Migone P. (2013). Intervista sul rapporto fra clinica e ricerca in psicoterapia
Il 23 Marzo 2013 si è svolto a Milano un Convegno dal titolo “Quale scientificità per la psicoanalisi? Ricerca e valutazione“, organizzato dall’Associazione di Psicoterapia Psicoanalitica di Gruppo (APG) con la partecipazione di Davide Cavagna, Renato De Polo, Paolo Migone, Mauro Fornaro, Paolo Fabozzi, Vincenzo Bonaminio e Fabrizio Palombi.
In occasione del Convegno abbiamo rivolto alcune domande a Paolo Migone sul tema della ricerca empirica in psicoterapia.
Paolo Migone è condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane e, tra le altre cose, ha fondato la sezione italiana della Society for Psychotherapy Research (SPR) ed è coordinatore del Rapaport-Klein Study Group, un gruppo formato dagli ex-allievi di David Rapaport e George S. Klein che dal 1963 si riunisce annualmente all’Austen Riggs Center (Stockbridge, Massachusetts) per discutere, nella tradizione di Rapaport, di teoria psicoanalitica e verifica empirica delle ipotesi psicoanalitiche.
Intervista a cura di M.Ponsi
A fronte di una maggiore pressione sociale e culturale che chiede evidenze sull’efficacia delle psicoterapie e a fronte di una notevole crescita, quantitativa e qualitativa, degli studi empirici, i clinici tornano a interrogarsi da una parte sulla possibilità di generalizzare le osservazioni sviluppate nel contesto clinico e dall’altra sul valore per la clinica di studi condotti con metodologie diverse. C’è indubbiamente un divario fra questi due ambiti di conoscenza. E’ possibile fra di essi un dialogo, un interscambio, un confronto che porti a costruire una conoscenza unitaria?
Queste sono le domande centrali che tutti ci poniamo quando osserviamo il movimento di ricerca in psicoterapia, molto vivo anche all’interno della psicoanalisi. Quando nel 1996 io e alcuni colleghi fondammo la sezione italiana della Society for Psychotherapy Research (SPR) non prevedevamo assolutamente l’espansione che avrebbe avuto questa associazione e la crescita di tanti gruppi di lavoro nel nostro Paese. Già questo è un fenomeno interessante, su cui riflettere. A me comunque quello che interessava non era tanto fare concretamente ricerca (che è un processo lungo, faticoso, occorre avere un istituto universitario alle spalle, finanziamenti, ecc.), quanto proprio approfondire queste domande che tu poni, e capire meglio cosa vuole dire verificare il processo terapeutico, cosa e come misurare, i problemi teorici insomma che vi sono dietro. Nel rispondere a questa prima domanda farò alcune riflessioni libere, e riprenderò parti di lavori precedenti (Migone, 1998, 2004c, 2008a, 2011), ovviamente senza la pretesa di risolvere una volta per tutte le complesse questioni implicate ma suggerendo alcune indicazioni almeno sul modo con cui, dal mio punto di vista, potrebbero essere impostati i problemi. Alla fine di questa mia intervista allego anche un bibliografia che può servire per ulteriori approfondimenti.
Incomincio col raccontare un aneddoto che mi è venuto in mente. Il 5-6 aprile 1991 fu tenuta a Londra la First IPA Conference on Psychoanalytic Research, il primo convegno ufficiale dell’International Psychoanalytic Association (IPA) dedicato alla ricerca empirica in psicoanalisi. Questo convegno, che da allora si è ripetuto ogni anno, era un modo con cui l’IPA cercava di rispondere alla crescente esigenza di ricerca presente nella disciplina, e lo faceva con un notevole ritardo, più che altro costretta dalla crescente crisi della immagine sociale della psicoanalisi e dai dubbi sui suoi risultati terapeutici. Le richieste di accountability e le pressioni economiche da parte delle agenzie governative e case assicuratrici (e poi anche dalla managed care) minacciavano la sopravvivenza della psicoanalisi, considerata troppo costosa e meno efficace di altre tecniche terapeutiche più brevi e soprattutto già testate empiricamente. L’establishment psicoanalitico non poteva più continuare ad arroccarsi nello “splendido isolamento” che lo aveva caratterizzato per buona parte del secolo, e giocoforza doveva prendere atto che era costretto a confrontarsi ufficialmente con la questione dell’efficacia e produrre prove documentabili da sottoporre alla attenzione della comunità scientifica. Già dagli anni 1970 alcuni gruppi di lavoro avevano lavorato per progettare importanti strumenti di ricerca (si pensi solo alla scuola di Filadelfia, guidata da Luborsky [1984], che aveva prodotto il primo manuale di terapia psicoanalitica per la ricerca, uscito come dattiloscritto nel 1976 [Migone, 1990]), ma fu solo dagli anni 1990 che l’IPA, sopratutto dietro la spinta della presidenza Kernberg, incluse la ricerca empirica tra gli obiettivi prioritari della propria agenda.
Ebbene, ricordo che in occasione di quel convegno una nota analista (Pearl King), membro della vecchia guardia dell’establishment psicoanalitico londinese, dall’uditorio intervenne per dire che lei non riusciva a capire come mai vi fosse improvvisamente bisogno di parlare di ricerca in psicoanalisi. La sua obiezione era che l’analista fa sempre ricerca; come più volte disse Freud, lo stesso atteggiamento analitico è quello della ricerca, la quale è ipso facto collegata alla terapia (il famoso junktim freudiano, il «legame molto stretto fra terapia e ricerca» [Freud, 1927, p. 422]).
Ho voluto iniziare con questo aneddoto per accennare subito a un noto equivoco riguardo al significato di ricerca in psicoterapia, equivoco che, come vedremo, è direttamente collegato a un altro annoso problema, quello del dibattito sul modello di scienza utilizzato in questo campo.
Cominciamo dunque a chiarire il significato di questa parola : ‘ricerca’. Gli psicoanalisti in effetti, come mostra l’aneddoto da te citato, sono abituati a pensare che nella loro pratica clinica la dimensione della ricerca sia sempre presente, che clinica e ricerca siano fra loro inestricabilmente legate. Quando si parla di <Ricerca e Psicoanalisi> ci si riferisce dunque a un altro tipo di ‘ricerca’?
Per ricerca in psicoterapia non si intende “ricerca clinica”. In genere la “ricerca clinica” si riferisce a un tipo di osservazioni soggettive e di ipotesi fatte dal terapeuta all’interno della situazione clinica. Il terapeuta può condividere queste sue osservazioni con colleghi o in gruppi di studio, può anche fare previsioni e attendere quelle che lui ritiene possibili conferme. Può scrivere articoli su queste osservazioni, e alcune delle sue ipotesi potranno poi essere sottoposte a verifica sperimentale in studi condotti con altre metodologie, diverse da quelle della ricerca clinica. Queste altre metodologie appartengono appunto a quella che viene ormai comunemente chiamata ricerca “empirica”, “sperimentale”, o “ricerca in psicoterapia” tout court.
Tu dunque differenzi la ricerca clinica come la intendeva Pearl King, e come tuttora la intende una gran parte dei clinici, dalla ricerca che utilizza metodologie specifiche, diverse dal metodo clinico. Si ha l’impressione che questi due ambiti siano nettamente separati. Quali sono le caratteristiche della ricerca cosiddetta ‘empirica’?
Alcune delle sue caratteristiche sono le seguenti. Innanzitutto, per utilizzare un termine che negli ambienti psicoanalitici è divenuto di uso corrente soprattutto dopo la critica filosofica di Grünbaum alla psicoanalisi (1984; vedi Migone, 1989a, 1995), queste metodologie sono anche “extra-cliniche”, non solo “intra-cliniche”. Ciò significa che poggiano su un armamentario tecnico e su osservazioni anche di osservatori (o giudici) indipendenti, esterni e a volte “ciechi” rispetto alla terapia studiata, i quali possono compilare scale di misurazione basandosi sulla osservazione del videoregistrato di sedute scelte a caso. Queste rating scales, che necessariamente sono standardizzate, possono riguardare vari aspetti: la diagnosi (che non è altro che un modo di fare osservazioni utilizzando un determinato sistema che va specificato, per cui esistono diversi metodi diagnostici), la dimensione del cambiamento rispetto a uno stato precedente, la possibilità che il miglioramento (o il peggioramento) possano essere stati causati da eventi esterni alla terapia (cioè da “eventi di vita” [life events]), il grado di “aderenza” del terapeuta a un determinato manuale di psicoterapia che eventualmente si era impegnato a seguire (questo gradiente di aderenza al manuale può essere correlato ad altri aspetti del processo della terapia, oppure al risultato), e così via. Non solo, ma questi ricercatori esterni possono anche fare studi epidemiologici su situazioni in qualche modo paragonabili ad esse, per cercare conferme indirette di determinate ipotesi (tipico a questo riguardo è l’esempio del rapporto tra paranoia e omosessualità postulato da Freud [1910, 1915] a partire dalle sue ricerche cliniche, rapporto che secondo Grünbaum [1984] può essere indagato anche con ricerche epidemiologiche, cioè extra-cliniche). Infine, e quest’ultimo è uno degli aspetti più significativi, i dati raccolti devono essere sempre sottoposti ad una indagine di significatività statistica.
Come si vede da questi esempi, la ricerca “extra-clinica” è dunque ben diversa da quella clinica per il fatto che usa tecnologie sofisticate che il clinico non usa, e compie valutazioni quantitative, in genere su campioni di molti soggetti che poi vengono sottoposte a indagini statistiche. Queste valutazioni sono poco intuitive o “soggettive” ma, come si suol dire, “oggettive” (termine che a rigore è improprio, perché non si riferisce ad una supposta “verità” o a una maggiore aderenza alla realtà, quanto solamente al grado di maggiore concordanza tra più osservatori; come più volte disse lo stesso Freud, la realtà come tale è e sarà sempre inconoscibile, noi vediamo solo quello che ci è consentito dai nostri più o meno limitati strumenti di osservazione).
Chiarito dunque come sono diversi questi due tipi di ricerca, ci illuderemmo grandemente se pensassimo di aver risolto tutti i problemi. Anzi, si può dire che i veri problemi incomincino proprio qui. Infatti potremmo chiederci, come tu chiedevi all’inizio: come si rapportano tra loro questi due tipi di ricerca? Sono due livelli di investigazione scientifica che si collocano su piani diversi, inconciliabili tra loro, oppure sono inseriti all’interno di un unico sistema gerarchico? E inoltre: come mai vi è l’esigenza di fare ricerca cosiddetta extra-clinica o empirico-quantitativa? Non potrebbe bastare la tradizionale ricerca clinica per guidare il terapeuta nelle sue scelte, soprattutto in un campo così complesso e poco “obiettivabile” come quello della psicoterapia?
Si tocca qui un punto centrale. Non è questo un problema di fondo, direi anche filosofico?
Certo, infatti dietro a queste domande si nascondono annosi problemi dibattuti ampiamente nel corso del XX secolo e sui quali non vi è ancora un consenso unanime. Come ho detto prima, non ho certo la pretesa qui di risolvere questi problemi sui quali schiere di filosofi ed epistemologi ancora si confrontano. Mi limito ad alcune brevi riflessioni.
Si può dire che gli annosi problemi che stanno dietro alla dicotomia tra i due tipi di ricerca prima accennati sono, in misura più o meno diversa, riflessi anche in altre ben note dicotomie che hanno attraversato tutta la storia della filosofia di questi ultimi secoli. Innanzitutto vi è la dicotomia, attribuita a Dilthey, delle “due scienze”, le scienze naturali (Naturwissenschaften) e le scienze dello spirito (Geisteswissenschaften), queste ultime dette anche umane o storiche (Rickert le ha chiamate Kulturwissenschaften, e Windelband Geschichte). Parallela a questa dicotomia vi è quella tra “spiegare” (Erklären) e “comprendere” (Verstehen), e anche tra “cause” e “ragioni” di un comportamento. Questa problematica è stata ripresa dall’ermeneutica, che si è affacciata nel dibattito psicoanalitico negli anni 1970 negli Stati Uniti (gli psicoanalisti ermeneuti più noti erano Schafer [1976, 1992] e Spence [1982, 1987], sulla scia di alcuni filosofi europei, essenzialmente Ricoeur [1965] e Habermas [1968]). Un’altra dicotomia che per certi versi ricalca le precedenti è quella tra ricerca “quantitativa” e ricerca “qualitativa”, e un’altra ancora, forse ancor più nota, è quella tra scienze “nomotetiche” e “idiografiche”, proposta da Windelband. Le scienze nomotetiche mirerebbero a costruire leggi astratte generalizzabili (nomos significa “legge”), e quindi a rendere possibile prevedere il manifestarsi di certi fenomeni (tipicamente, nomotetiche sarebbero le scienze naturali), mentre le scienze idiografiche studierebbero quei fenomeni unici (idios significa “particolare”, idiosincratico appunto), irripetibili (un tipico esempio è lo studio della personalità, o, appunto, della psicoterapia), per i quali i metodi delle scienze nomotetiche non solo non troverebbero facile applicazione, ma addirittura impedirebbero di vedere il nuovo, di scoprire fenomeni mai osservati prima, accecate come sono dai propri limitati metodi di osservazione. Con una approssimazione, si può dire che i metodi di ricerca nomotetici rischiano di scoprire solo quello che si sa già, mentre quelli idiografici, anche se poco attendibili, possono a volte condurre a scoperte inaspettate.
Entriamo insomma in una questione di vasta portata, che va ben al di là – anche se certamente sta sotto – alla domanda che ci si poneva sulla possibilità di un dialogo, o meglio di cooperazione, fra i due ambiti conoscenza: la questione è quella della concezione che abbiamo di scienza.
Infatti, a ben vedere, la complessa questione che sta dietro a queste dicotomie riguarda la stessa concezione di scienza, e precisamente è la seguente: la scienza deve caratterizzarsi per il suo metodo, oppure per il suo campo di applicazione? Nel primo caso, esisterebbe un unico metodo (detto appunto scientifico) col quale cerchiamo di avvicinarci ai vari oggetti di studio. Dato che il metodo rimane sempre lo stesso, esso potrebbe adattarsi meglio a certi campi piuttosto che ad altri. Come sostengono alcuni critici di questa concezione di scienza, il metodo scientifico classico (caratterizzato da sperimentazione, predizione, replicabilità, ecc.) si presterebbe meglio allo studio dei fenomeni “naturali” (ad esempio fisici) che allo studio della soggettività (non si dimentichi però che una replicabilità perfetta non avviene neppure in fisica; vedi Bersani, 2008; Migone, 2008a). Nello studio della soggettività le troppe e complesse variabili in gioco rendono difficile utilizzare il metodo scientifico tradizionale; inoltre le scienze del comportamento a volte impiegano modalità di indagine di carattere piuttosto globale e non facilmente scomponibili, come ad esempio la introspezione, l’intuizione, l’empatia, ecc. Se – continuano i critici di questo metodo – si forza l’osservazione dei dati delle scienze umane attraverso le lenti di questo metodo, si rischia di snaturarli, o di perdere qualcosa che forse costituisce l’essenza stessa del fenomeno che vogliamo studiare (un esempio può essere rappresentato dal comportamentismo, che infatti, anche secondo molti di quelli che erano i suoi stessi sostenitori, ha mostrato i suoi limiti come forma di psicoterapia). Ne risulterebbe una immagine riduttiva della realtà, distorta o addirittura sbagliata.
Nel secondo caso, cioè se adottiamo una concezione di scienza secondo la quale è il metodo che deve adattarsi al campo di osservazione e non viceversa, avremmo molti metodi “scientifici”, più “scienze”, col risultato che si riproporrebbero le dicotomie di cui si parlava, e si creerebbe una frammentazione della conoscenza, con complesse implicazioni, alcune delle quali appunto sono quelle che stiamo qui discutendo.
E quale è la tua posizione a questo riguardo?
Dicevo prima che non mi propongo certo di dirimere queste questioni, ma solamente di fornire alcuni spunti di riflessione. Ritengo che si possa dire che negli ultimi decenni, grazie anche ad una maggiore conoscenza delle caratteristiche stesse del metodo scientifico (anche da parte di molti filosofi, che ne avevano mantenuto una concezione astratta, poco aggiornata e non calata nella pratica della ricerca scientifica concreta), sia avvenuta una sorta di rimescolamento di carte rispetto a queste dicotomie, nel senso che esse non sono più nette e chiare come una volta. È sempre più diffusa ad esempio la convinzione che la contrapposizione nomotetico/idiografico sia una falsa dicotomia, originata da una reazione romantica nei confronti di una concezione di scienza ottocentesca ormai superata. È questa ad esempio la posizione presa da Holt, uno psicoanalista ricercatore, poi successore di Rapaport, in un lavoro da lui scritto già del 1962 in cui criticava la legittimità del metodo idiografico, giudicandolo inconsistente. Allora Holt era reduce da anni di stretta collaborazione con Gordon Allport, che era uno dei suoi maestri e che era un forte sostenitore del metodo idiografico in personologia. Holt, scontrandosi col suo maestro, era giunto alla conclusione che appena solamente osserviamo e descriviamo idiograficamente un fenomeno, subito automaticamente utilizziamo (anche preconsciamente) determinate categorie concettuali che già non appartengono più a questo metodo. Senza queste categorie non potremmo neppure comunicare ad altri le nostre impressioni. Il metodo idiografico avrebbe dunque secondo Holt finalità solo artistiche, non scientifiche, in quanto si limita alla comprensione e non alla predizione e al controllo (per un approfondimento, vedi Holt, 1989, capitoli 12 e 13; vedi anche Holt, Kächele & Vattimo, 1994).
Per tornare ora alla ricerca in psicoterapia, vuoi quindi dire che la differenza tra ricerca clinica ed extra-clinica scompare?
No, se vi è stato un rimescolamento di carte tra alcune delle dicotomie prima citate non vuol dire assolutamente che la differenza tra ricerca clinica ed extra-clinica scompaia, o che la ricerca clinica vada abbandonata in favore solo di una ricerca empirico-quantitativa. Tutt’altro: sarebbe un enorme errore trascurare, come purtroppo fanno molti programmi di ricerca e riviste scientifiche, gli studi clinici sul caso singolo. Essi hanno una enorme importanza euristica, e in alcuni casi hanno anche il potere di falsificare determinate ipotesi. Non dimentichiamo che buona parte delle ipotesi psicoterapeutiche di questo secolo sono originate da un numero di casi clinici che si contano con le dita di una mano, studiati approfonditamente da Freud, Binswanger e altri. Le conclusioni tratte dallo studio del caso singolo non vanno comunque generalizzate impropriamente. Ha osservato infatti polemicamente Paul Meehl (1995), uno dei più acuti metodologi che ha avuto la fortuna di avere anche una ricca esperienza clinica in psicoanalisi:
«Dobbiamo con tutta onestà renderci conto che il “metodo di studio sul caso singolo” e la “esperienza clinica” sono semplicemente delle etichette onorifiche per quello che nel campo della psicologia comparata è stato denigrato come “metodo aneddotico”. La “esperienza clinica” è una definizione applicata allo screditato metodo aneddotico quando è praticato da una persona laureata in medicina o in psicologia» (p. 1017, corsivi nell’originale).
La storia sia della medicina che della psichiatria presenta innumerevoli esempi di quanto il metodo basato sulla “esperienza clinica” e sul caso singolo abbia portato a una serie di errori a volte fatali. Sappiamo dalla storia della medicina che, ad esempio, sino alla fine dell’Ottocento quasi ogni intervento dei medici del tempo era inutile se non addirittura dannoso, e nonostante ciò continuava ad essere praticato con una ricca serie di autoconferme e nel rispetto della comunità “scientifica” del tempo (Migone, 1987, 1995 cap. 6, 2001
Sapresti fare un esempio?
Si può fare l’esempio della psicochirurgia, i cui successi furono vantati da una generazione di psichiatri e neurologi, nonché da infermieri, familiari e pazienti stessi, tutti convinti della sua straordinaria efficacia, tanto che nel 1949 al suo inventore, Egas Moniz, fu addirittura assegnato il premio Nobel. Ma grande fu l’imbarazzo della comunità scientifica quando i progressi delle ricerche fecero scomparire la pratica della psicochirurgia dalla sera alla mattina (vedi Pressman, 1998): emerse chiaramente che i vantati successi terapeutici erano autoinganni, basati su osservazioni soggettive prive di una rigorosa metodologia e di controllo indipendente. Del resto non vi è da stupirsi, se si pensa che il primo studio controllato randomizzato (Randomized Controlled Trial [RCT]) pubblicato fu lo studio del Medical Research Council sulla streptomicina per la tubercolosi del 1948, quindi in epoca molto recente. In determinati paesi e culture, metodi dannosi o inutili hanno continuato ad essere usati per secoli o millenni (si pensi solo al salasso). Non si capisce perché questo non possa accadere anche per la psicoterapia. È stato solamente con la generalizzazione delle conquiste della rivoluzione scientifica che si è fatto un drastico salto di qualità nella individuazione delle terapie più efficaci, portando ad un debellamento di molte malattie e salvando intere popolazioni da terribili epidemie. Il metodo scientifico, basato su studi controllati, sulla indagine statistica e su precise metodologie extra-cliniche, permette quindi di avanzare nelle conoscenze, di rompere l’autoinganno quotidiano che è sempre in agguato di fronte al clinico. E paradossalmente, nella misura in cui il metodo statistico e sperimentale ci permette di aggirare, almeno parzialmente, questo autoinganno costante favorito dalle nostre aspettative inconsce, in questo aspetto esso ricorda, per così dire, il metodo psicoanalitico, perché aiuta a combattere la nostra falsa coscienza, a vedere quello che difensivamente a volte non vogliamo o non possiamo vedere.
Come si poneva Freud di fronte a questo problema?
In uno dei suoi pochi riferimenti al problema della ricerca in psicoterapia, contenuta in una lettera del 1934 allo psicologo Saul Rosenzweig che gli aveva mandato i risultati dei suoi studi sperimentali in favore della teoria della rimozione, Freud fece la seguente osservazione, citatissima:
«Caro Dottor Rosenzweig, ho esaminato con interesse i suoi studi sperimentali sulla validità scientifica delle affermazioni psicoanalitiche. Non posso dare un gran valore a queste conferme perché l’abbondanza di osservazioni attendibili sulle quali queste affermazioni riposano le rende indipendenti dalla verifica empirica. Tuttavia, esse non possono fare alcun male» (Freud, 1934, cit. in: MacKinnon & Dukes, 1964, p. 703).
Freud qui, anche se non si opponeva pregiudizialmente alla ricerca empirica, si disse convinto di una “abbondanza” di osservazioni cliniche attendibili, per cui esse risulterebbero “indipendenti” dalla verifica empirica. In un’altra occasione Freud affermò, con malcelato sarcasmo:
«Questi critici che limitano i loro studi a delle investigazioni metodologiche mi ricordano quelli che passano il loro tempo a pulire gli occhiali piuttosto che a portarli per guardare» (cit. in: Jacoby, 1983). Ma si può argomentare che Freud sottovalutasse gli autoinganni cui si accennava prima, e la possibilità che certe ricerche possano invalidare le teorie (lui stesso peraltro, coerentemente, nel corso della sua vita modificò più volte i propri modelli teorici alla luce di nuove esperienze cliniche). Qui il problema filosofico sottostante è quello dell’induttivismo, cioè della possibilità di indurre, a partire da determinate osservazioni particolari, leggi generali che ci permettono di fare previsioni attendibili su altri casi. Inutile dire che a questo riguardo vi è stato un infuocato dibattito che ha visto posizioni contrapposte, dibattito che non si può dire ancora del tutto sopito. Mi riferisco ad esempio al duro attacco di Grünbaum (1984) a Popper (1957), che qui non posso riassumere (rimando a Migone, 1995, cap. 11).
Torniamo alle “due scienze”, o meglio all’approccio al problema che, come clinici, più ci interessa: come è possibile sviluppare fra i due ambiti di conoscenza un dialogo, un interscambio, un confronto che porti a costruire una conoscenza unitaria?
La sfida è vedere se è possibile in un qualche modo colmare, come si diceva all’inizio, il solco tra ricerca clinica e sperimentale, un divario – il great divide, come una volta lo chiamai – che purtroppo separa ancora due mondi, quello dei clinici e quello dei ricercatori. Il clinico infatti spesso rifugge dalla ricerca, dice che non gli serve, non gli interessa, appartiene a un altro universo, per lui la ricerca è solo quella clinica, basata sulla sua “esperienza”, o addirittura è un’arte e così via. La difficile convivenza di questi due mondi è stata dibattuta infinite volte in convegni e nella letteratura specializzata (tra i tanti, vedi Russell, 1994; Wampold, 2001; per il dibattito in psicoanalisi, vedi Fonagy, 1999; Luyten, Blatt & Corveleyn, 2006a, 2006b; Bonaminio & Fabozzi, 2002). In Italia, ad esempio, è stato il tema degli ultimi congressi della Society for the Exploration of Psychotherapy Integration (SEPI), al cui interno abbiamo avuto accesi dibattiti su questo problema (Carere-Comes & Giusti, 2008) e, se può interessare, un lungo dibattito durato alcuni anni (Carere-Comes & Migone, 2001-03) si è concluso con netti e salutari disaccordi e, in modo interessante, le alleanze non seguivano le appartenenze di scuola ma erano trasversali ai vari approcci psicoterapeutici. Personalmente ritengo che questo great divide in qualche modo vada colmato o sia colmabile, all’insegna, solo per fare un esempio, del percorso di ricerca del gruppo di Rapaport (si vedano autori quali Rubinstein [1952-83], Holt [1989], oppure, come esempio della generazione dei più giovani membri del gruppo, Sid Blatt [2006; vedi Migone, 2007a]).
Riguardo alla questione delle “due scienze”, la mia opinione è che si debbano utilizzare entrambi i metodi di ricerca (quello clinico e quello extra-clinico, o quello “qualitativo” e quello “quantitativo”), perché, in modo complementare, contribuiscono al progresso della conoscenza. Essi corrispondono anche a due diverse modalità di funzionamento cognitivo, diversi modi con cui la nostra mente elabora le informazioni, e in quanto tali vanno altamente valorizzati. Il metodo clinico può corrispondere a una prima fase della ricerca, in cui ad esempio è indispensabile formulare ipotesi che poi possono essere testate col metodo sperimentale e statistico. Lungi da noi comunque l’idea che il metodo sperimentale rappresenti la “verità”, la quale per definizione non dovrebbe mai appartenere alla scienza (casomai il problema della verità riguarda la filosofia); la scienza, spesso anche per i suoi limitati orizzonti di indagine, dovrebbe essere caratterizzata da una grande modestia e consapevolezza della propria ignoranza, e questa è sempre stata la sua forza. Non solo, ma a ben vedere il problema della coesistenza di diverse “scienze” o metodi di indagine non esiste solo riguardo al rapporto tra ricerca clinica ed extra-clinica, poiché esiste tranquillamente già all’interno di quest’ultima, dove disponiamo di molti e diversificati metodi di ricerca, ciascuno dei quali – come argomenta Agazzi (1974, 2006) – produce o “costruisce” un proprio “oggetto scientifico”, al punto che il problema rimane uguale, si sposta solamente (per una critica ad Agazzi, vedi Fornaro, 2011).
Ad esempio, riguardo alle diverse metodologie di studio del “processo” della psicoterapia (process research) potremo chiederci: come si rapportano tra loro tutti questi metodi? Esiste un metodo “migliore” o gerarchicamente “superiore” agli altri, o che misura il “vero” processo psicoterapeutico? Studiano tutti la stessa cosa, cioè lo stesso “oggetto”, od “oggetti” diversi? Anche questa problematica, per motivi di spazio, qui non può essere approfondita, per cui rimando a un altro lavoro (Migone, 2008b). Mi limito a dire che queste domande rafforzano l’idea che non sia corretto vedere le cose in termini dicotomici (ad esempio contrapponendo la ricerca clinica a quella sperimentale), ma come un continuum di modalità diverse di conoscenza, la cui sistematizzazione (anche nel senso scientistico della “unità della scienza” cui agognavano i neopositivisti) non è facilmente risolvibile.
Non va dimenticato poi che il metodo sperimentale può anche condurre a grossi “errori” (nel senso che ulteriori ricerche possono modificare i risultati precedenti), perché vi sono vari modi di impostare una ricerca e di analizzarne i risultati. Non solo, ma ritengo che una pratica psicoterapeutica guidata unicamente dai dati di ricerca empirica disponibili oggi sia prematura, in quanto ho l’impressione che, per la complessità dei fenomeni studiati, troppi siano i dati che ancora sfuggono alla maggioranza delle ricerche in psicoterapia. Il fatto poi che qualcosa non sia stato ancora dimostrato non significa che non possa essere dimostrato in futuro, e certe revisioni della letteratura sembrano implicare che se una terapia non è stata ancora studiata ciò significa che “è già stata dimostrata inefficace”. Occorre quindi molta attenzione a non trarre conclusioni affrettate dai dati della ricerca in psicoterapia, anche perché esistono molti bias e un grosso “effetto alone” creato dal modo con cui certi dati di ricerca vengono pubblicizzati dai mass media. Inoltre va sottolineato che mentre tradizionalmente sembrava che la terapia cognitivo-comportamentale fosse superiore a tutte le altre, anche perché era la più studiata, nei tempi recenti – come Shedler (2010) ha mostrato molto bene – emerge sempre di più che invece sia la terapia psicodinamica ad essere la più efficace. Magistrale è anche la critica fatta da Westen, Morrison Novotny & Thompson-Brenner (2004) nei confronti della metodologia che ha prodotto gli elenchi degli Empirically Supported Treatments (EST) (Chambless & Ollendick, 2001), la cui logica è derivata dagli RCT della Evidence Based Medicine (EBM). Westen e collaboratori hanno dimostrato, tra le altre cose, che gli assunti su cui poggia la metodologia degli EST non sono teoricamente neutri ma rispecchiano gli assunti fondamentali della terapia cognitivo-comportamentale, per lo meno della terapia cognitivo-comportamentale degli anni 1960-70 quando questi assunti cominciarono a definire cosa poteva essere considerato un valido studio di outcome (cioè sul “risultato” della psicoterapia) e quindi a influenzare le decisioni per la pubblicazione e il finanziamento delle ricerche (e va notato che questi assunti oggi non sono più accettati, in modo anche esplicito, da molti esponenti dello stesso movimento di terapia cognitivo-comportamentale). Inoltre hanno dimostrato che gran parte di questi assunti sono empiricamente testabili ma che, paradossalmente, molti di essi non sono stati mai testati, e tra quelli testati alcuni non solo non sono supportati empiricamente, ma anche sono stati dimostrati falsi proprio sulla base della stessa ricerca empirica. Molto importante a questo riguardo è anche la polemica critica di Wachtel (2010), a cui rimando.
Riguardo al paradigma della EBM, va notato che nella misura in cui per suo esplicito statuto si propone di eliminare ogni tipo di intuizione o “esperienza clinica” ma di basarsi unicamente sulle ricerche empiriche controllate (de Girolamo, 1997), esso sembra compiere l’errore uguale e contrario del paradigma che vuole combattere: se da una parte abbiamo una pratica clinica solo intuitiva, dall’altra viene raccomandata una pratica clinica impersonale e automatizzata, senza alcuna integrazione o dialettica dei due poli e quindi con un oggettivo impoverimento della pratica clinica reale che per sua natura si basa su operazioni cognitive complesse.
Prima dicevi che neppure il concetto di replicabilità può servire a definire la scienza, perché anche in fisica non esistono esperimenti perfettamente replicabili, per cui sembra che sfugga di nuovo la possibilità di stabilire una chiara “demarcazione” tra scienza e non scienza. Puoi spiegare meglio cosa intendevi dire?
Vi è chi sostiene che la “replicabilità”, forse più di altri aspetti, contrassegni la scienza. Senza voler entrare approfonditamente nell’annoso dibattito sulla “teoria della demarcazione” tra scienza e non scienza, se la parola scienza ha ancora un senso deve poter riferirsi a un fenomeno che sia in una certa misura replicabile, sperimentalmente controllabile. Curiosamente però, come argomenta il fisico Bersani (2008), anche nelle scienze “dure” (come la fisica, la chimica, ecc., e non solo nelle soft sciences come la nostra) non esiste un esperimento che sia perfettamente replicabile, a causa di mille variabili che modificano continuamente le condizioni dell’esperimento. Secondo questo ragionamento, quindi, non esisterebbe una differenza tra hard e soft sciences, ma si tratterebbe di esperimenti più o meno perfettamente replicabili, di probabilità più o meno alte. In determinati fenomeni fisici poi non si riesce a prevedere il movimento di singole particelle (per cui non vi sarebbe replicabilità, quindi in questo senso non vi sarebbe “scienza”), ma si riesce a prevedere abbastanza bene i fenomeni macroscopici prodotti dall’insieme di quelle stesse particelle microscopiche. Un esempio è quello di un gas, le cui leggi generali sono studiabili e prevedibili ma non i movimenti delle singole particelle; un altro esempio, molto chiaro perché fa parte della vita quotidiana, è la tazza di porcellana buttata sul pavimento che va in mille pezzi – fenomeno certamente replicabile – dei quali però non riusciamo a prevedere il numero, le dimensioni o la distribuzione sul pavimento.
Questo fa venire in mente il noto “principio di indeterminazione” elaborato da Werner Heisenberg negli anni 1920, secondo il quale le particelle infinitesimali non hanno una posizione e una velocità definite simultaneamente: tanto maggiore è la precisione con cui si determina la loro posizione tanto minore è la precisione con cui si stabilisce la loro velocità. In altre parole, l’osservatore influenza l’oggetto osservato, e questo è il motivo per cui il “principio di indeterminazione” di Heisenberg viene spesso citato da colleghi che simpatizzano per gli approcci relazionali o intersoggettivi. Ma a mio parere questi colleghi sbagliano perché il “principio di indeterminazione” di Heisenberg non si applica ai fenomeni macroscopici ma solo a quelli microscopici (ai fenomeni molecolari ma non a quelli “molari”, si potrebbe dire), e questa differenza peraltro sembra essere paradossale o contro-intuitiva, perché verrebbe da dire che i fenomeni macroscopici sono più complessi di quelli microscopici e quindi meno controllabili. Ma qui entra in gioco la “teoria della complessità”, la quale sottolinea il fatto che in fenomeni complessi e “caotici” vi sono regolarità non facilmente spiegabili dall’analisi dettagliata delle singole componenti.
A parte questo, va notato che vi sono interessanti esempi di scoperte “scientifiche” che in seguito sono state smascherate da ricercatori successivi i quali hanno dimostrato che erano “pseudo-scientifiche” (vedi gli esempi citati da Bersani, 2008, p. 67). Se però usiamo il termine “pseudo-scienza”, automaticamente ci mettiamo nella posizione di coloro che credono veramente nella scienza come diversa da qualcosa che essa non è, per cui siamo da capo, cioè si ripropone la questione della demarcazione. E se prima avevamo detto che una replicabilità perfetta non esiste, si ripropone il problema di stabilire cosa intendiamo per scienza.
Personalmente, ritengo che questo sia un impasse solo apparente, poiché una qualche forma di replicabilità deve pur esistere, e non solo nelle scienze dure, ma anche nella psicoterapia, altrimenti essa non sarebbe insegnabile e imparabile. Questa replicabilità non è mai perfetta, ma in una qualche misura c’è, certamente a livello macroscopico e non microscopico. Di fronte a noi abbiamo tanti esempi in cui determinati comportamenti o sintomi del paziente si riproducono con regolarità a causa di certi eventi, e si modificano a causa di alcuni nostri interventi più o meno strutturati e “replicabili”, chiamati appunto psicoterapia (o psicoanalisi, per me qui sono sinonimi). La psicoterapia insomma sarebbe un fenomeno naturale, studiabile proprio come in medicina. Va ricordato, tra l’altro, che la psicoterapia e la medicina non sono due scienze ma due “applicazioni” di scienze di base, in cui intervengono fattori complicati quali il rapporto interpersonale, fattore questo che è il fulcro della psicoterapia e che appunto la rende più complessa a livello di sperimentazione scientifica.
Certamente a una qualche forma di ‘replicabilità’ facciamo riferimento quando – in psicoterapia – impariamo, o insegniamo qualcosa, per non dire di quanto abbiamo, di ciò, consapevolezza nel lavoro clinico. Potresti fare un esempio in cui si possa vedere come si pone il problema delle ricerca e della replicabilità?
Si, mi viene in mente un caso di non molto tempo fa. Una paziente venne da me perché era angosciata ed estremamente depressa a causa – nelle sue parole – di una dolorosa separazione da un uomo cui era molto legata. Il tacito accordo era che lei mi avrebbe parlato di questa relazione e del modo con cui è finita. Nelle prime sette o otto sedute lei mi raccontava aspetti della sua vita passata e della sua famiglia di origine, certamente interessanti, ma mai della recente rottura affettiva. Iniziava ogni seduta dicendo che me ne avrebbe parlato, ma poi apriva una parentesi e si perdeva in un nuovo argomento che la portava fino alla fine della seduta. La seduta successiva di nuovo iniziava proponendosi di parlare di quella dolorosa separazione, ma poi come le altre volte non lo faceva, perdendosi in lunghe parentesi che a questo punto assumevano sempre più il carattere della circostanzialità. Ma non si trattava affatto di tratti ossessivi, si trattava – per lo meno questa era la mia netta impressione – di modi con cui, per così dire, “menava il can per l’aia” per non parlare di quell’aspetto della sua vita che le procurava ansia e dolore. Io dentro di me facevo queste riflessioni e aspettavo che lei si sentisse di affrontare quell’argomento. Mi riservavo di intervenire per toccare questa dinamica eventualmente in seguito, se questa procrastinazione fosse diventata di proporzioni tali da richiedere un intervento da parte mia.
Prima della quinta o sesta seduta ricevetti da lei una telefonata che mi sorprese. Mi disse, con una certa risolutezza, che aveva deciso di interrompere la terapia. Io rimasi sorpreso e le chiesi perché. Lei mi rispose che non poteva più andare avanti perché con me stava troppo male, per cui preferiva smettere. Immediatamente dentro di me formulai una ipotesi di quello che stava succedendo, che sentivo come molto “scientifica”, “replicata”, in quanto osservata moltissime volte da tanti terapeuti, discussa spesso nella letteratura, ecc. L’ipotesi era che si trattava di una tipica fuga per evitare di confrontarsi con una situazione dolorosa (sottolineo la parola “tipica”, cioè non un comportamento unico, irripetibile, non un fenomeno idiografico, ma un fenomeno naturale, un comportamento descritto più volte da tanti clinici e ricercatori). Immediatamente allora chiesi alla paziente di ascoltarmi un attimo perché volevo condividere con lei una mia forte sensazione, ben sapendo che era poi libera di fare quello che voleva. Una rapida “interpretazione telefonica”, ovviamente fatta con calma e col giusto tatto, fece riflettere la paziente che rispose: «D’accordo, può essere vero quello che lei dice, allora ci vediamo domani alla solita ora». Le avevo detto che ritenevo che vi erano forti probabilità che lei stesse scappando, e che il modo migliore invece per star meglio, e proprio nel breve periodo, a mio parere era esattamente il contrario di scappare, cioè continuare a venire e parlarmi del suo dolore. La seduta seguente riprovò a mettere in atto manovre circostanziali, però ne parlammo un po’ e riuscì ad affrontare di più l’argomento, per arrivare poi – come era previsto appunto dal fenomeno naturale “replicato” in tante esperienze psicoterapeutiche – a piangere molto, a provare sentimenti orribili, ecc. La seduta seguente starà ancor peggio, esprimerà emozioni sempre più dolorose, e così via. La cosiddetta alleanza terapeutica ovviamente si era rafforzata proporzionatamente al suo aumento di dolore, il quale a sua volta era stato espresso dalla paziente in modo proporzionale alla sua forza dell’Io che è appunto quella che le permise di provarlo (mentre prima doveva rimuoverlo o reprimerlo, pagando il prezzo dei sintomi depressivi), cioè di portarlo maggiormente alla coscienza, di socializzarlo col terapeuta, e così via. Non mi dilungo su queste cose perché sono fin troppo ovvie e costituiscono alcune delle “leggi” della psicoterapia (si pensi solo alla tematica del lutto e delle tecniche terapeutiche per affrontarlo, studiata da numerose ricerche “scientifiche”). Nei successivi colloqui tra l’altro venni a sapere che aveva una storia di rapporti con uomini con cui aveva sempre voluto rompere proprio quando si era accorta che erano importanti per lei, e che spesso e volentieri, “chissà perché”, si era legata a “uomini sbagliati” che invece lei non respingeva. Vengo a sapere anche che aveva avuto una relazione estremamente traumatica con suo padre, che l’aveva sempre respinta, maltrattata, disprezzata anche apertamente, quasi non riconosciuta perché sospettava che lei non fosse sua figlia naturale, preferendo di gran lunga il fratello a cui aveva cercato di lasciare tutta l’eredità, e così via.
Mi fermo con l’esposizione di questo materiale clinico – che sembra proprio “da manuale”, cioè che appunto mostri che la psicoterapia è una scienza come un’altra, con sue leggi ben precise (magari tutti i pazienti fossero così, purtroppo molti sono più complicati) – per tornare alle questioni teoriche. Mi rendo ben conto che la psicodinamica che io ho ipotizzato, e che ho definito “scientifica”, “replicabile”, ecc., era solo un abbozzo che poi fu arricchito o modificato da altri particolari che appresi in futuro, però a me sembra un nucleo di dinamica forte, solido. Ma non scordiamoci che qui siamo sempre all’interno della clinica, non della ricerca! Cioè si tratta solo di ipotesi soggettive basate sull’induzione, che potrebbero anche essere tutte sbagliate, però allo stesso modo con cui potrebbero essere sbagliate le leggi costruite su fenomeni fisici replicati tante volte, in cui anche qui occorrono verifiche “scientifiche”, basate su circoli induttivo-deduttivi. Si potrebbero aggiungere altri spezzoni di teoria, ad esempio (ma solo perché viene in mente a me in questo momento) il concetto di “test” formulato da Weiss e Sampson secondo cui la paziente non voleva affatto interrompere la terapia, ma inconsciamente voleva che io la invitassi a restare, cioè superassi il test transferale che lei inconsciamente mi sottoponeva (per un approfondimento sulla control-mastery theory di Weiss e Sampson, rimando a Weiss, 1952, 1986, 1990, 1993a; Weiss et al., 1986; Weiss & Sampson, 1999; Migone, 1993a, 1993b, 1995, 2005 pp. 361-365; Rotondo, 2000). E lo sottoponeva proprio a me perché si fidava, cioè aveva scelto me, di cui aveva avuto una buona impressione, per rimettere in atto il suo conflitto (l’essere abbandonata, vedere se ero come il padre, usando anche il noto meccanismo del passive-into-active, cioè della inversione dei ruoli nel transfert) allo scopo di vedere se io invece non la respingevo o comunque non stavo al suo gioco che rappresenta lo schema, il copione, il transfert di una vita (non mi sono fatto risucchiare dal suo enactment, oggi direbbero alcuni).
Uno scienziato scettico potrebbe pensare che queste ipotesi sono fantasticherie, ma è curioso il fatto che sono espressione proprio di un gruppo di ricerca empirica in psicoterapia. Infatti non va dimenticato che il San Francisco Psychotherapy Research Group, guidato da Weiss e Sampson, nei primi anni 1980 ha richiamato l’attenzione internazionale non tanto per il suo modello teorico – modello che non è affatto nuovo, non essendo altro che un approfondimento delle implicazioni cliniche della Psicologia dell’Io (si pensi al concetto di Io che prevede, che regola inconsciamente l’azione, ecc.; vedi Migone & Liotti, 1998) – bensì per il supporto di ricerche empiriche, “scientifiche”, tese a validare il modello con ricerche controllate. È per questo motivo che Weiss e Sampson sono diventati noti e il loro modello non è rimasto uno dei tanti della psicoanalisi contemporanea. Tanto per fare un esempio, una pubblicazione che non si può certo tacciare di simpatie per le pseudo-scienze, la rivista Scientific American (in italiano Le Scienze) nel 1990 quando decise di pubblicare un articolo “scientifico” sulla psicoanalisi chiese proprio a Weiss di esporre le sue ricerche empiriche.
Chiarisco meglio quello che voglio dire riguardo a questo esempio clinico. Così come non possiamo prevedere i movimenti delle singole particelle di un gas ma le leggi generali del gas da esse composto, si può dire che difficilmente avremmo potuto prevedere se quella paziente, alla seduta dopo la mia “interpretazione telefonica”, sarebbe venuta con le scarpe blu o con quelle marroni, con la borsetta di un tipo o dell’altro, con dentro alla borsetta il fazzoletto viola o azzurro, con quanti milligrammi di fondo tinta sulle guance, ecc., ma che invece avremmo potuto prevedere con una buona dose di probabilità che lei in quella seduta avrebbe pianto molto, avrebbe sofferto ed espresso emozioni importanti e intense, e che questo avrebbe portato nel breve periodo a un miglioramento del suo stato psichico (al limite anche misurabile con una rating scale, volendo proprio fare come nelle ricerche “scientifiche”). Questi dati clinici, essendo stati osservati con regolarità da tanti terapeuti, per induzione ci invitano a formulare delle leggi generali (dalle quali, per deduzione, potremmo poi interpretare simili casi clinici). Ad esempio: si tratta di catarsi? Potremmo meglio dire, a mio parere, che si tratta della catarsi “psicoanalitica”, cioè della liberazione di emozioni dolorose connesse però a una fiducia nel terapeuta (come nuova figura transferale, diversa da quella del padre e/o dell’uomo da cui si è appena separata) che le permette appunto di liberare quelle emozioni che prima non poteva permettersi di provare dovendo rimanere in uno stato di difesa, di pericolo: si veda il concetto di “background di sicurezza” (background of safety) di Sandler del 1960 – due anni prima non a caso aveva cominciato a farsi sentire Bowlby, che nel 1958 aveva scritto sull’International Journal of Psychoanalysis l’articolo “The nature of the child’s tie to his mother”. Non solo, ma idealmente queste emozioni dolorose sono connesse anche a una maggiore comprensione della storia della sua vita (vedi il concetto freudiano di “ricostruzione”), favorendo quindi una ristrutturazione cognitiva.
Di nuovo mi torna in mente Weiss, che era partito da considerazioni simili. A cavallo degli anni 1950 era colpito da un fenomeno, per lui strano, che osservava quando andava al cinema. Notava che quando ad esempio il protagonista del film partiva per la guerra, o gli amanti si separavano, gli spettatori stavano in silenzio. Quando invece il soldato tornava dalla guerra, o gli amanti si riunivano, molti piangevano. Weiss, con quella particolare ingenuità che a volte hanno le persone intelligenti, non riusciva a capire perché la gente non piange quando le cose vanno male e piange quando vanno bene (l’ipotesi ovviamente è che gli spettatori si identificano con gli attori). Dopo varie riflessioni arrivò a lavorare attorno al concetto di “pianto al lieto fine” (“Crying at the happy ending” è il titolo di un articolo del 1952 col quale inizia il suo percorso di ricerca, sia clinica che sperimentale) elaborando le implicazioni della Psicologia dell’Io, allora al suo massimo fulgore negli Stati Uniti. Sostenne che l’Io – che come sappiamo dalla teoria strutturale, cioè dalla seconda topica, è in parte inconscio e si esprime con le difese e con le sue funzioni, regolandole anche in modo intelligente e adattivo – inibisce difensivamente le emozioni in situazioni di pericolo, mentre in condizioni di sicurezza le esprime senza timore perché può permetterselo, e le elabora, le reintegra nella struttura psichica rendendole consce (non a caso, Kris [1950] due anni prima aveva sviluppato il concetto di “regressione al servizio dell’Io”). Da lì a poco Weiss arrivò ad estendere queste riflessioni alla psicoterapia, da lui concettualizzata in un certo senso come un “grande pianto al lieto fine”: il paziente, grazie alla nuova “condizione di sicurezza” esperimentata col terapeuta, si lascia andare e piange molto, ricorda cose dolorose del suo passato e lentamente migliora (per altri esempi clinici, vedi Weiss, 1986, pp. 53-63; Migone, 2005, pp. 364-365). Vengono in mente a questo proposito i noti adagi psicoanalitici, collegati al concetto di regressione, secondo cui “più il paziente sta male più sta bene”, “più peggiora più migliora”, ecc., cioè il paziente può permettersi di star male – considerazioni queste che non a caso irritano i nostri colleghi comportamentisti che, almeno nella mia esperienza, fanno una enorme fatica a capire appunto perché il loro armamentario teorico glielo impedisce; e questo, come è ovvio, si ripercuote in modo massiccio sugli strumenti di ricerca in psicoterapia per misurare il dolore, il pianto, il cosiddetto “peggioramento” e più in generale il cambiamento. Weiss e Sampson, tra l’altro, hanno costruito scale di misurazione per studiare la differenza tra i diversi tipi di pianto, perché è ben noto che i pianti di disperazione e quelli di gioia sono estremamente diversi (per un dibattito, vedi Migone [1993b] e Weiss [1993b]).
Ci si potrà chiedere perché ricordo queste cose che la psicoanalisi ha affrontato tanti anni fa. Il motivo è collegato alla questione della ricerca “scientifica”, perché ad esempio il filone della ricerca sulla teoria dell’attaccamento (che come è noto è un tipo di ricerca empirica, accademica, non solo “psicoanalitica”) ha prodotto negli ultimi anni importanti prove empiriche in favore di queste ipotesi psicoanalitiche. Si pensi a quei pazienti, con uno stile di attaccamento disorganizzato, che scappano non appena si legano col terapeuta, cioè presentano una paradossale paura nei confronti del terapeuta affidabile, cioè di chi offre cura (Liotti [1999, 2000, 2001], tra gli altri, ha lavorato molto su queste problematiche; vedi Migone, 2004a, pp. 371-372).
Tanti altri esempi clinici potrebbero essere citati per mostrare come anche in psicoterapia vi siano fenomeni replicabili. Si pensi a quei pazienti depressi – che non sanno perché sono depressi, e il non saperlo è appunto legato alla rimozione che fa parte del meccanismo della depressione – che vengono in terapia per cercare di star meglio. Il terapeuta adotta semplicemente un atteggiamento “espressivo”, cioè li lascia parlare, “ventilare” i loro sentimenti e i loro pensieri, e mano a mano che passano le sedute parlando di sé, esplorando sempre più il proprio mondo interiore, stanno meglio, si scioglie progressivamente la depressione. Secondo una ipotesi teorica che spiega questo fenomeno (cioè passando dalla induzione alla deduzione), se certi contenuti riescono a diventare consci vengono nel frattempo trasformati, integrati nel resto della struttura psichica, e non svolgono più quel ruolo patogeno che avevano quando erano rimossi (questo non è altro che il modello freudiano, dove al posto del sintomo isterico mettiamo in questo caso il sintomo depressivo). Mi rendo ben conto che saremmo ingenui a ritenere che questa sia la “vera” spiegazione del miglioramento, è solo una ipotesi che andrebbe verificata con ricerche empiriche. È un induzione – se non una “abduzione”, processo introdotto più di un secolo fa da Peirce, che lo aveva ripreso da Aristotele – e certamente vi sono molte altre ipotesi per spiegare questo fenomeno. Mi limito a dire, più in generale, che potrebbe trattarsi di quello che i ricercatori chiamano effetto honey-moon, cioè l’effetto “luna di miele” della psicoterapia, essendo stato dimostrato da ricerche empiriche che molti pazienti migliorano nella prima fase della psicoterapia per poi ricadere dopo un po’. I terapeuti ingenui all’apice della luna di miele del loro paziente – tipicamente certi terapeuti “brevi” ma non “bravi” (vedi Migone, 2005, pp. 354) – credono di averlo guarito e magari lo dimettono, mentre i terapeuti “bravi” (che a volte sono ancor più “brevi”, e inoltre i loro pazienti al follow-up mostrano meno ricadute) sanno che l’analisi inizia proprio alla fine della luna di miele, quando il paziente peggiora. Ebbene, questo può essere nient’altro che l’effetto placebo in psicoterapia, cioè un miglioramento che avviene in molti casi a causa di fattori diversi, non direttamente conoscibili, che appunto vanno investigati (non tutti, peraltro, presentano questo effetto placebo, alcuni, per un loro particolare transfert, hanno l’effetto nocebo): esempi potrebbero essere l’attivazione dell’aspettativa di guarigione, l’idealizzazione del terapeuta, l’attivazione transferale del primo rapporto positivo coi caregivers e così via. A me piace a volte definire la psicoterapia, in particolare la psicoanalisi, come nient’altro che la scomposizione e lo studio minuzioso dell’effetto placebo allo scopo di utilizzarlo meglio per aumentare la stabilità del cambiamento nel tempo (la psicoanalisi è “analisi della suggestione”, diceva Freud; vedi Migone, 2004b).
Hai citato alcuni ricercatori in psicoterapia. Sapresti tratteggiare, ovviamente per sommi capi, una storia del movimento di ricerca in psicoterapia, per dare una idea delle sue principali tappe e dei risultati ottenuti, soprattutto per chi non ha mai approfondito questo argomento?
Nell’esempio clinico fatto prima abbiamo visto alcune ipotesi che si possono fare per spiegare l’andamento del caso, e cercare di capire quale ipotesi è quella più probabile è proprio lo scopo della ricerca in psicoterapia, cioè degli sforzi fatti da questo movimento di ricercatori da alcuni decenni, soprattutto a partire dalla salutare provocazione di Eysenck del 1952 secondo cui l’effetto della psicoterapia è totalmente irrilevante, inutile. Per inciso, Eysenck fu molto attento a non dire mai che la psicoterapia era dannosa, altrimenti sarebbe stato costretto ad ammettere che poteva essere anche efficace, e quando si riuscì a dimostrare che poteva essere dannosa fu un sollievo per tutti i ricercatori, che in un certo senso esclamarono “meno male che la psicoterapia fa male!”. Secondo Eysenck i miglioramenti avvenivano solo grazie al “mero passaggio del tempo”, cioè per “remissione spontanea” a causa delle oscillazioni naturali del decorso di tutte le malattie. Questa ipotesi di Eysenck, a mio parere molto interessante e “vera” in tantissimi casi, prevede che gli psicoterapeuti, quando prima o poi incrociano la oscillazione positiva della malattia, se ne attribuiscono il merito, tutto lì (quindi più lunga è una terapia, meglio serve a questo scopo). Secondo questa ipotesi, si potrebbe dire che la psicoterapia funziona solo per l’“effetto lampione”: metti il paziente per un’ora alla settimana seduto su una panchina illuminata da un lampione, questa è la psicoterapia, è il lampione che guarisce il paziente, il quale quando sta meglio si alza dalla panchina-lettino e se ne va, tutto contento di essere stato guarito dal lampione-analista.
Ebbene, non è stato facile da parte del movimento di ricerca in psicoterapia dimostrare che Eysenck aveva torto, ci sono voluti circa trent’anni di tentativi. I primi dati sono emersi solo nel 1980 grazie alla tecnica della meta-analisi (alludo ai lavori di Smith, Glass & Miller, 1980; per un approfondimento sulla meta-analisi, rimando a Parloff, 1985, p. 14; Migone, 1996, p. 186). In quella però che è considerata la prima fase della ricerca in psicoterapia, definita “sul risultato” (outcome research), si è arrivati a un imbarazzante situazione, che è stata chiamata “paradosso della equivalenza” (equivalence paradox): tutte le psicoterapie, le più diverse, in media ottenevano gli stessi risultati. Nella felice espressione di Luborsky, “tutti hanno vinto e ognuno merita un premio”, una frase pronunciata dall’uccello Dodo quando aveva indetto una corsa in Alice nel paese delle meraviglie (Luborsky, Singer & Luborsky, 1975; Luborsky et al., 2002). Questa equivalenza è conosciuta nel mondo della ricerca in psicoterapia come “verdetto di Dodo” (Dodo verdict), e continua a essere uno spettro che perseguita i ricercatori, soprattutto coloro che hanno una fede in una delle tante scuole psicoterapeutiche. Si può immaginare che una causa del verdetto di Dodo (non l’unica, ne sono state ipotizzate tante) dipenda dalla difficoltà che gli strumenti utilizzati riescano a misurare con sufficiente precisione il cambiamento.
È a causa del verdetto di Dodo che si è passati a una seconda fase della storia del movimento di ricerca in psicoterapia, chiamata “ricerca sul processo” (process research), nella quale si è abbandonata la ricerca sul risultato, ritenuta inutile dato che non si sapeva quale “processo” producesse il risultato. Si è cioè studiato cosa accade veramente nella interazione terapeutica, dato che non è sufficiente che un terapeuta dica che fa una psicoterapia “psicoanalitica” (o “cognitiva”, ecc.) per essere certi che la faccia, anzi, spesso si è dimostrato che un terapeuta fa tutt’altro rispetto a quello che dice di fare o professare. Westen, ad esempio, nell’articolo prima citato mostra che grazie a strumenti basati sul Q-sort si è riusciti a dimostrare che in certi studi i pazienti erano migliorati a causa di interventi che erano addirittura opposti alla tecnica ufficialmente praticata! Uno studio ha dimostrato non solo che terapeuti a indirizzo sia cognitivo che psicodinamico utilizzavano tecniche dell’altro approccio, ma che in entrambi casi il risultato positivo era associato alla misura in cui gli interventi si adeguavano al modello empirico della terapia psicodinamica, cioè il fatto che i terapeuti cognitivi si servissero di tecniche cognitive non era correlato con il risultato (Westen, Morrison Novotny & Thompson-Brenner, 2004, p. 28; Jones & Pulos, 1993; Ablon & Jones, 1998). Tra parentesi, il metodo Q-sort, che è una tecnica di ricerca sofisticata e ora utilizzata da moltissimi ricercatori anche in ambito non psicoanalitico, è stato per la prima volta applicato alla psicoterapia da Enrico Jones, che era uno psicoanalista, il quale ho prodotto il Psychotherapy Process Q-sort (PQS) – anche la SWAP (Shedler-Westen Assessment Procedure: Westen, Shedler & Lingiardi, 2003), che è un importante metodo di indagine della personalità, si basa sul Q-sort.
Qualunque clinico che si interroghi sui processi sottesi a un trattamento psicoterapeutico si domanda se è stata applicata una certa tecnica, se si è verificato un divario fra quanto prescritto, o quanto dichiarato, e quanto effettivamente praticato. In un contesto di “ricerca sul processo” (process research) un problema di questo tipo è ancora più rilevante.
È per questo motivo che nella seconda fase della ricerca in psicoterapia è scoppiato il boom dei manuali, cioè la manualizzazione delle varie tecniche terapeutiche, appunto per essere sicuri che i terapeuti facessero proprio quello che dichiaravano di fare e non qualcos’altro. Come è noto, il primo manuale di psicoanalisi per la ricerca è quello di Luborsky del 1984 per il trattamento “supportivo-espressivo”, e poi ne sono seguiti tantissimi altri, si pensi alla Inter-Personal Therapy (IPT) di Klerman et al. (1984), alla Transference-Focused Psychotherapy (TFP) di Kernberg (Clarkin, Yeomans & Kernberg, 1999, 2006), alla Dialectical Behavior Therapy (DBT) della Linehan (1993), alla Cognitive Analytic Therapy (CAT) di Ryle (1997; Ryle & Kerr, 2002), e così via (i nomi dei manuali si riferiscono a tecniche specifiche, mai a teorie generali, infatti una stessa teoria generale – ad esempio la psicoanalisi – può ispirare molti manuali diversi a seconda dell’autore che li costruisce, della diagnosi-bersaglio, ecc.). I primi manuali a essere costruiti furono naturalmente quelli della terapia comportamentale, perché più semplici (arrivano ad essere quasi degli algoritmi prefissati di interventi prescritti, delle “procedure”, appunto). I manuali sono costruiti solo per la ricerca, spesso ad hoc per ricerche specifiche, e non vanno confusi con i libri di tecnica per la clinica: come esempi di libri di tecnica psicoanalitica, si pensi al Menninger (1958), al Greenson (1967), all’Etchegoyen (1986), ecc. – i libri di tecnica psicoanalitica peraltro non sono tantissimi, e non casualmente appunto per la difficoltà a esplicitare o “prescrivere” comportamenti terapeutici dettagliati che valgano per tutto il corso del trattamento (infatti, come diceva Freud, il trattamento è un po’ come una partita a scacchi, in cui si può descrivere la mossa di apertura e quella di chiusura – lo scacco matto – ma è ben difficile prevedere le mosse intermedie). Non a caso vi è chi ha definito i manuali di tecnica psicoanalitica “collezioni di errori” (e gli errori possono essere ben maggiori nei manuali per la ricerca, perché sono molto più dettagliati). Molto bella è a questo riguardo la frase di Helmuth Thomae che Kernberg, con saggezza e autoironia, ha voluto mettere come epigrafe al proprio manuale per la terapia dei borderline, la Transference-Focused Psychotherapy (TFP): «Questo libro di terapia dovrebbe essere memorizzato, e poi dimenticato» (Clarkin, Yeomans & Kernberg, 1999).
Che i manuali per la ricerca poi vengano usati anche per la clinica è un altro discorso, questo fa parte degli aspetti sociologici della nostra professione (un po’ come è accaduto per il DSM-III e DSM-IV, che erano manuali di diagnosi psichiatrica per la ricerca ma in vari paesi culturalmente del “terzo mondo” sono stati scambiati per manuali di psichiatria). Sostanzialmente, i manuali sono caratterizzati da tre componenti: 1) una selezione rappresentativa dei princìpi di una determinata tecnica psicoterapeutica; 2) esempi concreti di ogni principio, cosicché non vi siano dubbi su cosa si intende con quella tecnica; 3) una serie di scale di valutazione (rating scales) che misurano il grado con cui un campione della terapia (ad esempio il videoregistrato di alcune sedute scelte a caso) rientra nei princìpi di quella tecnica; queste rating scales sono utilizzabili da chiunque, terapeuta o osservatore indipendente (per un approfondimento sui manuali, vedi Migone, 1986, 1990, 1996). Per inciso, ritengo che vadano sottolineate anche alcune contraddizioni interne dello sforzo di Luborsky nel costruire un manuale di terapia psicoanalitica, di cui peraltro era ben consapevole e che cercò di risolvere: ad esempio, la suddivisione degli interventi della tecnica psicoanalitica in due categorie – supportivi ed espressivi – può essere paradossale se si pensa che la interpretazione (tecnica espressiva par excellence) produce effetti supportivi (rinforzo dell’Io). (Per una discussione di questo problema e del modo con cui Luborsky lo ha risolto operativamente, rimando a Migone, 1990, p. 128).
La manualizzazione è solo uno degli aspetti della fase storica della ricerca sul processo, vi sono tanti altri aspetti, ad esempio la costruzione di parecchie scale di valutazione, anche molto sofisticate, appunto per misurare il processo: oggi le più conosciute e usate sono almeno una ventina (per un elenco di 17 di questi metodi, vedi Migone, 1996, p. 210; vedi anche Dazzi, Lingiardi & Colli, 2006), si pensi solo al Core Conflictual Realationship Theme (CCRT) di Luborsky, che è una “operazionalizzazione” del transfert a scopi di ricerca, una sorta di ponte tra il qualitativo e il quantitativo (Luborsky, 1984; Luborsky & Crits-Christoph, 1990), alla Referential Activity della Bucci (1997; vedi Migone, 2007b), alla scala per misurare la funzione riflessiva o metacognizione di cui parlano Fonagy et al. (2002) (uno strumento, la Scala della Valutazione della Metacognizione [SVaM], è stata prodotta in Italia dai colleghi del Terzo Centro di Terapia Cognitiva di Roma [Dazzi, Lingiardi & Colli, 2006, cap. 16]), alla “analisi del piano” del gruppo di Weiss e Sampson (a cui ho già accennato), e così via fino ad arrivare a scale che mostrano come per certi versi la ricerca sul processo si intrecci con la ricerca sul risultato, cioè misurano modificazioni ad interim o anche alla fine della terapia e al follow-up.
Per tornare ai manuali, essi hanno vantaggi e svantaggi. Il loro principale vantaggio è che finalmente permettono di fare ricerca, identificando un fenomeno (un tipo di psicoterapia) che possa essere replicato, mentre gli svantaggi sono tantissimi e se ne è parlato molto: si pensi alla eccessiva rigidità dei terapeuti che in certi casi arriva fino a snaturare la psicoterapia stessa, o alla alta “efficacia” che però è raggiunta al prezzo di una bassa “efficienza”, cioè si ottengono risultati non buoni nella fase di “esportazione” (dissemination) della tecnica fuori dal laboratorio (quella che si può chiamare anche “validità esterna”), in cui i pazienti non sono selezionati e quindi ad esempio presentano una comorbilità che non era presente nel campione della ricerca (tanto che, ironicamente, si può quasi dire che la ricerca sia su un terzo dei pazienti mentre i clinici come noi vedono i restanti due terzi, quelli più difficili ed esclusi dalle ricerche). Sembra insomma che in certi casi vi sia un curioso paradosso: più una ricerca è ben fatta, meno è utile al clinico, nel senso che il rigore metodologico richiesto dalla sperimentazione allontana troppo quella psicoterapia dalla pratica clinica quotidiana, che necessariamente è ben poco rigorosa ed è “inquinata” da mille fattori poco controllabili. Non mi dilungo a parlare di queste cose, anche perché ne hanno parlato a fondo Westen, Morrison Novotny & Thompson-Brenner (2004) nell’articolo prima citato, a cui rimando (si può ricordare che questo articolo è stato ritenuto così importante da includerlo nel PDM, il nuovo “manuale diagnostico psicoanalitico”; PDM Task Force, 2006, pp. 565-658; vedi Migone, 2006b).
Anche se in questa intervista hai citato una quantità considerevole di testi, puoi indicare quelli a tuo parere più importanti per avvicinarsi allo studio della ricerca in psicoterapia?
Parecchi anni fa scrissi un lavoro che tracciava un panorama storico sulla ricerca in psicoterapia (Migone, 1996), e forse oggi è datato, ma una versione più breve e aggiornata (Migone, 2006a) è contenuta in un capitolo del volume curato da Dazzi, Lingiardi & Colli (2006) La ricerca in psicoterapia. Modelli e Strumenti, che è un po’ una summa della ricerca in psicoterapia da parte di autori italiani. Altri volumi di autori italiani sono quelli di Di Nuovo et al. (1998), Fava & Masserini (2002), De Coro & Andreassi (2004), Di Nuovo & Lo Verso (2005), ecc. Molto utile è anche la open door review dell’International Psychoanalytic Association curata da Fonagy (1999), con interventi introduttivi in cui vengono discusse alcune questioni epistemologiche della ricerca in psicoanalisi. Tra le principali review sulla ricerca in psicoterapia, si possono ricordare quella di Roth & Fonagy (1996) e la “bibbia” dei ricercatori, il manuale di Bergin e Garfield, che nella quinta e sesta edizione è curato da Lambert (2003, 2013). Infine ricordo alcuni articoli che ho fatto uscire su Psicoterapia e Scienze Umane dagli anni 1980 allo scopo di preparare il terreno per il dibattito: la review di Parloff del 1985 sulla ricerca sul risultato della psicoterapia, il documento ufficiale degli elenchi degli EST (Chambless & Ollendick, 2001), l’importante lavoro di Westen, Morrison Novotny & Thompson-Brenner (2004) prima citato, la review di Shedler (2010) sull’efficacia della terapia psicodinamica, e la dura critica di Wachtel (2010) alla metodologia degli EST, e così via. Altri riferimenti si possono trovare nella bibliografia che riporto qui sotto, che può essere utile a chi volesse approfondire determinati argomenti.
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