J. KOUNELLIS, 1961
Riolo ci ricorda che il compito della psicoanalisi, e oggetto del metodo clinico, è la genesi inconscia dei contenuti della coscienza.
Il compito, dopo il contributo di W.R.Bion, richiede però nuovi strumenti e nuove teorie. Questo imporrebbe agli analisti, di affrontare l’intollerabile confronto con emozioni e forze così intense da sottometterci facilmente al loro dominio.
(Questo intervento è la rielaborazione di una parte dell’articolo “Lo statuto psicoanalitico di inconscio: prospettive attuali”,
pubblicato nel 2009 sulla Rivista di Psicoanalisi).
Le teorie scientifiche nascono, diceva Karl Popper, dall’idea che il mondo come ci appare sia lo strato più
esterno di una realtà sottostante. Congetturare quale sia questa realtà è l’audacia che sta alla base di ogni scienza.
L’audacia di Freud fu di trascurare ‘i fatti’ della coscienza per cercare la loro spiegazione al di là della coscienza
e dei fatti: “Il diventare cosciente è per noi un particolare atto psichico, indipendente e distinto dal processo di formazione del contenuto ideativo; e la coscienza ci appare come un organo di senso che percepisce un contenuto che è stato generato altrove. (…) di questa ipotesi fondamentale non possiamo assolutamente fare a meno.” (Freud 1900, trad.it. da G.W. 2, 149; O.S.F. 3, 140).
L’indagine sulla genesi inconscia dei contenuti della coscienza è di conseguenza il compito fondamentale della psicoanalisi e l’oggetto del metodo clinico. La legittimità di questo metodo si basa sul presupposto che
l’inconscio, in sé inconoscibile e ineffabile (a-fané), in quanto altro dalla rappresentazione e dal linguaggio della coscienza, irrompe nel territorio della rappresentazione e della coscienza con le sue manifestazioni, le sue fanìe;
e attraverso queste diviene suscettibile di essere indagato e di pervenire alla “effabilità”. Ne consegue che l’inconscio che possiamo indagare è prevalentemente (anche se, come dirò, non esclusivamente) un inconscio rappresentazionale, le cui forme sono Vorstellungen, Darstellungen, Entstellungen: idee, figurazioni, deformazioni.
Ma il limite fin dove queste espressioni ci assistono è continuamente travalicato dal confronto con i fenomeni drammatici e incomprensibili con i quali ci cimentano i nostri pazienti di oggi; fenomeni che sconfinano nel
territorio che è al di là della rappresentazione. Io penso che i modi in cui questo territorio si declina nel
suo rapporto con lo psichico, costituiscano per la psicoanalisi una sfida cui siamo chiamati a rispondere: la sfida della rappresentabilità.
Non si tratta di un problema nuovo. Già Freud, negli Studi sull’isteria, aveva parlato di “pensieri che non sono mai
stati formulati e per i quali si dava una possibilità d’esistenza solo virtuale; cosicché (per questi) la terapia consisterebbe nel completamento di un atto psichico precedentemente incompiuto.”
(Freud, 1895, 1, 435)
Freud anticipava qui quello che sarà per l’analisi un nuovo compito: non soltanto il recupero dei ricordi rimossi, ma il completamento di quegli atti psichici rimasti incompiuti poiché “non formulati in pensieri”: impulsi emotivi,
esperienze e affetti non riconosciuti e non pensati; e tuttavia psichicamente influenti, poiché “persistendo immutati, esercitano un potere d’attrazione nei confronti delle esperienze posteriori”. E poiché non si esprimono in forma di
pensieri, si ripresentano in forma di ‘sensazioni’ e ‘azioni’.
Un ruolo cruciale svolge in questo processo il meccanismo del “rigetto” (Verwerfung); la cui comparsa nel pensiero di Freud è altrettanto precoce:
“Ma esiste una forma di difesa, più energica ed efficace (della rimozione), che consiste nel fatto che l’Io rigetta (verwirft) la rappresentazione incompatibile unitamente al suo affetto e si comporta come se all’Io la rappresentazione non fosse mai pervenuta. (…) Questa è, a mio avviso, la condizione che consente di dar vita allucinatoriamente alle proprie rappresentazioni.” (Freud, 1894, trad.it. da G.W. 1, 72; O.S.F. 2, 132-133). Il concetto è ripreso nel caso dell’Uomo
dei lupi: “Coesistevano in lui, l’una accanto all’altra, due correnti contrarie, una delle quali rifiutava la castrazione, mentre l’altra era disposta ad accettarla e a consolarsi con la femminilità come sostituto. Ma era ugualmente attiva anche una terza corrente, la più antica e profonda, che aveva semplicemente rigettato (verworfen) la castrazione, senza porsi neppure il problema del giudizio circa la sua realtà. Ho già riferito altrove di un’allucinazione che questo stesso paziente aveva avuto nel suo quinto anno d’età.” (Freud, 1914, trad.it. da G.W. 12, 117; O.S.F. 7, 558).
In entrambe le citazioni appare un collegamento tra Verwerfung e allucinazione.
La ragione sta nella natura di questo processo: poiché, a differenza del rinnegamento (Verleugnung), il rigetto comporta per Freud non una scissione dell’Io, ma “un’espulsione dall’Io” congiuntamente dell’affetto e della rappresentazione. Viene quindi sottratto investimento e significato sia al mondo esterno che al mondo interno e il
soggetto perviene per questa via “a un completo rimodellamento della realtà”.
Si apre di qui il ricorso all’allucinazione: “… Si presenta pertanto il compito di procurarsi percezioni tali da poter corrispondere alla nuova realtà che il soggetto si è creato; e l’allucinazione è la strada più radicale per raggiungere questo intento.” (Freud, 1924, trad.it. da G.W. 13, 366; O.S.F. 10, 42). Il rigetto del contenuto psichico esita dunque nella “realizzazione allucinatoria”. Un esempio particolarmente significativo di questo processo è la psicosi anoressica, nella quale al rigetto della realtà corrisponde il tentativo di creare un nuovo mondo perfetto, esente dai limiti che la realtà imponeva; e “il corpo è lo strumento e l’oggetto di questa creazione” (Camassa, 1998, 471)
La portata e le conseguenze del rigetto sono perciò molto diverse da quelle della rimozione.
Qui non si tratta del mancato avvento di determinati contenuti psichici alla coscienza; bensì della loro “abolizione” quali contenuti psichici e dunque della possibilità stessa di coscienza come di inconscio. In quanto comporta l’evacuazione della realtà interna in quella esterna, il rigetto esita in un collasso del mentale nel reale.
In questo, tra i presupposti di Lacan e di Bion sussiste una forte corrispondenza: poiché per entrambi il rigetto porta non più alla distinzione tra conscio e inconscio, ma a quella tra la realtà psichica e la realtà sensoriale.
La differenza però sta nel fatto che, mentre per Lacan (1954) la forclusion, in quanto espulsione dell’ordine simbolico, non può essere recuperata al lavoro di significazione; Bion ritiene invece possibile annettere all’indagine dell’analisi anche il territorio trans-liminare delle desimbolizzazioni – le “trasformazioni in allucinosi” (Bion, 1965), quali
processi reciproci ( « ) rispetto a quelli di simbolizzazione – le “trasformazioni lineari” e “proiettive”. La doppia direzione della freccia indica la bidirezionalità tra il processo di trasformazione (alfa) degli elementi somatici, emozionali e sensoriali in elementi rappresentazionali; e il processo di trasformazione inverso (beta) dei pensieri e contenuti psichici in esperienze somatiche e sensoriali.
Il che comporta una distinzione, necessaria anche dal punto di vista clinico, tra ciò che – sensazione, affetto, pulsione – non è ancora rappresentazione e significato, poiché non è mai stato pensato; da ciò che – allucinazione, somatizzazione, azione – non è più rappresentazione né significato, poiché è stato evacuato in un fatto sensoriale. Laddove il primo richiede il compimento di un lavoro psichico incompiuto; il secondo esige molto di più: il ripristino della funzione rappresentativa abolita. Sto parlando della sfida della rappresentabilità.
Estenderemo la nostra indagine non solo al di là del rimosso, ma al di là della rappresentazione? Non avanzerei una troppo facile risposta, se posso confidarvi un sentimento di vertigine dinanzi a un simile compito. In primo luogo, perché tale compito non può essere svolto nel rassicurante territorio dei concetti e delle teorie; ma ci impone di affrontare l’intollerabile confronto con emozioni e forze così intense da sottometterci facilmente al loro dominio. A meno di non fare come quegli psicoanalisti, di cui parlava Bion, che usano adornarsi di psicotici come di piume sul cappello.
Ma quel compito richiede anche nuovi strumenti e nuove teorie; poiché quelli di cui disponiamo, come dicevo all’inizio, ci assistono nell’inoltrarci nel pur vasto territorio del rappresentabile, ma poco più in là di questo.
Manterrei perciò aperto l’interrogativo sulla possibilità di estendere il campo operativo dell’analisi all’ambito delle espressioni asimboliche. Tale possibilità dipenderà alla fine dalla capacità, da parte dell’analisi, di consentire la trasformazione di quelle espressioni in contenuti rappresentativi – parole, immagini, sogni, associazioni, ricordi – adeguati ad accogliere significati psichici: un compito di conferimento di esistenza psichica a quel livello dell’esperienza che non è ancora, o non è più, pensiero.
BIBLIOGRAFIA
Bion W.R. (1965), Transformations, Heinemann. Trad.it. Traformazioni, Armando ed., Roma, 1973
Camassa P. (1998), “Anoressia”. Riv. Psa., 1998, 3.
Freud S. (1894), “Le neuropsicosi da difesa”, G.W. 1. O.S.F. 2
Freud S. (1895), Studi sull’isteria, O.S.F. 1.
Freud S. (1900), L’interpretazione dei sogni, G.W. 2. O.S.F. 3
Freud S. (1914), “Dalla storia di una nevrosi infantile”, G.W. 12. O.S.F. 7
Freud S. (1924), “La perdita della realtà nella nevrosi e nella psicosi”, G.W. 13. O.S.F. 10
Lacan J. (1954), « Introduction au commentaire de Jean Hyppolite sur la ‘Verneinung’ de Freud ». Ecrits, Ed. du Seuil, 1966. Trad. it. Scritti, Einaudi ed., Torino, 1974
Riolo F. (2009), “Lo statuto psicoanalitico di inconscio: prospettive attuali”. Riv.Psa. 2009, 1.
1/4/2010