Un discutibile ritratto «accademico» della psicoanalisi
Nel gennaio 2017 è stato pubblicato dal Canadian Journal of Psychiatry un articolo online firmato da Joel Paris, professore di psichiatria alla Mc Gill University di Montreal ed ex capo redattore della rivista: «Is psychoanalysis still relevant to psychiatry?». Lo scritto, breve e apparentemente chiaro, si presenta come una valutazione «obiettiva» dello stato della psicoanalisi come teoria e pratica clinica, ma contiene una serie di grossolane semplificazioni e falsità che lo rendono meritevole di attenta considerazione. E’ in gioco, infatti, l’immagine pubblica della psicoanalisi, non tanto presso la popolazione generale, come quando si tratta delle semplificazioni dei mass-media, quanto piuttosto presso la comunità accademica, medico-scientifica e psicoterapeutica, trattandosi di una rivista specializzata e di un autore «competente».
Joel Paris propone la sua opinione come una sorta di fotografia o profilo storico-critico, tanto ponderato quanto definitivo, col quale consegnare la psicoanalisi alla storia. L’inquietante è che la riflessione, che si presenta con i caratteri della completezza e dell’ultimatività, è condotta da uno psichiatra palesemente estraneo alla psicoanalisi, come se un biologo tracciasse un bilancio della fisica, un medico della matematica o viceversa.
Come argomenta, dunque, l’autore? Elencando una serie di mezze verità, ossia di parziali falsità, sulla base delle quali stila il suo verdetto: la psicoanalisi è una disciplina che ha avuto la sua funzione storica, riduttivamente identificata con l’introduzione dell’ascolto attento del paziente e della sua storia, ora superata da altre scienze e tecniche terapeutiche, eventualmente utile nell’ambito delle «humanities», ma del tutto inservibile dal punto di vista scientifico e terapeutico. Al fine di dimostrare la sua tesi, Joel Paris parte da alcune difficoltà metodologiche, legate alla peculiarità del metodo e alla complessità dell’oggetto d’indagine della psicoanalisi, per trarne conclusioni tanto affrettate quanto tendenziosamente liquidatorie.
Tutto deriverebbe da due difetti di fondo, il presunto isolamento della psicoanalisi rispetto alle scienze empiriche, come se nella comunità psicoanalitica non vi fossero psichiatri, psicologi clinici e neuroscienziati perfettamente al corrente delle conoscenze e dei metodi d’indagine delle rispettive discipline, e l’esclusivo affidamento ai dati clinici. Tali difetti, che si estenderebbero anche ai modelli psicoanalitici postfreudiani, determinerebbero una pregiudiziale ostilità o indifferenza nei confronti della ricerca empirica, che si rifletterebbe nella scarsità di studi e prove empiriche a sostegno dell’efficacia del trattamento.
L’affermazione non tiene minimamente conto dell’intima interconnessione fra metodo e oggetto d’indagine, e della legittima preoccupazione degli psicoanalisti che metodi diversi da quello clinico possano snaturare o dissolvere la realtà da esso indagata. Tale giudizio, inoltre, è almeno parzialmente falso, poiché da anni la diffidenza della comunità psicoanalitica nei confronti della ricerca empirica sull’esito e il processo terapeutico si è significativamente attenuata, in corrispondenza con l’affermarsi di metodi di ricerca più adeguati, non più riduttivamente appiattiti sulla dimensione sintomatica e recentemente capaci di associare all’analisi statistica quantitativa quella qualitativa in profondità. Non solo, ma la tendenza a ricognizioni «cherry picking» della letteratura, ossia tendenziosamente selettive, evocata dall’autore, si riflette nella sua stessa propensione a minimizzare la significatività delle purtroppo ancora rare ricerche a supporto dell’efficacia della psicoanalisi, peraltro artificiosamente separate dai numerosi studi che comprovano quella della psicoterapia psicoanalitica, a tutto vantaggio delle tanto numerose quanto spesso metodologicamente discutibili e poco significative ricerche che sostengono i successi della terapia cognitivo-comportamentale.
Un altro cavallo di battaglia dell’autore è il cosiddetto «verdetto di dodo», la conclusione ricavata da alcuni studi empirici sull’efficacia delle psicoterapie, secondo la quale i risultati di trattamenti diversi tenderebbero ad equivalersi, suggerendo così che dietro l’adesione a teorie e tecniche terapeutiche diverse si celi l’operare di fattori terapeutici comuni. Un argomento che in teoria potrebbe essere rivolto contro tutte le psicoterapie, ma che egli del tutto immotivatamente rivolge solo contro la psicoanalisi, non tenendo peraltro conto che da diversi anni a questa parte tale «verdetto» è stato seriamente messo in discussione sul piano metodologico, con una serie di studi che viceversa evidenziano l’operatività di fattori terapeutici specifici, che nel caso della psicoanalisi e per determinate categorie di soggetti tendono a garantire maggiore ampiezza e stabilità di risultati rispetto ad altri trattamenti.
Non senza qualche ragione, Joel Paris avanza dei dubbi sulla neuropsicoanalisi, nella misura in cui questa venga intesa come fondazione di una disciplina con un suo specifico oggetto e metodo d’indagine, la psicoanalisi, su un’altra area disciplinare, quella neuroscientifica, caratterizzata da altre modalità di ricerca e di concettualizzazione, con implicita ammissione di debolezza e non autosufficienza metodologica e ontologica. Eppure, anche in questo caso le argomentazioni dell’autore sono tanto apodittiche quanto superficiali, limitandosi alla giusta ma banale osservazione che la letteratura neuroscientifica non può essere citata con il suddetto metodo «cherry picking», sottolineando le ricerche a favore e ignorando quelle a sfavore. Ma la citazione selettiva della letteratura a sostegno delle proprie tesi può avvenire anche, come nel presente articolo, limitandosi a menzionare genericamente l’esistenza di pubblicazioni contenenti affermazioni più o meno direttamente contrarie a quelle della neuropsicoanalisi, presentandole come universalmente rappresentative e senza mai entrare realmente nel merito di queste ultime.
Del fondatore della neuropsicoanalisi, Mark Solms, l’autore afferma semplicemente che cerca di convalidare a livello neuroscientifico la dottrina freudiana, ormai superata da altre teorie della mente, senza fornire di tale superamento alcuna dimostrazione, a meno di non intenderlo in senso banalmente cronologico. Analogo trattamento viene riservato a Eric Kandel, la simpatia del quale per la psicoanalisi viene ricondotta a vicende personali che gli impedirebbero di vedere in essa, tout court identificata con la teoria freudiana, una disciplina ormai appartenente al passato, dando nuovamente per scontato ciò che si dovrebbe dimostrare.
Infine, Joel Paris afferma che l’adozione, peraltro da parte di un numero ristretto di psicoanalisti, del paradigma ermeneutico, consegnerebbe definitivamente la psicoanalisi a un ambito extrascientifico, tanto come terapia che come teoria della mente, stabilendone l’affinità più con le «humanities» che con le scienze empiriche. Delle prime sarebbe poi solo una sorta di partner di secondo piano, andando a rafforzare con le sue ipotesi sull’inconscio quella «teoria critica», di ascendenza marxiana e francofortese, che il pensiero postmoderno adotta come chiave di lettura dei fenomeni sociali e culturali. Per quanto minoritario, il paradigma ermeneutico, pregiudizialmente antiscientifico, coglierebbe meglio l’essenza della psicoanalisi, più vicina, anche nella forma delle sue pubblicazioni, alla critica e alla teoria letteraria, con scritti consistenti in ardite speculazioni seguite da esempi illustrativi di carattere aneddotico privi di qualsiasi valore probatorio.
E così, non senza aggiungere una totale falsità, ossia che gli istituti psicoanalitici di training, sempre più disertati da psichiatri e psicologi clinici, aprano sempre più le loro porte a candidati formatisi nelle «humanities» e privi di ogni pratica clinica, l’autore si avvia a stilare il suo verdetto. Non una parola, naturalmente, sul fatto che parlare di ermeneutica, quali che siano i luoghi comuni circolanti al riguardo eventualmente anche all’interno della comunità psicoanalitica, non significa affatto parlare di estemporaneità e indifferenza al controllo, ma di ascolto attento del testo del paziente come banco di prova delle interpretazioni dell’analista. Ed ecco il verdetto: la psicoanalisi ha certamente avuto una sua funzione storica, consistente nel richiamare l’attenzione sul mondo interno del paziente e sulla sua storia, ma è una disciplina isolata dalle altre scienze, incapace di evolvere e destinata a sopravvivere solo come sfondo ereditario di altre e più avanzate scienze e tecniche terapeutiche. Il giudizio, apparentemente senza appello, fa rimpiangere le ben più circostanziate analisi di un acerrimo nemico della psicoanalisi come Adolf Grünbaum, non certo irrefutabili ma incomparabilmente più raffinate e stimolanti, e induce a pensare che i profili o bilanci della psicoanalisi, soprattutto in relazione alle sue credenziali scientifico-terapeutiche e al suo rapporto con le altre discipline, è bene che li scrivano gli analisti stessi, onde evitare che siano affidati a pubblicazioni come questa.
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC5459228/ .
Giorgio Mattana