina, maggio 2010
- (2015) “L’analisi reciproca di Sándor Ferenczi come precursore della self-disclosure controtransferale” in Rileggere Ferenczi oggi. Contributi italiani, a cura di F. Borgogno, 2015 Borla Editore
Wolstein, B. (1959), Countertransference, Grune & Stratton, New York
- (1989), Ferenczi, Freud and the origins of American interpersonal relations, Contemp.Psychoanal., 25: 672-685