La pratica oggi sempre più diffusa di chiedere a ogni trattamento terapeutico di presentare credenziali di efficacia con prove scientificamente controllate (evidence-based practice) sembra a molti psicoanalisti impraticabile per una disciplina come la psicoanalisi, troppo sofisticata sul piano tecnico e troppo complessa sul piano teorico per sopportare i limiti imposti dai metodi della ricerca empirica. Ma ancor prima e al di là della sfiducia, o scetticismo, nella possibilità di render conto con studi empirici della complessità della cura psicoanalitica, c’è la convinzione che essi siano incompatibili con i fondamenti e le peculiarità della psicoanalisi, se non addirittura che le ‘facciano male’.
Questa mentalità, secondo cui l’analisi è un percorso auto-conoscitivo unico che per sua natura non può venire sottoposto a forme di conoscenza oggettive e misurabili, è responsabile del fatto che a tutt’oggi gli psicoanalisti abbiano una conoscenza piuttosto ridotta dei risultati degli studi empirici sulla sua efficacia, (v. Lingiardi & Ponsi (2013). L’utilità della ricerca empirica per la psicoanalisi, Riv.Psicoanal.LIX (4): 885-909).
In realtà la mole dei dati empirici che abbiamo oggi a disposizione sugli esiti e i processi dei trattamenti psicoanalitici non è affatto trascurabile: la loro diffusione nella comunità psicoanalitica, in particolare fra gli analisti in formazione, insieme alla conoscenza dei metodi di ricerca quantitativi e qualitativi, è necessaria per mantenere la psicoanalisi nei contesti della cura e anche per contrastare, come dice P.Fonagy, il suo tradizionale “non così splendido isolamento” (Fonagy (2003). Genetics. developmental psychopathology, and psychoanalytic theory: The case for ending out (not so) splendid isolation. Psychoanal.Inquiry, 23 (2):218-247).
E’ sulla base di questa prospettiva che A.Lemma, P.Fonagy e M.Target hanno utilizzato i presupposti e i metodi clinici della psicoanalisi per mettere a punto un tipo di psicoterapia breve la cui efficacia potesse essere validata e confrontata con altre psicoterapie non-psicoanalitiche erogate dal servizio pubblico britannico.
Ne è scaturito un modello di trattamento breve, in 16 sedute, per il trattamento della depressione moderata e grave, praticato da terapeuti addestrati ad hoc, ma già in possesso di una formazione psicoanalitica-psicodinamica.
Nell’articolo pubblicato nel 2013 su Psychoanalytic Inquiry e del quale viene qui presentato un breve riassunto, i tre autori inglesi illustrano i presupposti che hanno guidato la struttura e la messa in opera della DIT (Terapia Dinamica Interpersonale).
L’elaborazione di strumenti di ricerca utili a dimostrare con metodi scientifici l’efficacia del trattamento analitico non è solo una necessità oggi ineludibile, ma può anche costituire una sfida utile allo sviluppo stesso della psicoanalisi, perché, come dicono gli autori, la cultura della pratica basata sulle evidenze ha indotto i clinici a “<…> portare l’attenzione non solo sull’importanza della valutazione sistematica di ciò che gli analisti fanno per monitorare la qualità di ciò che offrono ai pazienti, ma anche sulla spinosa questione della competenza dei terapeuti: come si definisce tale competenza, come la si incrementa e come la si valuta ” (p.553).
Nella prima parte di questo articolo (pp. 553-554) vengono descritte Le origini della Terapia Dinamica Interpersonale (DIT) L’esigenza di mettere a punto un modello di trattamento psicoterapeutico ispirato alla psicoanalisi è nato dal fatto che nel servizio pubblico inglese il trattamento psicoterapeutico di scelta per le patologie depressive era costituito dalla Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT, Cognitive Behaviour Therapy). Se è indubbio che le prove di efficacia della CBT ne testimoniano la capacità di essere di aiuto per i pazienti depressi, ciò non implica che tale psicoterapia debba essere il trattamento indicato per tutti i pazienti depressi; non deve in altre parole valere il principio “one-size-fits-all” – il principio della ‘taglia unica’ che va bene per tutte le misure.
Il lavoro di costruzione di una terapia psicoanalitica che rispondesse ai requisiti necessari a un’inclusione nel Registro dei trattamenti accreditati è iniziato con una ricognizione accurata dei tipi di trattamento psicoanalitico / psicodinamico la cui efficacia era stata accertata con metodi controllati e che facevano uso di procedure di applicazione ben definite: e cioè di manuali.
Per individuare gli studi più significativi, gli autori si sono basati sulle rassegne di Roth & Fonagy (2005) e sul materiale con i dati sulle ricerche, gli esiti e l’efficacia, presente nel database del National Institute for Health and Clinical Excellence (NICE). Sono stati così selezionati gli studi che mostravano una buona qualità clinica e che avevano fatto uso di manuali per il trattamento. Di tali manuali è stato soprattutto studiato il tipo di competenza richiesta al terapeuta, in modo da enucleare gli aspetti specifici e fondamentali della pratica psicoterapeutica psicoanalitica. A integrazione di tali manuali sono stati usati vari testi noti (come ad esempio quelli di Greenson e di Etchegoyen) nei quali si trovava una buona spiegazione della terminologia psicoanalitica e che fornivano una descrizione chiara del modo in cui i concetti venivano tradotti nella pratica clinica.
Le tecniche e le strategie che stanno alla base della DIT riflettono dunque le competenze che sono state giudicate caratteristiche dei modelli di psicoterapia psicoanalitica che sono stati sottoposti a una valutazione controllata e che sono risultati efficaci. La DIT usa dunque metodi tratti dalle terapie dinamiche manualizzate: queste quindi sotto vari aspetti si somigliano in quanto condividono presupposti e procedure simili.
Inoltre, nel costruire il manuale per la DIT, è stata prestata una particolare attenzione al contesto teorico nel quale il terapeuta opera, e cioè agli scopi che persegue e al perché agisce in un certo modo piuttosto che in un altro: in pratica, anche sulla base della varietà della formazione dei terapeuti da addestrare alla DIT, gli autori hanno fatto riferimento alla teoria delle relazioni oggettuali, alla teoria dell’attaccamento, e alla psicoanalisi interpersonale.
Come altri approcci a orientamento psicodinamico di breve durata, i principi a cui si ispira la DIT sono quelli che stanno alla base di tutte le terapie psicoanalitiche, e cioè: – il ruolo delle esperienze infantili nello strutturare il comportamento che si riscontra successivamente nell’età adulta; – le forze esterne e interne che condizionano la percezione di noi stessi in rapporto con gli altri; – la forza motivazionale proveniente da un’area inconscia di esperienza mentale; – i processi proiettivi e introiettivi che stanno alla base dell’esperienza soggettiva delle relazioni; – l’ubiquità del transfert, secondo cui i pazienti rispondono agli altri (e anche al terapeuta) ripetendo modelli appresi nel corso della vita.
I tre autori passano poi a discutere il modello psicodinamico per la depressione (p. 554-555) e la struttura del modello di intervento breve (16 sedute) per il suo trattamento.
Nella depressione si stabilizza uno specifico pattern auto-distruttivo, corrispondente alla risposta (inconscia) nei confronti di un legame di attaccamento, o nei confronti di un’integrità e accettabilità di sé che si teme di perdere. Il conflitto inconscio è da mettere in rapporto all’instabilità delle rappresentazioni di sé e dell’altro e all’insicurezza nei legami di attaccamento, che sono responsabili di tutta quella serie di distorsioni nell’area cognitiva e affettiva che è tipico della patologia depressiva.
Durante il trattamento è importante mantenere il focus sulla crisi emozionale, e cioè sull’elaborazione dei pensieri, dei sentimenti e delle aspettative (coscienti e inconsce) che in modo caratteristiche per ogni paziente sono risultate rilevanti per la sua depressione. Tale focus viene formulato individualmente, caso per caso, e concordato in modo esplicito con il paziente. Anche la relazione transferale viene esplorata, al fine di aiutare il paziente a capire come reagisce a ciò che percepisce come un pericolo. Egli viene aiutato a riflettere su di sé, sui propri pensieri e sui propri sentimenti e a confrontarsi in modo più consapevole con le proprie angosce.
Essendo una psicoterapia manualizzata, la struttura della DIT (pp. 555-558) prevede tre fasi nello svolgimento: l
1 – nella prima fase, che comprende quattro sedute, l’obiettivo è di formulare il focus interpersonale e affettivo significativamente collegato all’insorgenza dei sintomi depressivi (IPAF : Formulating the Interpersonal-Affective Focus);
2 – nella fase intermedia, che comprende otto sedute (dalla 5° alla 12°), il terapeuta aiuta il paziente a mantenere l’attenzione sui contenuti e gli stati affettivi messi a fuoco nella prima fase. Nell’aiutarlo a lavorare sulle rappresentazioni di sé e degli altri che stanno alla base dei pattern relazionali problematici, viene fatto uso delle interpretazioni di transfert: queste però, a differenza delle terapie psicoanalitiche di più lunga durata, più che a produrre insight sono finalizzate a coinvolgere attivamente il paziente nell’esplorazione dei suoi stati mentali e delle sue modalità relazionali;
3 – nella terza fase (dalla 13° alla 16° seduta) il focus è sui vari aspetti implicati nella fine del trattamento: sul significato dell’esperienza affettiva, sulla valutazione dei progressi fatti, sull’anticipazione delle difficoltà future, sui significati inconsci esplorati nel corso del trattamento e sulle fantasie inconsce evocate dalla separazione. Inoltre, nelle ultime sedute, il terapeuta scrive per il paziente una lettera di commiato (… questa idea è stata presa da una terapia a orientamento cognitivista) e invita il paziente a parlarne insieme.
Essendo la DIT è una terapia manualizzata, gli scopi da perseguire sono definiti fin dall’inizio e guidano l’attività del terapeuta. Gli autori tuttavia mettono a più riprese in evidenza che tali scopi devono essere realizzati con buon senso e flessibilità, e non in modo rigido:
“Un terapeuta armato di conoscenza di strategie e di tecniche terapeutiche ma sprovvisto di una comprensione del modello psicodinamico non sarà probabilmente un terapeuta competente. Noi consideriamo l’approccio manualizzato come una guida al trattamento, che intende descrivere i principi della terapia in termini generali coerenti con il modello prescelto. Una competenza fondamentale quando si pratica la DIT è indubbiamente la capacità di adattare l’approccio a ogni singolo e specifico paziente, al modo in cui egli funziona dentro di sé e nel suo contesto di vita, in ogni specifico momento della terapia. La comprensione di queste variabili altamente idiosincratiche determinerà il modo migliore di intervenire, e questo può anche implicare di uscire dal manuale. Avere in mente il manuale favorisce la chiarezza e la coerenza nell’applicazione del modello ma anche la disciplina nel processo decisionale clinico. Obbliga a pensare in modo esplicito a perché si può decidere di fare qualcosa di diverso da quello che è prescritto nel manuale“. (p. 555)..
Gli autori si soffermano poi sugli aspetti tecnici più rilevanti che caratterizzano la DIT (pp. 558-561) illustrandoli successivamente con un caso clinico (pp. 561-565):
a) il focus sul qui-e-ora, su quanto il paziente vive nel momento della seduta.
Il monitoraggio attento dello stato emotivo del paziente e la comunicazione di quanto si è compreso hanno lo scopo di aiutare il paziente a riconoscere i suoi sentimenti, a differenziarli dalle azioni e a collegarli con il comportamento (ad esempio: “Ho saltato la seduta della settimana scorsa perché quando sono angosciato voglio evitare di incontrarla: penso infatti che lei mi trovi noioso e demoralizzato”). Avere il focus sul presente significa indirizzare l’attenzione su quanto avviene nelle relazioni attuali – in particolare quella col terapeuta (transfert) – piuttosto che alle vicende infantili, dove può esserci la radice delle difficoltà attuali;
b) il focus sulla mente del paziente.
Questo punto differenzia la DIT dalle terapie cognitivo-comportamentali, in quanto le modalità relazionali vengono esplorate non indirizzandosi al comportamento del paziente, ma mantenendo il focus sugli stati mentali propri e altrui (credenze, sentimenti, desideri, pensieri). Ciò che si vuole trasmettere è la qualità di un’esperienza – l’esperienza di poter condividere con una persona attenta e ricettiva i motivi della propria sofferenza e al contempo ricevere da essa degli stimoli per riflettere meglio su di sé, sul proprio funzionamento mentale. Si vuole insomma creare un’atmosfera collaborativa e un contesto in cui paziente e terapeuta lavorano insieme – qualcosa che sia differente da un contesto in cui c’è un esperto che sa, che capisce e che fornisce spiegazioni e istruzioni;
c) l’atteggiamento terapeutico.
Il terapeuta DIT assume un atteggiamento empatico, coinvolto, ricettivo ai feed-back del paziente, il più trasparente possibile riguardo a ciò che ha capito e a ciò su cui ritiene di rivolgere l’attenzione. Non si pone come ‘quello-che-sa’: esprime piuttosto una sorta di curiosità nell’attività esplorativa che porta avanti insieme al paziente. In questo modello di terapia breve è in genere più utile incoraggiare e sostenere le capacità auto-riflessive del paziente sulla propria esperienza immediata che fornire interpretazioni di materiale inconscio profondo.
d) le tecniche.
Un aspetto centrale della tecnica DIT è quello di restare molto aderenti al focus definito nella fase iniziale (v. IPAF : Formulating the Interpersonal-Affective Focus). Avendo in mente questo obiettivo, la DIT utilizza liberamente sia tecniche di sostegno che tecniche espressive, come la chiarificazione, la confrontazione e l’interpretazione; talora usa anche tecniche direttive per rinforzare il cambiamento. Le tecniche supportive sono particolarmente indicate con pazienti gravemente depressi oppure con un significativo disturbo di personalità precedente all’insorgenza della depressione.
Anche se nella DIT si fa un uso (accorto) del silenzio, in generale il terapeuta è assai più attivo di quanto non sia nelle psicoterapie psicoanalitiche di lunga durata. Tale attività non comporta comunque il dare consigli; piuttosto il terapeuta è attivo nel cogliere i momenti in cui il paziente si discosta dal focus condiviso per ricondurlo su tale punto. Un’altra area in cui vengono spesso usate tecniche direttive è quella del cambiamento – sia nel rinforzarlo quando comincia a verificarsi sia nell’incoraggiare il paziente a esplorare modi diversi di gestire il conflitto con qualche persona significativa, senza comunque dare compiti da svolgere a casa. Queste tecniche direttive non-specifiche sembrano avere un sottile impatto strutturante sul modo in cui il paziente si rapporta alla sua esperienza.
Nell’usare tecniche attive il terapeuta DIT tiene sempre conto del significato che questo atteggiamento può avere per il paziente. Ad esempio, un paziente ansioso, che ha paura della separazione, può manifestare molta disponibilità a osservare i suggerimenti del terapeuta, che tende a utilizzare come un modo efficace di conservare il legame con lui: se non li osservasse, si sentirebbe esposto al rischio di perderlo. In un caso di questo tipo, il sostegno e l’incoraggiamento servirebbero a poco; il terapeuta deve piuttosto sintonizzarsi con il desiderio inconscio del paziente di compiacere il terapeuta, e parlargliene, sempre collegandolo alle tematiche messe a fuoco all’inizio della terapia, cioè all’IPAF (Formulating the Interpersonal-Affective Focus).
e) l’uso di misure di esito.
Nel protocollo-DIT, anche per motivi legati alle pratiche in uso nei servizi pubblici inglesi, c’è anche un breve questionario che il paziente riempie all’inizio di ogni seduta. E’ una pratica che appare invadente, soprattutto a un terapeuta formato psicoanaliticamente. Ma gli autori hanno notato che, di fatto, è risultata più intrusiva per i terapeuti che per i pazienti. E’ uno strumento che, se ben utilizzato, può essere utile a far procedere il lavoro terapeutico. Ad esempio, nel caso di un paziente che dagli item del questionario sui sintomi presentava un punteggio ancora assai alto e che invece nella relazione terapeutica risultava molto migliorato, fu molto utile confrontarlo con questa discrepanza: ciò permise di capire come questo paziente, a livello del transfert, volesse punire la sua terapeuta privandola della prova documentata, che essa avrebbe potuto condividere con altri, che la terapia funzionava – un enactment, questo, che rimandava al risentimento che covava verso la madre.
Dopo un’estesa illustrazione clinica (pp. 561-565), gli autori riassumono in cinque punti la strategia che un terapeuta della DIT dovrà seguire (p.565): a) identificare un problema relativo all’attaccamento, collegato a uno specifico focus relazionale emozionale radicato in un conflitto dinamico, che il paziente riconosce come significativo per la sua depressione; (b) lavorare in modo collaborativo con il paziente al fine di creare una rappresentazione sempre più mentalizzata delle questioni interpersonali sollevate dal problema; (c) incoraggiare il paziente a esplorare la possibilità di modi alternativi di sentire e pensare (giocando con una realtà interna e esterna nuova), utilizzando attivamente la relazione di transfert per portare in primo piano le modalità caratteristiche che il paziente di stare in relazione ; (d) assicurarsi che venga fatta una riflessione sul processo terapeutico; (e) verso la fine del trattamento presentare al paziente un testo scritto che egli dovrà conservare per ridurre il rischio di ricaduta (che è notoriamente molto probabile nella depressione): in tale testo deve essere contenuta una descrizione riassuntiva della persona del paziente così come è stata collaborativamente rappresentata nel corso della terapia insieme all’area della conflittualità inconscia su cui si è concentrato il lavoro terapeutico.
Vengono infine segnalati le ricerche in programma sugli esiti della DIT, sia in un confronto con pazienti trattati con iniziative di sostegno di vario tipo, non specifiche, sia con pazienti trattati con una Terapia Cognitivo Comportamentale (CBT).
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La DIT dispone di un sito web dedicato, coordinato da Lemma, Fonagy e Target, patrocinato dall’A.Freud Centre e dal Tavistock & Portman NHS Foundation Trust. Vi si trovano sintetiche e chiare spiegazioni sul modello di trattamento, su come si è sviluppato e sulle differenze rispetto ad altre forme di psicoterapia, sul training per diventare terapeuti DIT, sui corsi in UK e in altri paesi (Brasile, Danimarca, Olanda), sui supervisori accreditati.
Le informazioni relative alla ricerche in corso sulla DIT (efficacia e confronto con la Terapia Cognitivo Comportamentale (CBT), valutazioni con la Risonanza Magnetica Funzionale) si trovano in una sezione a parte, sul sito web Randomised Evaluation of Dynamic Interpersonal Therapy ( REDIT ).
( a cura di Maria Ponsi )