Vittorio Lingiardi Professore Ordinario di Psicologia Dinamica presso la Facoltà di Medicina e Psicologia dell’Università di Roma La Sapienza., dove dal 2006 dirige la Scuola di Specializzazione in Psicologia Clinica. E’ psicologo analista del Centro Italiano di Psicologia Analitica (CIPA) e socio analista dell’International Association for Relational Psychoanalysis and Psychotherapy (IARPP).
La sua attività scientifica e di ricerca si svolge principalmente nell’ambito dello studio dei disturbi di personalità, dei meccanismi di difesa e della misurazione dell’efficacia della psicoterapia psicoanalitica.
Intervista a cura di M.Ponsi
1 – Ti rivolgo una domanda analoga a quella rivolta al prof. Corbellini. Dal tuo punto di vista – che è tanto quello del clinico che pratica psicoterapie psicoanalitiche quanto quello del ricercatore che ne valuta i risultati e ne studia i meccanismi di funzionamento – in quale misura la diffusione delle ricerche empiriche incide sul modo in cui la psicoanalisi e i trattamenti a essa ispirati sono percepiti nella comunità scientifica, nell’area medica, e, più in generale, a livello sociale e culturale?
Partiamo dalla comunità clinica e scientifica degli psicoanalisti e degli psicoterapeuti.
A) Per alcuni la ricerca empirica in psicoanalisi ha iniziato a dare risultati interessanti e andrebbe incrementata, anche perché aiuta a sviluppare nuove idee e confutare tesi sbagliate, capire come funziona il processo terapeutico, promuovere nuovi tipi di trattamento, ecc. In pratica, a salvare la psicoanalisi stessa dall’autoreferenzialità, ma anche da critiche ideologiche ingiuste. Io mi colloco in questo gruppo. Un gruppo che non ha bisogno di arrampicarsi sui vetri per dire che la psicoanalisi ha fatto i suoi danni (per esempio, proprio nella teorizzazione sull’autismo infantile, oppure sul tema delle sessualità). Ma anche un gruppo che non guarda alla ricerca a partire dalla convinzione onnipotente che tutto sia “spiegabile” e “misurabile”.
B) Per altri la ricerca empirica in psicoanalisi è una pia illusione: la psicoanalisi è una disciplina del tutto estranea ai criteri della verifica scientifica. Credo che Gilberto Corbellini si collochi qui.
C) C’è poi una frangia di psicoanalisti che considera la ricerca empirica in psicoanalisi una contraddizione in termini, se non un’eresia: non si può misurare ciò che non si può misurare. E tutto ciò che è psicoanalitico non si può misurare. Una posizione analoga a quella di Corbellini, espressa però non criticamente, ma a partire dalla convinzione dell’unicità incommensurabile di un percorso autoconoscitivo e transferale. Una posizione che Peter Fonagy (che metterei nel gruppo A), ha definito il “(non così) splendido isolamento” della psicoanalisi (Fonagy, 2003).
Venendo dunque alla sua domanda, i primi guarderanno alla diffusione delle ricerche empiriche con interesse e partecipazione; i secondi con una certa diffidenza; i terzi con un atteggiamento di infastidita superiorità. Un quadro insomma piuttosto urticante: più che giustificato, dunque, il titolo dell’intervento di Fonagy a un simposio di una quindicina di anni fa all’Istituto di Psicoanalisi di Londra – Grasping the Nettle: or Why Psychoanalytic Research is such an Irritant (Prendere in mano l’ortica …) (Fonagy, 2000).
A livello sociale e culturale, invece, non credo che il rapporto tra psicoanalisi e ricerca (in sostanza dunque la riflessione sull’efficacia della psicoanalisi) sia un tema molto considerato. Credo prevalgano la tifoseria (psicoanalisi sì, psicoanalisi no) e le frettolose certificazioni di morte. Anche per questo ho scherzosamente intitolato “La psicoanalisi è morta. Viva la psicoanalisi” un mio intervento al Festival della Scienza di Genova dello scorso anno.
Invece, a mio avviso, anche a livello sociale e culturale, l’approccio corretto dovrebbe essere: di quale dei molti modelli teorici e clinici della psicoanalisi stiamo parlando? E comunque: per chi funziona e per chi non funziona? Ed è possibile dimostrare che funziona? In questo senso, il dibattito sollevato da Corbellini e ripreso dagli psicoanalisti di Repubblica ha le sue ragioni. Purché non si cada in dinamiche “pro/contro”, “è scienza/non è scienza” (con schieramenti superati oppure dimentichi del fatto che la stessa nozione di scienza è stata attraversata dai temi della complessità e della non linearità) che finiscono per trascurare l’unico argomento interessante: la ricerca empirica può dirci qualcosa di come funziona la psicoanalisi? Dico “di come” funziona e non “se” funziona perché il fatto che le terapie psicologiche, e quindi anche la psicoanalisi come tutte le relazioni terapeutiche, “funzioni” è dimostrato da almeno trent’anni (consiglio a questo proposito due bei volumi, entrambi pubblicati da Raffaello Cortina: “Psicoanalisi“, del 2006, a cura di Person, Cooper, Gabbard, e “Le Psicoterapie“, del 2010, a cura di Gabbard). Le terapie psicologiche aiutano le persone a stare meglio perché contengono un fattore curativo aspecifico che è la “relazione”. Però, a differenza di altre relazioni in grado di procurare benessere psicologico (amici, amanti, sacerdoti, insegnanti, vicini di casa ecc), le terapie psicologiche sono curative anche in quanto sviluppate all’interno di un setting e ancorate a condizioni, metodi e fattori specifici, che variano da terapia a terapia. La domanda giusta per questo dibattito è dunque “What works for whom, how and when“, compresa la variante troppo spesso dimenticata “What does not work for whom, how and when“. E un’altra domanda giusta è: “i dati clinici sono gli unici dati utili?”. Più che di difese di ufficio, la psicoanalisi ha bisogno di ricerca, qualitativa e quantitativa. Solo in questo modo possiamo capire in che cosa consiste l'”azione terapeutica” psicoanalitica, quando ha senso promuoverla e applicarla e quando non solo non ha senso ma è anche iatrogeno.
Ma torniamo alla comunità psicoanalitica. Nonostante le prime ricerche sull’esito delle psicoterapie siano state condotte, negli anni dieci e venti del Novecento, proprio da alcuni pionieri della psicoanalisi (Isador Coriat a Boston, Otto Fenichel a Berlino e Ernest Jones a Londra) a tutt’oggi la conoscenza dei risultati delle ricerche empiriche sulle psicoanalisi è piuttosto ridotta tra gli stessi psicoanalisti. E, se non sono gli analisti a diffondere i dati di queste ricerche all’interno del mondo medico e psicologico, di certo non possiamo aspettarci che a farlo siano professionisti e ricercatori di orientamento diverso. Quindi, nonostante esistano validi psicoanalisti ricercatori sia in Europa sia America (mi limito a citare due importanti volumi: I risultati della psicoanalisi, a cura di Leuzinger-Bohleber e Target, 2002; Psychotherapy Research Evidence Based Practice, a cura di Levy, Ablon & Kaechele, 2012; e due contributi che hanno visto la mia partecipazione: La ricerca in psicoterapia, a cura di Dazzi, Lingiardi, Colli, 2006; Lingiardi, Gazzillo, Genova (in press) L’efficacia delle terapie dinamiche: lo stato dell’arte della ricerca empirica. In: Caparrotta, Cuniberti (a cura di), Psicoanalisi in trincea. Contributi dall’Italia e Regno Unito. F. Angeli), la ricerca empirica è ancora poco diffusa e i suoi risultati sono poco conosciuti. Questa lacuna danneggia la psicoanalisi tanto sotto il profilo scientifico quanto sotto quello della sua immagine pubblica.
La cosa interessante è che questa scarsa conoscenza dei risultati della ricerca empirica non può essere attribuita al desiderio più o meno consapevole di preservare un’immagine idealizzata dell’efficacia delle terapie psicoanalitiche; di fatto, le ricerche a nostra disposizione dimostrano che, in linea generale, i trattamenti psicoanalitici sono efficaci almeno quanto le psicoterapie di orientamento diverso. E che, se condotti per un tempo adeguato (più di tre anni e mezzo) e con un numero sufficiente di sedute settimanali (almeno due), per certi pazienti i loro risultati sono migliori e più stabili di quelli che si ottengono con psicoterapie di orientamento diverso.
Sono quindi portato a pensare che, tra gli psicoanalisti, lo scarso interesse per la ricerca empirica sia dovuto a pregiudizi di tipo ideologico, per cui chi cerca di saldare la frattura tra clinica e ricerca è nella migliore dei casi un illuso, nella peggiore un rinnegato, e comunque un “traditore” dello spirito psicoanalitico. A proposito di “tradimenti” non posso non citare il bel capitolo di Maria Ponsi, intitolato appunto “Il cammino della psicoanalisi verso il metodo scientifico: tradimento o traguardo?” e contenuto nel già citato volume a cura di Dazzi, Lingiardi e Colli (Cortina, 2006).
Questo atteggiamento di rifiuto o indifferenza verso la ricerca empirica viene a volte giustificato sulla base dell’idea che la psicoanalisi non sia una terapia, ma un’esperienza di conoscenza di sé e di crescita, e che in quanto tale tra i suoi obiettivi fondamentali non rientri la cura dei sintomi. Ora, è vero che la psicoanalisi è un’esperienza finalizzata a conoscere se stessi, ma ogni analista crede che questa conoscenza aiuti le persone a stare meglio: a valorizzare le proprie risorse, a ricorrere a difese più mature, ad accrescere le capacità di mentalizzazione, con effetti positivi sulla propria salute mentale. Non possiamo sperare che le terapie analitiche abbiano un futuro se gli stessi analisti dichiarano, magari per amor di paradosso, che la psicoanalisi non è cura.
2 – Riguardo alla critica che viene rivolta a Shedler sulla metodologia da lui applicata nell’analisi dell’efficacia delle psicoterapie psicodinamiche – una critica che il prof. Corbellini assume dalla circostanziata analisi dell’articolo di Shedler fatta un anno fa da Anestis & Lilienfeld su American Psychologist – potresti fornirci qualche ulteriore valutazione?
Le critiche avanzate da Gilberto Corbellini mettono giustamente in luce alcuni problemi centrali della ricerca in psicoterapia nel suo complesso: i limiti delle meta-analisi, la differenza tra efficacia clinica (effectiveness) e efficacia statistica (efficacy) di un trattamento, il rapporto tra fattori terapeutici che si reputano efficaci in base al proprio modello teorico e fattori “realmente” efficaci. Provo a entrare nel merito, anche se si tratta di argomenti piuttosto tecnici.
Le meta-analisi è una tecnica che permette di raggruppare e confrontare ricerche diverse che hanno indagato lo stesso argomento; quindi, le meta-analisi degli studi sull’efficacia delle psicoterapie dinamiche – a cui fa riferimento Jonathan Shedler nell’articolo del 2010 che cita Corbellini – mettono assieme i risultati di studi diversi che hanno paragonato l’efficacia di varie terapie dinamiche per disturbi specifici con l’efficacia di psicoterapie di orientamento diverso che trattano gli stessi disturbi. È inevitabile che una meta-analisi raggruppi studi su psicoterapie che, pur condividendo lo stesso orientamento teorico, presentano una variabilità applicativa (cosa che potrebbe avvenire anche per qualunque tipo di approccio clinico, anche in medicina). Non dimentichiamo che anche i ricercatori di orientamento non psicodinamico ricorrono alle meta-analisi per dimostrare e quantificare l’efficacia dei loro trattamenti – spesso paragonandoli a terapie che definiscono dinamiche ma che tali non sono, o che sono condotte da professionisti che non sono psicoterapeuti adeguatamente formati (personale infermieristico di formazione psichiatrica, studenti in training, assistenti sociali ecc). Non sono dunque i risultati delle meta-analisi di per sé a dover essere messi in discussione, ma i criteri di inclusione degli studi che vengono meta-analizzati: il lavoro di Shedler è in tal senso abbastanza accurato, come lo sono le meta-analisi condotte da Leichsenring (2006) e Lichsenring e Rabug (2008), che pure dimostrano in modo piuttosto netto l’efficacia delle psicoterapie psicoanalitiche (v. anche Leichsenring, 2005, Leichsenring & Leibing 2003, Leichsenring, Rabung & Leibing 2004).
Veniamo al tema efficacy vs effectiveness. È sicuramente vero che una differenza statisticamente significativa tra i punteggi di un test (che valuta per esempio la depressione) rilevati all’inizio e alla fine di una psicoterapia psicoanalitica (efficacy) non implica, sic et simpliciter, che la persona sia significativamente meno depressa dopo la terapia. Ma se il test utilizzato ha una buona validità di costrutto, allora è probabile che la differenza nei suoi punteggi sia un buon indicatore di una differenza reale nella condizione clinica dei soggetti. Certo, cambiamento statisticamente significativo non significa cambiamento clinicamente significativo. Negli ultimi anni abbiamo assistito alla diffusione di metodologie o calcoli che si propongono di valutare se il cambiamento statistico determini effettivamente un cambiamento clinico. Va aggiunto che, come messo in evidenza da Leichsenring e collaboratori, i dati sull’efficacia di un tipo di trattamento rispetto a un altro possono dipendere anche dagli strumenti utilizzati per rilevarli (per cui sarebbe importante includere, tra gli indicatori di outcome, anche il parere di clinici esperti).
Esistono tuttavia numerose ricerche sull’efficacia delle terapie dinamiche che utilizzano strumenti ben validati – penso in primis agli studi condotti in Norvegia dal gruppo di Rolph Sandell (1996, 1999, Sandell et al. 2000) e a quello condotto a Helsinky da Knekt e Lindfors nel 2004. D’altra parte, abbiamo studi come quello coordinato da Leuzinger-Bohleber (2002) della Società Tedesca di Psicoanalisi e quello coordinato da Norbert Freedman (Freedman et al. 1999) per l’Institute for Psychoanalytic Training and Research (IPTAR) di New York, che hanno dimostrato l’effectiveness dei trattamenti psicoanalitici facendo appello anche all’esperienza diretta degli ex-pazienti. Anche il mio gruppo, nel suo piccolo, grazie al minuzioso lavoro su trascritti di sedute psicoanalitiche audioregistrate (ultimamente un gruppo di ricercatori della Sapienza coordinati da Francesco Gazzillo ha valutato empiricamente le sedute di una terapia psicoanalitica effettuata da Merton Gill) ha condotto degli studi clinico-empirici su casi singoli di pazienti in analisi che mostrano proprio come le psicoanalisi possano favorire miglioramenti ad ampio raggio nelle condizioni di vita e nelle risorse psicologiche dei pazienti (Lingiardi, Shedler, Gazzillo, 2006; Lingiardi, Gazzillo, Waldron , 2010; Gazzillo, Waldron, Lingiardi et al., in progress).
Anche l’ultimo punto sottolineato da Corbellini è centrale per la ricerca in psicoterapia. Il risultato principale degli studi condotti fino a oggi sulle psicoterapie brevi o a tempo determinato, infatti, è che tutte le psicoterapie sono più efficaci di un placebo o del semplice passare del tempo, ma nessuna è più efficace delle altre. È il famoso “verdetto di Dodo”, chiamato così nel 1975 proprio da uno dei padri della ricerca in psicoanalisi, Lester Luborsky (vedi anche Wampold, 2001). Questo dato, replicato più e più volte nel corso degli ultimi quarant’anni, ha dato vita a tutta una serie di ricerche tese a indagare i “fattori comuni” alle diverse forme di psicoterapia, proprio in base all’idea che se tutti i trattamenti hanno risultati equivalenti, allora a essere attivi in una psicoterapia sono dei fattori comuni ai diversi modelli di intervento. Tra i modelli più eleganti elaborati per spiegare questo dato citiamo quello di Jerome Frank (vedi Frank, Frank, 1991) e quello che emerge dalle ricerche sulle “relazioni terapeutiche che funzionano” sintetizzati da Norcross (2011). E, come è noto, uno dei fattori aspecifici più correlato all’esito delle psicoterapie è l’alleanza terapeutica, un fattore di chiara origine psicoanalitica (Lingiardi, 2002) oggi proficuamente “recuperato” anche dai colleghi di orientamento cognitivista-interpersonale. Negli ultimi anni, però, abbiamo iniziato a ipotizzare che il verdetto di Dodo sia almeno in parte un artefatto delle procedure e degli strumenti empirici utilizzati in ambito di ricerca: per dimostrare l’efficacia dei trattamenti, infatti, la maggior parte delle ricerche sull’esito delle psicoterapie fino ad oggi ha utilizzato esclusivamente misure dei sintomi, penalizzando così le terapie dinamiche che perseguono cambiamenti a più ampio raggio della personalità che non possono essere evidenziati con strumenti che valutano i soli sintomi (vedi, per es., Gordon & Nath, 2010). E altre ricerche sembrano suggerire che, in realtà, anche i terapeuti cognitivo-comportamentali ricorrano a interventi di tipo dinamico, e che siano questi interventi a favorire il buon esito dei trattamenti (vedi, per esempio, Ablon, Jones, 1998; Høglend et al., 2008, Høglend et al. 2010, Waldron & Helm, 2005, Waldron et al. 2004). A questo proposito, i risultati di una ricerca, che abbiamo da poco pubblicato su Psychotherapy, su un campione di 60 sedute di terapie dinamiche e cognitive sembrano indicare come siano proprio gli interventi di natura più dinamica a condizionare l’outcome positivo delle singole sedute e la qualità dell’alleanza terapeutica (Lingiardi, Colli, Gentile, Tanzilli, 2011).
Dunque, anche se queste ricerche bottom-up (dall’analisi empirica del processo terapeutico all’individuazione post-hoc dei suoi fattori attivi) sono ancora agli inizi, i loro risultati non sembrano penalizzare le psicoanalisi e i fattori terapeutici su cui esse fanno leva. Anzi.
3 – In quale misura conviene che utenti e professionisti tengano conto, nello scegliere il tipo di trattamento, dei dati che emergono dalla ricerche empiriche sul rapporto tra tipo di psicoterapia e tipo di psicopatologia?
A quest’ultima domanda rispondo con un auspicio, quello che non siano gli utenti a doversi informare su quali siano i trattamenti che più probabilmente li aiuteranno, ma che siano i professionisti della salute mentale a saper indicare, in base alla propria esperienza clinica e ai dati delle ricerche empiriche, quale sia il tipo di terapia più efficace per i loro problemi. È vero che, al momento, non ne sappiamo abbastanza, ma qualcosa sappiamo. La cosa più importante che sappiamo, a mio avviso, è che non sono i problemi del paziente a doversi adattare al modello teorico/clinico del terapeuta, ma esattamente il contrario. Che è il modello clinico che deve adattarsi alle caratteristiche e alla psicopatologia del paziente. E anche alle sue tasche. Un approccio psicoanalitico che ha saputo fare i conti con la tradizione e che, nelle sue varie declinazioni post (post-freudiano, post-kleiniano, post-junghiano, ecc) sa essere contemporaneo, può essere senz’altro il trattamento indicato per pazienti con organizzazione nevrotica della personalità, ma sappiamo anche che un paziente con organizzazione borderline è meglio inviarlo, dopo aver ben valutato la sua impulsività e la sua capacità di mentalizzazione, a una terapia focalizzata sul transfert (TFP; Clarkin, Kernberg, Yeomans, 1999), oppure a una terapia basata sulla mentalizzazione (MBT; Bateman, Fonagy, 2004, 2010) o a una terapia dialettico-comportamentale (DBT, Linehan, 1993). Così come sappiamo che se una persona cerca aiuto per superare una fobia specifica o il tormento degli attacchi di panico, e magari non ha le risorse o le motivazioni necessarie per iniziare un’analisi, allora è meglio inviarla da uno psichiatra per una terapia farmacologica o a un intervento cognitivo-comportamentale. E che non ha alcun senso sottoporre ad analisi un paziente psicotico seriamente compromesso in assenza di un’adeguata farmacoterapia e di un buon sostegno psico-sociale.
Numerose ricerche sembrano peraltro dimostrare che l’efficacia di una psicoterapia dipende anche dalla congruenza tra il modo in cui un individuo ha costruito il senso delle sue difficoltà e gli assunti sul funzionamento mentale sano e patologico del modello teorico del terapeuta a cui si rivolge, e che rispetto a alcuni problemi, come l’abuso di cocaina, nessuna psicoterapia è particolarmente promettente. Non esiste, insomma, una psicoterapia che vada bene per tutti. E tantomeno una psicoanalisi. Esistono bravi clinici che, sulla base di un buon assessment diagnostico (che comprende la valutazione di molte variabili di contesto, psicologiche, sociali, economiche), della conoscenza dei modelli clinici e dei risultati della ricerca empirica sanno qual è l’invio da fare o da non fare per quel dato paziente.
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