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Psicoanalisi e Depressione. Ricerca Empirica e Questioni Metodologiche. Gabriella Giustino e Giorgio Mattana

31/10/18
Psicoanalisi e Depressione. Ricerca Empirica e Questioni Metodologiche. Gabriella Giustino e Giorgio Mattana

Psicoanalisi e Depressione – Ricerca Empirica e Questioni Metodologiche

 

La contrapposizione fra lo sguardo clinico dell’analista e i risultati della ricerca empirica su esito, processo e fattori terapeutici in psicoanalisi è forse più apparente che reale e risulta superabile con alcune semplici considerazioni metodologiche. Si afferma spesso che gli studi empirici si concentrano sulla dimensione sintomatica, come è senza dubbio per lungo tempo avvenuto e come spesso tuttora avviene, penalizzante per la psicoanalisi e non centrale ai suoi obiettivi terapeutici. Si trascura tuttavia che, a partire dalle molto pertinenti considerazioni freudiane in materia, pur non essendo un trattamento sintomatico risolutivo, data la precarietà e reversibilità della soppressione/riduzione del sintomo in assenza dell’eliminazione della sua causa, è ciò nondimeno difficilmente immaginabile che quest’ultima non debba avere conseguenze anche a livello del sintomo che ne è l’effetto. In termini freudiani, se è vero che il sintomo può essere temporaneamente soppresso o ridotto senza risolvere il conflitto che ne è alla base (e lo stesso dicasi per le etiologie da trauma e/o deficit ambientale), è altrettanto vero che la risoluzione del conflitto, o la riparazione dei traumatismi e delle carenze ambientali, non possono non avere un riscontro anche a livello di quelle loro manifestazioni che sono i sintomi. Occuparsi di questi ultimi dunque, ai fini dell’accreditamento della psicoanalisi come strumento terapeutico, è tutt’altro che inutile, non è certamente sufficiente, ma è sicuramente necessario.

Non solo, ma poiché le ricerche esistenti, in ritardo di svariati decenni sulle cosiddette terapie evidence-based, in primo luogo quella cognitivo-comportamentale, attestano inequivocabilmente un’efficacia della psicoanalisi anche a livello sintomatico, esse non possono non contribuire a rafforzare l’identità e l’immagine pubblica della disciplina. Esistono inoltre oggi strumenti d’indagine, messi a punto da ricercatori di matrice psicoanalitica, capaci di evidenziare i cambiamenti che avvengono nelle dimensioni più propriamente psicoanalitiche della struttura della personalità, delle relazioni oggettuali interne ed esterne, della mentalizzazione e dell’assetto difensivo. Tali sviluppi sono un esempio e una conferma della convinzione di Eagle e Wolitzky (2011), i quali affermano che il modo migliore di affrontare i limiti della ricerca è farla meglio. Contrapporre lo sguardo clinico alla ricerca empirica diviene sempre più artificioso, mentre particolarmente feconda e promettente appare la collaborazione delle due prospettive, nella consapevolezza che nessuna di esse può essere assolutizzata, poiché è sempre possibile che al ricercatore sfuggano importanti indici colti dal clinico e che quest’ultimo incorra in biases che solo il primo può vedere.

La rilevanza della ricerca empirica per l’identità e l’immagine pubblica della psicoanalisi è particolarmente evidente nel caso di un disturbo ad alto impatto sociale e di ampia risonanza emotiva come la depressione. Al grande pubblico deve naturalmente essere spiegato che le ricerche si riferiscono alla depressione in senso clinico, non a quel concetto passepartout che viene spesso invocato per spiegare tutta una serie di atti e comportamenti, specie se anomali ed eclatanti, che frequentemente vanno invece attribuiti ad altre condizioni patologiche. La depressione in senso specifico, cioè come disturbo dell’umore, costituisce una delle più serie emergenze sanitarie, sociali ed economiche del mondo contemporaneo. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel mondo ne sono affette circa 350 milioni di persone, con un incremento che supera il 18% tra il 2005 e il 2015. Nel 2020 sarà la seconda malattia più diffusa subito dopo le patologie cardiovascolari. Ne esistono, com’è noto, forme di maggiore o minore gravità, croniche o temporanee, associate o meno ad altri disturbi psichici o somatici, tutte in grado maggiore o minore invalidanti sul piano relazionale, affettivo, sociale e professionale.

Nel trattamento della depressione alla psicoanalisi spetta da sempre un ruolo d’elezione: la sua specificità rispetto ad altri approcci, come la psichiatria, consiste nel non limitarsi ad elencarne i sintomi, ma nel fornirne una spiegazione psicologica, ricostruendone il senso, l’origine e il significato per la persona che ne soffre. Essa distingue, in sintesi, due forme di depressione: quella melanconica (già individuata da Freud insieme ai problemi legati al lutto), consistente nel rivolgimento contro di sé di antiche delusioni e frustrazioni «ambientali», con conseguenti idee di colpa e fallimento, e quella da disturbo del Sé (evidenziata da Winnicott), cioè originata da ostacoli nello sviluppo dell’identità personale. Quest’ultima è particolarmente diffusa ai nostri tempi e in giovane età. Anche la depressione associata ai disturbi di personalità (tipo borderline) si giova dei trattamenti psicoanalitici e diversi studi ne dimostrano la maggiore efficacia (Gunderson, 2009) rispetto ad altri trattamenti psicoterapici. Alla luce di questi dati, non possiamo non notare con preoccupazione che in Italia negli ultimi anni risulta triplicata l’assunzione di psicofarmaci (non associata a terapie della parola), e non possiamo non ribadire l’importanza della psicoanalisi/psicoterapia psicodinamica per un trattamento efficace e sensato della depressione, che si configura oggi, in particolare nel nostro paese, come vera e propria malattia sociale.

I risultati della ricerca empirica permettono di affermare con sicurezza che è ormai un dato acquisito che la psicoterapia psicoanalitica o psicodinamica, cioè la psicoterapia basata sui concetti e i metodi della psicoanalisi, ma caratterizzata da una minore frequenza e durata di trattamento, rappresenta una cura efficace della depressione. Nell’insieme, le ricerche mostrano che le «terapie della parola» sono il trattamento più efficace della sintomatologia depressiva, in associazione o meno con una cura farmacologica, la cui efficacia terapeutica resta comunque inferiore a quella della psicoterapia. Gli studi sperimentali, condotti con campioni di pazienti trattati confrontati con gruppi di controllo non trattati, si sono tradizionalmente concentrati sulle psicoterapie non psicoanalitiche, come la terapia cognitivo-comportamentale, più agevoli da valutare in quanto esclusivamente mirate ai sintomi, ma dagli anni ottanta si sono rivolti con intensità crescente anche alla psicoterapia psicoanalitica. Nell’ambito delle «terapie della parola», è stato dimostrato che quest’ultima, basata sull’esplorazione dei conflitti e delle fantasie inconsce, non solo garantisce una significativa remissione dei sintomi depressivi, come tristezza, pianto, sconforto, anedonia (incapacità di provare piacere), idee ossessive di colpa e fallimento, ma anche un miglioramento complessivo della qualità della vita e delle relazioni dei pazienti.

Una valida rassegna sull’argomento è contenuta, insieme ad altri temi, in Levy R. A., Ablon J. S. e Kächele H. (Eds.) (2012). Come documentano gli autori, gli studi si sono prevalentemente orientati sulla psicoterapia psicoanalitica breve, ma sono attualmente in corso sofisticati disegni di ricerca volti a convalidare le più ampie e profonde trasformazioni perseguite dai trattamenti psicodinamici a lungo termine. Non mancano nemmeno i disegni di ricerca sulla terapia psicoanalitica vera e propria, che a causa dell’alta frequenza e della durata del trattamento sono di più difficile realizzazione e dunque ancora troppo scarsi, ma che rappresentano indubbiamente l’obiettivo più ambizioso dei ricercatori di matrice psicoanalitica. Non si può si può non citare al riguardo l’importante studio comparativo fra psicoanalisi e terapia cognitivo-comportamentale nel trattamento della depressione cronica avviato da Leuzinger-Bohleber M., Kallenbach L. e Schoett M.J.S. (2016).

Non solo la psicoterapia psicodinamica, diretta discendente della psicoanalisi, può rivendicare sulla scena pubblica il titolo di terapia efficace della depressione, ma come mostra Shedler (2012) è possibile altresì dimostrare che molto spesso nelle terapie evidence-based, in primo luogo la terapia cognitivo-comportamentale, agiscono sotto mentite spoglie tecniche di tipo fondamentalmente psicoanalitico. Non è assolutamente un caso, da questo punto di vista, che i terapeuti di tale orientamento si siano spesso sottoposti nella loro formazione a trattamenti di tipo psicoanalitico. Esiste inoltre – continua Shedler – un vero e proprio bias della pubblicazione, ovvero una diffusa tendenza accademico-sanitaria a omettere dalle citazioni e dalle bibliografie le ormai numerose ricerche che attestano l’efficacia dei trattamenti psicodinamici a favore dei cosiddetti trattamenti evidence-based, probabile reazione a vecchi atteggiamenti di arroganza e disprezzo psicoanalitico per la ricerca empirica. La percentuale di miglioramento mostrata dalle suddette terapie, inoltre, sebbene statisticamente significativa (efficacy), è spesso clinicamente ben poco rilevante (effectiveness), come risulta da una lettura attenta dei risultati di questi studi. Colli (2012) afferma al riguardo che «la riduzione media al punteggio totale del Beck Depression Inventory risulta essere di circa 10 punti. Tuttavia considerando che nelle popolazioni cliniche il punteggio medio iniziale è di circa 21.8 (dunque appena al di dentro di un livello moderato di depressione) e che nella popolazione generale il punteggio medio è di circa 4.9, forse il cambiamento che queste terapie hanno ottenuto, sebbene risulti statisticamente significativo, non lo è dal punto di vista clinico» (p. 69). Le promesse implicite nell’etichetta evidence-based nascono dunque dall’indebita sovrapposizione fra significatività statistica, clinicamente molto modesta, e reale significatività clinica. Molto efficacemente Taylor (2012) nota come dopo una delle suddette terapie sintomatiche brevi, un paziente in una «buona giornata» si sentirà mediamente più depresso di una persona non depressa in una «pessima giornata».

Mancano ancora sufficienti studi empirici sui risultati del trattamento psicoanalitico vero e proprio, ma i risultati della terapia psicodinamica a breve e a lungo termine sono  incoraggianti: a una percentuale di miglioramento sintomatico analoga a quella dei trattamenti cognitivo-comportamentali si aggiunge una maggiore stabilità dei risultati, la tendenza a migliorare dopo la conclusione della terapia e il cambiamento nelle dimensioni al centro dell’indagine e della cura psicoanalitica. I disegni di ricerca sul trattamento psicoanalitico, in condizioni di depressione o di altri disturbi, a partire da quello attualmente in fase di definizione presso la SPI, tendono a privilegiare un approccio «naturalistico» rispetto a quello «sperimentale», classicamente rappresentato dai CRT (Controlled Randomized Trials), che prevedono il confronto fra un gruppo sperimentale trattato e un gruppo di controllo non trattato. Concepiti per garantire l’attendibilità del nesso fra terapia e risultati («validità interna»), gli studi CRT, generalmente limitati alla dimensione sintomatica, possiedono tuttavia una limitata «validità esterna», sono cioè poco rappresentativi delle reali condizioni di svolgimento dei trattamenti. Tanto per fare un esempio, come osserva Shedler (2015) la selezione dei soggetti esclude a priori mediamente due terzi della popolazione che generalmente si rivolge a un terapeuta, non includendo nello studio le diagnosi miste, i soggetti con disturbi della personalità, in qualche modo instabili o a rischio suicidario. Gli studi «naturalistici», viceversa, non prevedono l’assegnazione casuale dei pazienti al gruppo sperimentale e a quello di controllo, cosa che generalmente comporta un’ulteriore selezione degli stessi, limitandoli a popolazioni come i soggetti ospedalizzati o gli studenti universitari. Le ricerche vertono pertanto su un campione di pazienti più realistico, seguito per un tempo prolungato e valutato rispetto al cambiamento non solo sintomatico, ma anche nella struttura della personalità, nelle relazioni oggettuali interne ed esterne, nella mentalizzazione e nell’assetto difensivo. Tali studi, come notano Lingiardi e Del Corno (2015), inizialmente criticati per la loro presunta scarsa «validità interna», ossia per il modesto controllo dei fattori esterni alla terapia che ne possono influenzare l’esito, si stanno ultimamente adeguando a standard di rigore sempre più raffinati e complessi, acquisendo credenziali soddisfacenti anche sotto questo profilo.

 

Colli A. (2013). La ricerca empirica in psicoanalisi e psicoterapia dinamica può essere utile alla pratica clinica svolta nei servizi di salute mentale? Psiche, Vol.1, 1-10.

Eagle M.N., Wolitzky D.L. (2011). Systematic empirical research versus clinical case studies: a valid antagonism? Journal of the American Psychoanalytic Association, 59 (4). 791-817.

Gunderson J.G (2003). La personalità borderline. Una guida clinica. Milano, Cortina, 2009.

Leuzinger-Bohleber M., Kallenbach L. e Schoett M. J .S., «Pluralistic approaches to the study of process and outcome in psychoanalysis. The LAC depression study: a case in point». Psychoanalytic Psychoterapy, 30, 1, 4-22, 2016, DOI: 10.1080/02668734.2015.1107123.

Levy R. A., Ablon J. S. e Kächele H. (Eds.) (2012). La psicoterapia psicodinamica basata sulla ricerca. Milano, Cortina, 2015.

Lingiardi V., Del Corno D. (2015). Prefazione all’edizione italiana di Levy R. A., Ablon J. S. e Kächele H. (2015).

Shedler J. (2012). L’efficacia sperimentale della psicoterapia psicodinamica. In Levy R. A., Ablon J. S. e Kächele H. (Eds.) (2012).

Shedler J. (2015). Where is the evidence for «evidence-based» therapy? The Journal of Psychological Therapies in Primay Care, vol. 4, 47-59.

 

Taylor D. (2012). Psychoanalytic and psychodynamic therapies for depression. In R.A. Levy, J.S. Ablon, H. Kächele (Eds.) (2012). Psychodynamic psychotherapy research: Evidence based practice and practice based evidence. New York, Humana Press. [Non presente nell’edizione italiana].

 

Gabriella Giustino e Giorgio Mattana

 

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