ALBERTO BLASI
Il numero 4 del 2021 della Rivista di Psicoanalisi ha pubblicato un’importante lavoro a firma del Gruppo di Ricerca Psicoanalisi e Metodo Scientifico, condotto dal 2014 al 2021 e coordinato da Fernando Riolo. Volentieri pubblichiamo la risposta di F. Riolo al commento di F. De Masi
Fernando Riolo
Risposta all’intervento di Franco De Masi
Ringrazio Franco De Masi per la sua attenta interlocuzione. La sintesi all’inizio del commento è esemplare; e anche il discorso successivo è interessante e in gran parte lo condivido. Mi limiterò ad aggiungere qualche considerazione.
La prima è che ciò che De Masi ascrive ai modelli (ipotesi provvisorie suscettibili di ampliamenti successivi) è vero, ma vale non diversamente per le teorie. Una teoria scientifica è un costrutto ipotetico, un tentativo organico di spiegazione di un campo di fenomeni osservabili, suscettibile di essere integrato e superato da approssimazioni migliori. Per cui, come afferma Popper, tutte le teorie scientifiche sono sistemi aperti e provvisori; una teoria “chiusa” non è una buona teoria. E gran parte delle nostre teorie lo sarebbero se le loro cristallizzazioni di scuola non ne facessero sistemi ideologici totalizzanti. Ma una buona teoria deve essere anche coerente e falsificabile, e per poter esserlo non può affermare al contempo una cosa e il suo contrario. Se io dico: ‘La lotta tra pulsione di vita e pulsione di morte determina tutta la vita psichica’ (Klein); qualcun altro dice: ‘La pulsione di morte semplicemente scompare perché non è necessaria’ (Winnicott); e un altro ancora: ‘La pulsione non è la configurazione psichica primaria, ma sorge come risultato del fallimento dell’ambiente Sé-oggetto Sé empatico’ (Kohut); queste asserzioni sono mutuamente escludenti (e proprio grazie a questo possono essere falsificate l’una dall’altra, ma per lo stesso motivo non possono essere tutte ugualmente vere). Come potrebbero dunque coesistere tutte e tre insieme nella teoria e nella pratica clinica? E infatti, come abbiamo cercato di mostrare attraverso la ricerca, da ciascuno di quegli assunti di base derivano concezioni, finalità dell’analisi e tecniche del trattamento molto diverse tra loro. Il che non toglie che ogni singolo analista sviluppi un proprio modello teorico-operativo che possa servirsi dell’apporto di più (non di tutte le) prospettive e lo impieghi nel suo lavoro, applicandolo in modi, tempi e combinazioni diverse in funzione delle esigenze dell’analisi del singolo soggetto.
Ma una scienza non può essere singolare e soggettiva. La singolarità e la soggettività sono componenti inevitabili, e anche indispensabili, delle nostre esperienze analitiche; ma se quelle esperienze non sono illuminate e vincolate da una teoria conducono inevitabilmente a condotte operative del “volo alla cieca” e ci espongono al rischio, oggi come mai attuale, della divaricazione progressiva tra un campo di esperienze cliniche particolari, sempre più eterogenee, e una proliferazione di teorie particolari prive di coerenza interna e inconfrontabili.
La questione è pertanto, come dice De Masi, quale statuto epistemologico annetteremo alla psicoanalisi, quale dei due orientamenti tra i quali la comunità psicoanalitica si è storicamente divisa si vuole perseguire: quello che assume che la psicoanalisi – pur con la specificità derivante dalla peculiarità del suo oggetto – è partecipe dello stesso orizzonte conoscitivo delle scienze della natura; o l’altro che ritiene che la psicoanalisi non abbia molto a che fare con esse e non possa farne parte; o anche che non sia proficuo che ne faccia parte. Nel primo caso, riterremo che lo sviluppo della ricerca dipenderà dalla nostra capacità di rispettare le procedure che sono proprie del metodo scientifico; nell’altro intenderemo il nostro lavoro come un’ars ermeneutica o terapeutica, rinunciando con ciò alla costruzione di una scienza della mente.
Come ho detto altre volte io penso che si debba proprio alla reciproca tensione e cooperazione tra quelle due dimensioni la peculiarità del metodo psicoanalitico e la sua fecondità; ma a patto di preservare le distinte funzioni di entrambe nel rendere non solo possibili, ma generalizzabili e confrontabili le nostre osservazioni e le nostre spiegazioni.
Vorrei dire perciò qualcosa a proposito dell’idea della psicoanalisi come “scienza a statuto speciale”: una formula che sembra risolvere la questione con un escamotage pacificatore. Quella formula è stata presa in realtà da Ernst Mach, che era un neo-positivista logico e non si sognò mai di usarla in quel senso. Il termine che adoperò era Spezialwissenschaft; che non vuol dire affatto scienze a statuto speciale, ma “scienze particolari”; intendendo con queste proprio le scienze della natura, che egli contrapponeva alla scienza metafisica con la sua pretesa di verità universale. Di qui la scelta del termine Spezial per indicare che le scienze sono saperi specializzati, i cui domini sono locali (Spezialgebiet), non universali. In questo senso tutte le scienze sono “speciali”, nella misura in cui hanno oggetti diversi e adoperano dispositivi specifici e diversi per osservarli e descriverli. Il loro comune statuto non dipende dalla natura degli oggetti (nel nostro caso oggetti-soggettivi), ma dalla condivisione dello stesso metodo – il metodo osservativo e deduttivo scientifico – e dello stesso compito – il compito della teoria. Che è per noi quello di ricondurre le esperienze singolari e soggettive che si presentano in analisi ai processi psichici responsabili della loro formazione; o, in altre parole, scoprire se quei fenomeni particolari e variabili che si offrono alla nostra osservazione obbediscono a proprietà e relazioni invarianti. Senza di che non sarebbe mai stata possibile alcuna psicoanalisi: né teorica, né clinica.