SALUSTIANO GARCIA CRUZ 2021
Parole chiave: Transgender, D. Bell, Psicoanalisi, Omosessualità, Gender Affirmative Approach
Transgender Children
Dalla controversia al Dialogo
J. Ossermann H. Wallerstein
The Psychoanalytical Study of the Child
Vol. 75, 2022
Nel 2022, sulla rivista Psychoanalytical Study of the Child vol.75, è stato pubblicato l’articolo, Transgender Children from Controversial to Dialogue di Osserman e Wallerstein. L’articolo- di cui cercheremo di offrire una breve sintesi- pur con molti limiti principalmente dovuti alla difficoltà a reperire colleghi disposti a confrontarsi, ha il pregio di avviare un dibattitto tra alcune posizioni teorico-cliniche presenti all’interno della comunità psicoanalitica sul tema di quei bambini che manifestano un desiderio, o che hanno difficoltà a trovare una corrispondenza tra il loro sesso biologico e il vissuto soggettivo, i bambini di genere non conforme.
L’articolo è frutto di materiale prodotto da un dialogo su Zoom poi trascritto e pubblicato, tra quattro psicoanalisti, rispettivamente, Oren Gozlan, Laurel Silber, Eve Watson, Tobias Wiggins[1], che hanno esperienza diretta dell’identità trans. Questo secondo lavoro, successivo ad un primo del 2016 (https://www.tandfonline.com/doi/abs/10.1080/00797308.2015.11785503), trova la sua ragione nella vicenda Tavistock Clinic/ D.Bell (2020) a cui rimando, vicenda che ha prodotto una importante eco mediatica con il risultato di mettere ancora più in luce, se già non fosse chiaro a tutti, quanto l’area fosse conflittuale e quanto fosse urgente un confronto tra gli psicoanalisti stessi. Aggiungerei, inoltre, che le controversie emerse sembrano essere dovute alla crescente preoccupazione da parte dei clinici impegnati in quest’area a poter esprimere liberamente i propri dubbi e perplessità, aspetto che riflette, il livello di polarizzazione ideologica del discorso.
Il clima in cui si inserisce questa ricerca-articolo è, dunque, piuttosto infiammato. Già da alcuni anni, D. Bell (2019; 2021; 2022), psicoanalista e past-president della British Society, è più volte intervenuto pubblicamente, attraverso differenti media, per sottolineare la difficoltà a poter produrre un pensiero psicoanalitico, libero da pregiudizi, sul tema della disforia di genere nei bambini a causa di un, “…peculiare modo di pensare che tratta chi non è d’accordo come un nemico e lo etichetta come transfobico, producendo un mondo paranoico fatto di chi è a favore e chi è contro.”(2022) Ribadisce, a più riprese, come un dibattito serio sia impossibile, impedito da un ‘non-pensiero egemonico’ che ha in odio la verità. Riferendosi alla paura che colpisce gli psicoanalisti impedendo loro così di esprimersi, Bell afferma che questa potrebbe avere la sua origine nell’accusa antica di omofobia che ha caratterizzato i momenti bui della storia psicoanalitica Nord-Americana degli anni ’50, e che ancora oggi sembra soffrirne le conseguenze, ma che niente avrebbe a che fare con questa particolare condizione.
La disforia di genere ha per Bell (2021) molte vie di accesso; ci sono bambini o preadolescenti che vivono una vita isolata e infelice, che sentono di non avere un reale posto nel mondo o che si sentono psichicamente persi. Talvolta, fanno da corollario famiglie disfunzionali con una trasmissione transgenerazionale di molteplici traumi, oltre a famiglie che hanno sofferto la perdita di figli e dove la transizione va ad occupare il sesso del figlio morto. Un altro importante aspetto, sempre sottolineato da Bell, è relativo all’omosessualità; non è infrequente che bambini che sono attratti da qualcuno del proprio sesso pensino che lui/lei deve per forza essere ‘nel corpo sbagliato.’ In questo specifico caso, la famiglia potrebbe trovare intollerabile l’omosessualità e il bambino introietta inconsciamente questa intolleranza manifestando un odio intenso per il proprio corpo. Questi bambini se aiutati adeguatamente, esitano in una identità gay o lesbica senza doversi sottoporre al processo di transizione.
Bell (2019) ricorda, inoltre, come molti servizi abbiano avviato interventi farmacologici e chirurgici senza aver potuto realmente valutare i danni, talvolta irreversibili, a cui espongono questi giovani. Sarebbe auspicabile un numero maggiore di studi relativi all’appropriatezza o meno dell’uso del farmaco, senza per questo essere oggetto di discriminazione. Invece, coloro i quali si rifiutano di accettare posizioni ‘main-stream’ e vogliono mantenere uno spazio aperto al confronto e al pensiero, sono spesso stati indicati come ‘transfobici,’ con la conseguenza di veder silenziato il dibattito. Il silenzio ha prodotto un’eccessiva semplificazione nei confronti di un fenomeno in atto che invece non lo è per nulla. Ad esempio, si è assistito a un numero sempre più alto di giovani ‘in transizione’ insieme a un numero crescente di individui, nati donne, che vogliono cambiare sesso: tutto questo non può essere spiegato solamente con la presenza di un’atmosfera più liberal.
Per tutta questa serie di motivi, Bell pone l’accento su alcuni elementi che richiederebbero una più attenta indagine. 1) La facilità, apparente, con cui si può accedere ad una trasformazione; 2) una crescente misoginia nascosta che arriverebbe a produrre un odio profondo per il corpo femminile; 3) internet/social media che rappresenterebbe la causa e il veicolo del contagio; 4) la carenza dei servizi di salute mentale per l’infanzia dovuti ai continui tagli economici da parte dei Governi parallelamente ad un aumento esponenziale della domanda di aiuto. Bell auspica così una riflessione vera non possa prescindere da un’analisi che comprenda l’insieme dei fattori sociali, culturali e politici. Anche Evans (2020), responsabile del GIDS, definisce “bizzarra” la nozione di “identità di genere innata” che, a suo modo di vedere, avrebbe impedito ai medici del GIDS e altrove, di interrogare i significati profondi iscritti nel genere (Evans 2020). Bell, Evans e altri condividono l’idea che, “… i problemi di identità richiedano un’elaborazione simbolica e che gli interventi nella realtà del corpo siano spesso soluzioni errate, potenzialmente psicotiche (Brunskell-Evans e Moore 2019).”
Dobbiamo però ricordare che D. Di Ceglie, fondatore del GIDS, con una formazione psicoanalitica di marca Kleiniana, ha fondato l’atypical gender identity organization (2018), un modello di intervento e di ascolto che considera oggi vivibile, quando è opportuna, una identità trans, grazie al supporto ormonale. Tuttavia, ci invita a considerare che un gender non-normative possa altresì comunicare qualcosa di più di un semplice desiderio di transizione.
Da una posizione opposta a Bell, A. Saketopoulou (2020) sottolinea come alcuni conflitti psichici non possano essere risolti nella realtà psichica ma richiedano, invece, un’azione. Propone, a questo proposito, il termine di massive gender trauma per indicare cosa può essere, l’esperienza di misconoscimento di un bambino di fronte alla disforia di genere. Ritiene fondamentale avviare e mantenere un dialogo con altri campi del sapere, come gli studi femministi, queer e trans, che valorizzano l’esperienza delle persone trans come un importante punto di riferimento (vedi in particolare Rose 2016).
D. Ehrensaft (2015), formata psicoanaliticamente e fondatrice del Gender affirmative approach, ha coniato il termine True Gender Self – di eco Winnicottiana, e afferma che il gender affirmative approach è particolarmente adatto alla terapia psicoanalitica infantile, dove attraverso l’ascolto, il gioco, il rispecchiamento, l’osservazione, la relazione e l’interpretazione, è possibile arrivare al cuore della questione di genere. Wiggins (2022) offre una definizione chiara e succinta del Gender affirmative come un modello che “chiede al bambino la sua identità di genere, credendo nell’autentico valore nominale delle sue affermazioni di genere e supporta le richieste di transizione fisica e sociale.” Si dice, inoltre, preoccupato dal fatto che qualora il supporto immediato venisse negato, quello spazio che dovrebbe essere aperto, verrebbe chiuso e sarebbe l’ennesima esperienza di rifiuto che permea la vita delle persone trans. A. Lemma (2018) pur sostenendo l’accesso dei giovani alla transizione medica, avverte i sostenitori più entusiasti che “rimane nostra responsabilità etica aiutare i pazienti a considerare che anche i cosiddetti atti creativi hanno costi significativi e vi sono molteplici livelli di significato che non sempre sono immediatamente accessibili alla coscienza e che per questo è necessaria un’elaborazione (cioè tempo) per compiere scelte consapevoli”
Pertanto, senza riporre eccessiva fiducia nella capacità della psicoanalisi di risolvere antagonismi sociali più ampi, Osserman e Wallerstein ritengono che i teorici e i clinici psicoanalitici debbano pensare in modo più collaborativo su come portare la loro attenzione unica alle questioni del desiderio, della relazionalità e dell’inconscio nella situazione clinica rispetto a quei giovani che navigano nella sfida profondamente personale, ma anche universale dell’identità di genere. Per questa via, auspicano che la psicoanalisi possa emergere come l’unica disciplina capace di sintonizzarsi con un problema la cui soluzione non è prontamente disponibile (vedi Baraitser 2017). Infatti, mentre la medicina risponde alle ansie che circondano il genere nei giovani tentando di prevedere quali bambini “persisteranno” rispetto a coloro che “desisteranno” in un’identità trans attraverso criteri comportamentali basati su dati numerici (vedi Steensma et al. 2013; Temple Newhook et al. 2018), Osserman e Wallerstein ritengono che alla psicoanalisi sia richiesto qualcosa di diverso. “Come psicoanalisti – scrive Roger Litten nella sua “Introduction to a Conversation on the Trans Question” (2021), non possiamo permetterci di rimanere in silenzio, di rimanere esclusi da queste domande come se non fossero una nostra preoccupazione… dobbiamo trovare modi per affrontare seriamente questa nuova configurazione, con tutta l’attenzione che merita… o affronteremo la prospettiva della scomparsa della psicoanalisi come discorso clinico praticabile.”
Dopo una breve disamina su alcune posizioni esistenti, Osserman e Wallerstein introducono i contributori e dichiarano come sia prevalente una certa enfasi lacaniana ma allo stesso tempo, siano detentori di un’esperienza diretta dell’identità trans.
Per facilitare il confronto, viene presentata una breve vignetta clinica e la prospettiva scelta, come si vedrà, risente dell’orientamento dei vari clinici. Riporto il caso.
L.Silber riferisce il caso di una bambina, nata femmina, che ha perso il padre in circostanze tragiche e che ha cominciato a ripetere la frase “Io, un maschio”. Silber usa questo esempio per indicare i modi enigmatici in cui i bambini interpretano le questioni di genere e la necessità che tale gioco sia tradotto in modo collaborativo e creativo. Da un’altra prospettiva, Wiggins esprime preoccupazione per una lettura in cui alla base della ‘non conformità di genere’ si metta in evidenza l’esistenza di un possibile trauma irrisolto che, se elaborato, riporterà invariabilmente il soggetto a una posizione cisgender.
Osserman e Wallerstein attirano la nostra attenzione su un interessante slittamento. Mentre Silber cita la frase ambigua “Io, un ragazzo (I, a boy)”, le osservazioni di Wiggins fanno riferimento alla frase “Io sono un ragazzo (I’m a boy)”. Questo aspetto viene sottolineato non per criticare Wiggins per aver commesso un “errore”, ma piuttosto per prestare attenzione allo slittamento linguistico. Infatti, queste due frasi, che differiscono foneticamente per la semplice presenza/assenza del suono “m”, offrono un mondo di differenze nel significato potenziale e parlano di tensioni fondamentali attorno all’argomento dei bambini trans.
“I a boy” metterebbe in luce gli aspetti del processo primario del genere, sgrammaticato ed enigmatico; Allo stesso tempo, sottolinea come l’acquisizione tumultuosa del linguaggio da parte del bambino e la sua lotta per distinguere tra soggetto e oggetto, si realizza mentre sta negoziando un suo posto nel mondo. Il genere binario ragazza/ragazzo, e le sue possibili relazioni con madre/padre, emerge qui come carica affettiva indeterminata, bisognosa di traduzione e contenimento. Al contrario, “I am a boy” ha senso. È una frase familiare che pone la questione dell’identità in termini (apparentemente) chiari e diretti. Mentre una tale affermazione può ancora riguardare le relazioni familiari e gli enigmi dell’ingresso nel linguaggio, è anche un’affermazione di sé pienamente formata che articola un confine (io sono x, non y).
Un’affermazione, dunque, richiede una traduzione, per essere compresa, e una scelta, ovvero se indagare ulteriormente o prendere l’autoaffermazione come punto finale. Quando pronunciata da un bambino assegnato femmina alla nascita, l’affermazione suscita una serie di domande che possono provocare più o meno ansia (a seconda del destinatario del messaggio) ma che tuttavia appartengono a un certo quadro interpretativo; che sia trattata come una dichiarazione di identità trans incipiente, una fantasia transitoria, o “creatività di genere,” o anche, per alcuni, un indicatore di patologia, la frase partecipa a un discorso sociale. L’opposizione “io un ragazzo/io sono un ragazzo” dà forma a tensioni cruciali. In primo luogo, tra il modo in cui la psicoanalisi comprende il processo di sviluppo del soggetto rispetto a come ‘parla più specificamente al contemporaneo discorso trans’ e, in secondo luogo, tra le particolarità dell’infanzia e i modi più generali di pensare all’esperienza di genere.
Per ragioni di spazio non daremo conto estesamente delle tre aree tematiche – Il rapporto di dipendenza, Genere e significato e Affermazione contro neutralità, in cui le differenze teorico-cliniche nel comprendere la clinica sono maggiormente visibili. Non possiamo però non notare come la dimensione dipendenza- protezione nell’infanzia introduca un aspetto problematico. Osserman e Wallerstein si chiedono da cosa esattamente dovrebbero essere protetti i bambini. Watson e Silber, ad esempio, si concentrano sulla protezione del tempo necessario all’esplorazione, o spazio di gioco, in cui può avvenire un’ulteriore elaborazione. Gozlan e Wiggins sono più attenti a proteggere i bambini dai pregiudizi e dalle proiezioni degli adulti che possano distorcerne l’ascolto.
Per concludere, Osserman e Wallerstein affermano che ogni caso di disforia di genere infantile coinvolge un individuo con una sua propria soggettività, una vita emotiva e relazionale unica. Pertanto non è utile produrre un “regolamento” su come lavorare in quest’area, ma bisognerebbe fare affidamento sull’arte di pensare situazione per situazione in un tempo e un luogo che favorisca un dialogo e un confronto continui (Forrester, 2017). Se dobbiamo trovare un comun denominatore, affermano gli autori, nelle attuali prospettive psicodinamiche, la preoccupazione sembra essere quella di far capire la sofferenza di un individuo nella sua specificità, in modo da plasmare una soluzione adeguata alle impasse che tutti affrontiamo in relazione alle questioni della sessualità e dell’esistenza e che ogni contributore ha mostrato, “…un impegno verso questo compito infido ma necessario. Insieme, si ritagliano un modo di lavorare con i bambini trans rispettoso, aprendo una strada per tutti noi.”
BIBLIOGRAFIA
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[1] Oren Gozlan psicologo clinico e psicoanalista a Toronto. È presidente del Comitato per il genere e la sessualità del Forum internazionale per l’educazione psicoanalitica e ha scritto molto sul tema del transgender; Laurel Silber psicologa clinica che lavora con i bambini e le loro famiglie in privato a Bryn Mawr, in Pennsylvania. È ex presidente della Philadelphia Society for Psychoanalytic Psychology. Ha scritto sull’infanzia, la trasmissione intergenerazionale del trauma e, più recentemente, sull’espressione e la varianza di genere nei bambini; Eve Watson psicoanalista e docente universitaria a Dublino, in Irlanda. È specializzata in studi sulla sessualità. Ha pubblicato molto sulla psicoanalisi, la sessualità e il cinema. È coautrice di Clinical Encounters in Sexuality: Psychoanalytic Practice and Queer Theory N.Giffney; Tobias Wiggins professore di studi sulle donne e di genere presso l’Università Athabasca. La sua ricerca si concentra sulla salute mentale transgender, la cultura queer e trans-visiva, la transfobia clinica, il benessere accessibile basato sulla comunità e la psicoanalisi. Più di recente Wiggins ha scritto sul controtransfert perverso in relazione ai soggetti trans. In questo volume, introduce la nozione di “infantilismo” di Elisabeth Young Bruehl per leggere la particolare posizione del bambino trans nei dibattiti sui transgender in modo più ampio.