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Teorie, modelli e paradigmi – Dialogando con De Masi e Riolo. G. Mattana 04/2022

3/05/22
Bozza automatica 29

Paolo Uccello, San Giorgio e il Drago

Parole chiave: metodo psicoanalitico; epistemologia; falsificabili; scientificità della psicoanalisi

Teorie, modelli e paradigmi –

Dialogando con De Masi e Riolo

Giorgio Mattana

Mi inserisco nella riflessione aperta da De Masi sulla necessità di avanzamento della nostra disciplina, sottoscrivendone parola per parola l’elogio del lavoro di Riolo e colleghi comparso nell’ultimo numero della Rivista (2021), elogio già peraltro effettuato in mailing list, dove ancora una volta è arrivato prima di me. Condivido in particolare la proposta di De Masi di rendere oggetto di studio per candidati e analisti la meticolosa «assiomatizzazione» dei principali modelli psicoanalitici contenuta nella pubblicazione, strumento prezioso per orientarsi criticamente nel panorama psicoanalitico contemporaneo. Riporto qui di seguito dall’Introduzione di Riolo le parole che ritengo più rappresentative dello spirito dell’opera: «Di fronte a ipotesi e teorie divergenti una comunità scientifica affronta le contraddizioni non invocando il sacro diritto al pluralismo – che due teorie che si contraddicono a vicenda non possano essere entrambe vere è questione di logica non di pluralismo – ma promuovendo l’indagine e il confronto, in modo da realizzare un avanzamento delle conoscenze» (ibid., p. 791). Echeggiano qui la competizione a lungo termine fra modelli a suo tempo auspicata da Napolitano (2011) e si parva licet le argomentazioni del sottoscritto a favore di un confronto fra modelli che aumenti l’ordine e il rigore della nostra disciplina senza alterarne il metodo con l’introduzione di parametri a esso estranei (Mattana, 2020).

Cosa potrebbe significare in questa prospettiva rivendicare per la psicoanalisi uno «statuto speciale», se non mostrare che essa è capace secondo modalità proprie e irriducibili di fondarsi criticamente sull’esperienza, intesa in primo luogo come esperienza clinica, non solo come base euristica per la formulazione di ipotesi, ma anche come banco di prova della loro validità? Racchiudo in questa considerazione l’essenza dei vari «criteri di demarcazione» successivamente proposti dalle diverse epistemologie, come la verificabilità, la confermabilità, la falsificabilità, la controllabilità e via dicendo. Per quanto oggi quasi universalmente concepiti in modo indiretto, relativo e locale, per quanto siano state sottolineate le componenti emotive e sociali della scienza, tali requisiti continuano a rappresentare un discrimine importante. E qui giunge opportuna una seconda citazione di Riolo (2021): «Dobbiamo a Karl Popper l’acquisizione che per poter essere falsificata dall’osservazione, una teoria deve essere “falsificabile”: e ciò dipende dal fatto che i suoi enunciati siano logicamente “finiti”. Un enunciato indefinito è infatti suscettibile di accogliere qualsiasi osservazione; non può perciò essere falsificato» (nota 2, p. 794). È importante capire che la falsificabilità, che oggi sappiamo non essere diretta, poiché le teorie contengono nuclei profondi non direttamente confrontabili con l’esperienza, e nemmeno conclusiva, poiché non basta certo un’evidenza contraria a far cadere una teoria, come mostra l’uso «virtuoso» delle ipotesi ad hoc in casi esemplari come quello della scoperta del pianeta Nettuno, non è che l’altra faccia della verificabilità, della confermabilità o della convalida: solo una teoria che si espone al rischio di essere contraddetta dall’esperienza può essere realmente convalidata.

Introduco a questo punto due brevi precisazioni che spero contribuiscano al miglioramento della comunicazione attorno alla tuttora attuale (Misra, 2016) e tutt’altro che univocamente percepita questione della scientificità della psicoanalisi. Ricordo in proposito che esiste ancora un’importante corrente di pensiero filosofico e psicoanalitico che ne sostiene l’irrilevanza, ritenendo che l’aspirazione alla scientificità sia frutto dell’«autofraintendimento scientistico» di Freud (Habermas, 1967), che si sarebbe dunque ingannato sulla natura della disciplina che aveva fondato. La prima precisazione riguarda il termine «modello», da me stesso frequentemente utilizzato in omaggio a quello che è ormai un uso corrente nella nostra disciplina, ove sembra quasi completamente subentrato a quello di «teoria». In ambito epistemologico, come affermano Riolo e colleghi (2021, p. 921), il significato del termine è quello di «rappresentazione» di una teoria. Nella «Garzantina» di Filosofia (2004) si afferma che per «modello di un fenomeno o di un insieme di fenomeni» si intende «una costruzione più o meno astratta che condivide alcune caratteristiche strutturali del dominio modellato. Le oscillazioni di questo uso del termine dipendono dal grado di astrazione che si ritiene il modello debba possedere (…)» (vol. 14, A-M, p. 731) Esempi possono esserne il modello dell’atomo o i modelli matematici in economia, ma il modello può anche essere pensato come una costruzione concreta «”detratte” le caratteristiche per cui essa differisce dal dominio modellato (…) un insieme di palle da biliardo in movimento casuale è modello di un gas (secondo la teoria dinamica dei gas)» (ibid., p. 732).

Vengono in mente le due topiche di Freud, oppure il modello del Sé di Wisdom o dei Grinberg, che sono modelli non tanto nel senso di essere concepiti come circoscritti e locali, esattamente come nel caso di quello dell’atomo, bensì in quello di collocarsi a metà strada fra l’astrazione teorica e la concretezza empirica del dominio in oggetto. In questo senso il modello è a tutti gli effetti una teoria, anche se se ne sottolinea a volte la valenza euristica («proviamo a immaginare che l’atomo sia fatto così»), che tuttavia condivide con qualsiasi teoria non ancora ben confermata: è la «rappresentazione» di una teoria. Fermo restando che da Popper in poi anche la teoria meglio convalidata mantiene nella sua essenza un carattere ipotetico, in quanto è sempre suscettibile, come si è regolarmente verificato nella storia della scienza, di essere confutata e sostituita da una teoria esplicativa migliore.

La seconda precisazione riguarda il termine «paradigma». Lo ha introdotto Kuhn (1962) in polemica con il neopositivismo e con Popper. L’attenzione alla storia della scienza porta questo Autore a inglobare il concetto di teoria in quello di paradigma che è una struttura più complessa. Gli scienziati che operano all’interno di un paradigma non si limitano a sostenere una certa teoria, ma «abitano» all’interno di una determinata visione del mondo, lo percepiscono in un certo modo, condividono vincoli relativi a ciò che conta come fenomeno da spiegare, a ciò che può essere considerato una spiegazione, sono affettivamente legati alla teoria e sono convinti della sua bontà. Arriveranno poi Lakatos con i suoi programmi di ricerca progressivi o regressivi, inclusi i loro impegni «metafisici», Feyerabend con il suo anarchismo metodologico, i dibattiti attorno alla nozione di paradigma e a quella a essa correlata di «schema». Il tutto a comporre la «svolta relativistica» dell’epistemologia contemporanea (Egidi, 1992), caratterizzata da una visione molto più aperta, problematica e complessa dell’impresa scientifica di quanto ritengano alcuni critici dell’aspirazione freudiana alla scientificità, sbrigativamente etichettata come scientismo o positivismo. L’idea di una verità e di un’oggettività assolute, indipendenti da schemi, contesti e presupposti rimangono forse patrimonio del senso comune, degli scienziati digiuni di epistemologia e dei filosofi poco consapevoli della raffinatezza critica della riflessione contemporanea sulla scienza.         

Ciò premesso credo che la distinzione fra teorie, modelli e paradigmi, già di per sé complessa e controversa, da un lato vada ricondotta alle diverse prospettive epistemologiche che sarebbe bene volta per volta esplicitare. Dall’altro, almeno per gli scopi della nostra discussione, che essa non vada eccessivamente enfatizzata, accogliendo l’uso che di tali termini fa ogni Autore e desumendone il significato dal suo discorso. E qui mi riallaccio alle considerazioni di De Masi per chiedermi con lui se la nostra disciplina abbia bisogno solo di nuove ipotesi, cosa che condivido, o anche di più ordine e chiarezza, per capire bene quali sono le ipotesi esistenti, che rapporti hanno fra loro e quali sono quelle che mancano. Nel far ciò accolgo quello che mi appare il suo suggerimento, ossia di considerare il modello una teoria locale e circoscritta, con ambizioni meno «universali» di quelle che seguendo questa idea potremmo attribuire alle teorie «vere e proprie».

Le mie considerazioni si svolgono su due piani fra loro intrecciati, quello che definirei lo «strumentalismo» psicoanalitico, un atteggiamento epistemologico discusso da Popper (1969), e quella che definirei la concezione induttivistica della scienza, per toccare da ultimo la questione della conoscenza «oggettiva» del soggetto. Per «strumentalismo» intendo la concezione secondo cui i modelli psicoanalitici nascono in relazione a specifiche categorie di pazienti e rappresentano dunque degli strumenti che «servono» con certi pazienti e non con altri. Ritengo che tale concezione abbia perlomeno due punti deboli. Se è vero che i modelli nascono in relazione al tipo di pazienti, come i narcisisti di Kohut e quelli di Kernberg o i nevrotici piuttosto che i non nevrotici, è anche vero che solo all’interno di una visione «iper-induttivistica» tali modelli sarebbero frutto della semplice osservazione delle diverse tipologie di pazienti e non il risultato di ipotesi e congetture. Partiamo sempre da aspettative, teorie implicite o esplicite, conoscenze di sfondo depositate nel senso comune, ma difficilmente siamo tabula rasa: quando questi presupposti vanno in crisi, se siamo capaci e creativi (come De Masi) elaboriamo un nuovo modello per dare ordine e senso ai fenomeni che osserviamo, e nel farlo vi introduciamo come già sottolineava Freud (1915) «idee astratte» che non sono ricavate dal materiale osservato. Tale modello rimane pertanto nella sua essenza rivedibile e sostituibile, mentre se esso fosse il semplice riflesso di ciò che si osserva ci troveremmo nella singolare situazione per cui la psicoanalisi crescerebbe solo «orizzontalmente», per giustapposizione di modelli stabiliti una volta per tutte: un modello per i nevrotici, uno per i borderline, uno per gli psicotici e così via. Applicando alla psicoanalisi il detto tot capita tot sententiae, si potrebbe dire tot categorie di pazienti tot modelli.   

Ma anche ammesso che i modelli nascano direttamente dall’osservazione, e non come sostengono gli anti-induttivisti da un attrito fra questa e le nostre «pre-concezioni» che ci induce a escogitare nuove ipotesi esplicative, nessuno di essi si limita a spiegare soltanto quella specifica condizione patologica. Ogni modello infatti contiene «concezioni psicogenetiche, concezioni patogenetiche e concezioni della cura, che propongono principi di spiegazione diversi e spesso incompatibili, da cui discendono pratiche cliniche a loro volta diverse e incompatibili» (Riolo 2021, p. 791), rivendicando di fatto una validità generale, secondo il principio per cui dalla patologia, che riguarda alcuni, si risale alla fisiologia, che riguarda tutti. Non diversamente Eagle (2011), quando passa in rassegna i diversi modelli analizzandone le rispettive concezioni della mente, delle relazioni oggettuali, della psicopatologia e del trattamento. Tanto per fare un esempio, come mettono in luce Riolo e colleghi (2021), Eagle (2011) e Greenberg e Mitchell (1983), il modello kohutiano della psicologia del Sé muove dai pazienti narcisisti, ma tende a estendersi progressivamente ad altre categorie di pazienti e a soppiantare sotto profili importanti il modello freudiano. È certamente possibile che a livello clinico un analista a seconda dei casi possa trovarsi a operare più come freudiano, kleiniano, winnicottiano o bioniano, utilizzando in certo senso tali modelli come «strumenti», ma ciò non significa ignorarne le differenze e le potenziali contraddizioni, o metterli tutti sullo stesso piano e non avere un proprio modello di riferimento all’interno del quale «risignificare» gli altri. Un astronomo copernicano potrebbe trovare più comodo in certe circostanze, per esempio durante la navigazione, ragionare da tolemaico, ma non per questo abbandonerebbe la teoria copernicana con cui spiega anche le sue osservazioni «tolemaiche».

Considerando la comunità psicoanalitica nel suo complesso, il pluralismo teorico, eventualmente declinato come «strumentalismo», dove ogni singolo modello ha un suo circoscritto ambito di validità e in linea di principio non si espone alla falsificazione mettendo alla prova le sue teorie della mente, delle relazioni oggettuali, della psicopatologia e della cura in altri campi, rappresenta un ostacolo allo sviluppo di una dinamica analoga a quella di altre discipline. Un primo passo in questa direzione sembra proprio quello di procedere, attraverso la loro «assiomatizzazione», a un confronto fra modelli che permetta di determinarne le aree di maggiore o minore validità, compatibilità, incompatibilità o sovrapposizione al fine di fare del pluralismo un fattore di forza e ricchezza e non di debolezza e confusione. E a questo primo passo potrebbe anche seguirne un secondo che evidenzi che i suddetti modelli, oltre a non poter convivere «commensalmente» gli uni accanto agli altri, non sono nemmeno fra loro equivalenti. Potrebbe risultare da tale confronto che vi sono modelli più validi sul piano esplicativo e più efficaci su quello terapeutico di altri, soprattutto se pensiamo a quei «macro-modelli», per i quali non sarebbe controindicato il termine «paradigmi», che sono quello pulsionale e quello relazionale. Cosa ci sarebbe di strano o di «antidemocratico» nell’ammettere che in maniera relativa, provvisoria, storicamente determinata ed eventualmente rivedibile uno dei due risulta più valido dell’altro? E questo riguarda ovviamente anche gli altri modelli, kleiniano, bioniano, winnicottiano e via dicendo. Sappiamo del resto che tale «espansionismo» è di fatto costantemente all’opera e che ad esempio i teorici dell’inconscio non rimosso, pur dichiarandone la compatibilità con la teoria freudiana della rimozione, tendono a estenderne la «giurisdizione» anche all’ambito di quello rimosso.

Per quanto i sostenitori della teoria newtoniana come migliore descrizione possibile dell’universo siano effettivamente scomparsi, nessun astronomo contemporaneo si sognerebbe di ascrivere la «vittoria» della teoria einsteiniana soltanto a questa circostanza. La superiorità di quest’ultima consiste nel fatto che essa incorpora in sé anche le leggi newtoniane, spiega tutti fenomeni spiegati dalla teoria newtoniana più altri fenomeni che questa non spiega, mentre non avviene il contrario. Analogo discorso potrebbe farsi per la teoria del neurone, che si è progressivamente affermata sulla teoria «reticolarista» precedentemente dominante, che vedeva il sistema nervoso come una sorta di gomitolo privo di interruzioni e sembrava garantire nel modo migliore la trasmissione dell’impulso nervoso. Potrebbe pertanto anche accadere che un analista lavori con un paziente come se credesse nel narcisismo primario, ma se ha un modello kleiniano in cui il narcisismo primario come stadio evolutivo non esiste, spiegherà il «narcisismo primario» del paziente riferendolo all’adesione a un oggetto interno. Sostenere la pluralità delle prospettive e il tramonto della verità ultima e definitiva significa affermare che la complessità del reale può essere colta dalla convergenza di discipline diverse che «ritagliano» in esso oggetti diversi, come nel caso della relazione psicoanalisi/neuroscienze, ma non significa affatto che all’interno di una singola disciplina tutte le teorie o modelli si equivalgano e non esistano o non possano esistere criteri di valutazione al riguardo. Essere al tempo stesso a favore del narcisismo primario e della pulsione di morte, della relazionalità primaria e dell’aggressività come risposta alla frustrazione, tanto a livello personale che di comunità psicoanalitica, non è segno di pluralismo ma di debolezza e frammentazione teorica.

Esiste inoltre un «sincretismo» psicoanalitico nelle intenzioni inclusivo e contrario alle «opposizioni» teoriche, come quella fra modello o paradigma pulsionale e relazionale, considerate espressione di un pensiero rigido e schematico, che è di fatto una forma sofisticata di conservatorismo, in quanto accoglie i nuovi modelli ma li colloca accanto a quelli precedenti, evitando così di metterli a confronto per valutarne le rispettive capacità esplicative e terapeutiche. L’argomento è in questo caso che esistono tanto la pulsione che la relazione e che solo all’interno di una logica binaria e angustamente oppositiva bisogna «scegliere» fra l’una e l’altra, ma ciò significa disconoscere la portata «universale» e cioè teorica in senso proprio di entrambi i modelli o paradigmi. Non si tratta infatti da questo punto di vista di «escludere» la pulsione o la relazione; i sostenitori del modello pulsionale non si sognano certo di negare la relazione, ma la subordinano al primato motivazionale della pulsione, così come i teorici del modello relazionale non affermano certo che non esistono nel nostro vissuto le pulsioni, ma le subordinano al primato motivazionale della relazione.       

Da ultimo qualche spunto di riflessione sul tema giustamente sollevato da De Masi della possibilità di una conoscenza «oggettiva» del soggetto. Credo che se si rinuncia al concetto di verità assoluta e si traduce l’oggettività in intersoggettività, le condizioni di possibilità di tale conoscenza siano date. Analogamente a quanto avviene nella conoscenza del mondo esterno, abbiamo a che fare con i limiti delle nostre facoltà e con la sovradeterminazione teorica delle nostre osservazioni, per cui non abbiamo mai l’«immacolata percezione» della realtà, ma entro questi limiti possiamo raggiungerne una conoscenza sempre più approfondita e completa. Il metodo «naturalistico» o in «terza persona» della scienza può essere applicato anche alla conoscenza della mente, come mostrano gli studi cognitivi sulla memoria, sulla percezione e sul linguaggio. Diverso è il caso della psicoanalisi: qui c’è un soggetto che conosce un altro soggetto attraverso la propria soggettività. Eppure anche in questo caso, a patto di sfatare due luoghi comuni, le prospettive non sono negative.

Il primo consiste nell’invocare il principio di indeterminazione, che notoriamente implica l’influsso dell’osservatore sull’osservato, per sostenere l’impossibilità di una conoscenza oggettiva in psicoanalisi. Eppure come ho ricordato sopra, anche senza invocare la meccanica quantistica, che certamente ne rappresenta l’esempio più significativo, l’epistemologia contemporanea ha da tempo rinunciato all’ideale positivistico dell’oggettività assoluta. Chi si richiama a tale principio sembra concepire il mondo descritto da questa teoria, e per analogia l’interazione (in questo caso a due vie) che si realizza nella situazione analitica, come una sorta di caos primigenio da cui non può essere estratta alcuna regolarità. Ma se l’analogia è fondata le conclusioni sono esattamente quelle opposte: a non poter essere conosciuto è il «destino» della singola particella, ma le leggi della meccanica quantistica sono di tipo statistico e come tali sono le più riccamente e precisamente confermate della fisica.

Esiste poi la radicata convinzione che ciò che avviene nella seduta psicoanalitica, che è la sorgente e il banco di prova dei modelli psicoanalitici, appartenga a una dimensione soggettiva e non possa essere «oggettivato». La psicoanalisi viene vista come incompatibile con la scientificità in quanto connotata da una intrinseca e ineffabile dimensione soggettiva attraverso la quale l’analista coglie il paziente. Anche questa è tuttavia una tesi molto discutibile: a parte il fatto che l’analista entra nella situazione analitica anche con le proprie competenze teoriche e tecniche, cosa sono le storie cliniche, le relazioni e le discussioni dei casi se non delle forme di oggettivazione, ossia di condivisione intersoggettiva delle proprie esperienze cliniche? Se si fosse realmente convinti della non trasmissibilità dell’esperienza analitica non esisterebbero i case report, le supervisioni e intervisioni che hanno finora contribuito in modo fondamentale alla trasmissione della psicoanalisi. È vero che le storie cliniche sono esposte a diversi pericoli di distorsione conscia e inconscia (Vigna Taglianti, 2018), ma perché allora non provare ad aumentarne l’attendibilità scientifica? Ad esempio adottando nella scrittura dei casi criteri come quelli proposti a suo tempo da Edelson (1986), che permettano di migliorare le possibilità di valutazione critica del sostegno dato dal materiale clinico alle ipotesi proposte. Dato che già «oggettiviamo», perché non provare a farlo meglio? La ricerca sul «metodo dei tre livelli» di osservazione clinica attualmente in corso nella Spi, qualora adeguatamente integrata con il metodo della assiomatizzazione dei modelli, sarebbe un altro importante passo in questa direzione (Mattana, 2020).

Bibliografia

Eagle M.N. (2011). Da Freud alla psicoanalisi contemporanea. Milano, Raffaello Cortina, 2012. 

Edelson M. (1986). Il valore probatorio dei dati clinici dello psicoanalista. In Grünbaum A. (1986). Psicoanalisi. Obiezioni e risposte. Roma, Armando, 1988.

Egidi R. (a cura di) (1992). La svolta relativistica nell’epistemologia contemporanea. Milano, Angeli.

Freud S. (1915). Pulsioni e loro destini. O.S.F., 8.

Enciclopedia Garzanti di Filosofia (2004). Vol 14, A-M. Milano, Garzanti.

Greenberg J. R., Mitchell S. A. (1983). Le relazioni oggettuali nella teoria psicoanalitica. Bologna, Il Mulino, 1986.

Habermas J. (1967). Logica delle scienze sociali. Bologna, Il Mulino, 1970.

Kuhn T. S. (1962). La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Torino, Einaudi, 1969.

Mattana G. (2020). Il confronto fra modelli e la scientificità della psicoanalisi. Rivista di Psicoanalisi, 3, 739-749.    

Misra P. (2016). The scientific status of psychoanalysis. Evidence and confirmation. London, Karnac.

Napolitano, F. (2011). Una doverosa replica in difesa del metodo. Rivista di Psicoanalisi, 1, 197-209.

Popper K. R. (1969). Scienza e filosofia: problemi e scopi della scienza. Torino, Einaudi.   

Riolo F. (a cura di) (2021). Teorie psicoanalitiche a confronto. Un’indagine assiomatica. Rivista di Psicoanalisi, 4, Numero Monografico.

Vigna-Taglianti M. (2018). I gruppi di ricerca sulle trasformazioni nel processo analitico. Rivista di Psicoanalisi, 2, 239-52.

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