Kim Tschang-Yeul, 1969
Psicoanalisi, terapia e metodo scientifico
Francesco Gazzillo
In data 4 Febbraio 2022, sul sito dell’Istituto Superiore di Sanità, è stato pubblicato un documento di sintesi del lavoro della Consensus Conference realizzata per valutare i trattamenti psicologi dei disturbi d’ansia e dei disturbi depressivi e coordinata dall’Università di Padova. La Conference ha coinvolto numerosi accademici e professionisti italiani di ambito psicologico, psichiatrico, giuridico e del mondo dell’editoria.[1] A questa Consensus Conference ho partecipato in qualità di esperto delle ricerche sull’efficacia delle psicoterapie.
Il documento prodotto, frutto di un lavoro collegiale e interdisciplinare, risente di diversi interessi e sensibilità, delle diverse formazioni e dei vari orientamenti teorici di quanti hanno contribuito alla sua elaborazione, ed è stato decisamente influenzato dalle linee guida elaborate dal National Institute for Clinical Excellence (NICE) inglese, dall’America Psychiatric Association e dall’American Psychological Association, oltre che da altre importanti istituzioni internazionali.
Nonostante la sottolineatura delle differenze di funzionamento tra i sistemi sanitari inglese e americano e quello italiano, e i limiti delle ricerche
empiriche che hanno influenzato l’elaborazione delle diverse linee guida, quello che emerge è che la psicoanalisi non è mai presente tra i trattamenti di provata efficacia per ansia e depressione, mentre lo sono varie terapie cognitivo-comportamentali e le psicoterapie dinamiche brevi. Questa triste situazione è dovuta a più di un motivo.
La ricerca empirica sull’efficacia delle psicoanalisi è purtroppo scarsa (ma per nulla assente, come è possibile constatare leggendo una rassegna che ho scritto qualche anno fa con due colleghi[2]). È anche poco conosciuta e poco diffusa nelle istituzioni psicoanalitiche, così come è poco diffusa la pratica della verifica empirica dei risultati dei trattamenti e delle ipotesi teoriche e cliniche della psicoanalisi.
Questo fatto, insieme alla progressiva perdita di influenza politica e culturale delle istituzioni analitiche e alla scarsa integrazione del sapere psicoanalitico nel sapere scientifico contemporaneo, rischia di condannarci a una crescente marginalità rispetto alle decisioni sanitarie, politiche ed economiche del nostro paese, e purtroppo non solo del nostro.
Dal 2012, anno di pubblicazione della rassegna di cui sopra, a oggi, sono stati pubblicati altri studi sull’efficacia dei trattamenti psicoanalitici per la cura di disturbi dell’umore, soprattutto della depressione, e dei disturbi d’ansia. Di particolare rilievo lo studio di Huber, Henrich, Clarkin, Klug (2013), quello di Knekt, Lindfors, Sares-Jäske, Virtala e Härkänen (2013) e quello di Leuzinger-Bohleber et al. (2019).
Ma, nel complesso, cosa ci ha insegnato fino a oggi la ricerca empirica sull’efficacia dei trattamenti psicoanalitici?
In primo luogo, che non siamo in grado di stabilire a priori quali pazienti possano beneficiare di una psicoanalisi; nel migliore dei casi, abbiamo bisogno di circa un anno di prova per dirlo.
Inoltre, per la buona riuscita di una psicoanalisi è importante, come per qualsiasi tipo di psicoterapia, l’alleanza che si crea tra terapeuta e paziente, intesa come l’accordo sugli obiettivi del trattamento, sui compiti necessari e perseguirli e un buon legame di stima e affetto tra paziente-terapeuta. E che, oltre all’alleanza, è importante un buon “matching” clinico-paziente (vedi Kantrowitz, 1990). Inoltre, sembra che più sano sia un paziente in partenza, e maggiore capacità di mentalizzazione dimostri, più è probabile che la sua terapia abbia successo. Cosa, peraltro, vera per ogni tipo di psicoterapia.
Con un certo margine di sicurezza, poi, possiamo affermare che i trattamenti psicoanalitici sono efficaci quanto trattamenti di psicoterapia psicoanalitica o di altro orientamento, e che lo sono per circa il 70-80% dei pazienti. Dato, ancora una volta, in linea con quanto sappiamo sull’efficacia della psicoterapia in generale (Wampold, Imel, 2015).
Al termine della loro terapia, in genere i pazienti in analisi mostrano benefici paragonabili a quelli ottenuti dai pazienti in psicoterapia, ma alcuni dati, peraltro non particolarmente solidi, suggeriscono che tali benefici nei pazienti in analisi possano tendere ad aumentare dopo la fine della terapia (per una critica di questo risultato, vedi Kivlighan et al. 2015). E i tassi di ricadute, anche se alti, tendono a esserlo meno che in altri tipi di trattamenti.
I miglioramenti che si ottengono in analisi, che coinvolgono un cambiamento strutturale nei pazienti, anche se in alcuni casi sono correlati al dispiegarsi di un processo analitico basato sull’interpretazione dei fenomeni connessi alla regressione di transfert, non sembrano da esso dipendenti. Detto in altro modo, almeno alcuni pazienti possono ottenere gli stessi risultati per mezzo degli elementi supportivi del trattamento.
La psicoanalisi non determina la risoluzione definitiva dei conflitti patogeni dei pazienti, ma solo una riduzione della pervasività e intensità del loro impatto, e una migliore capacità di gestirne in via autoanalitica le conseguenze quando esse si ripresentano (il cosiddetto “effetto Pfeffer”[3]).
L’impatto esercitato sull’esito delle psicoterapie dalla mera lunghezza dei trattamenti psicoanalitici, e dalla maggior frequenza di sedute, è ancora ignoto. Ma sembra che l’effetto della durata e della frequenza sia sinergico: meglio una frequenza elevata per terapie lunghe e una frequenza più ridotta per terapie più brevi. In ogni caso, i benefici dell’incremento del numero di sedute settimanali sembrano significativi per il passaggio da una a due sedute a settimana, ma non sembrano crescere in modo significativo a frequenze maggiori, e dopo circa quattro anni di trattamento sembra si raggiungano in media i risultati migliori.
Un atteggiamento neutrale, anonimo e frustrante in generale non sembra dare benefici; al massimo, nelle terapie a frequenza elevata e di lunga durata non è iatrogeno, mentre nelle psicoterapie meno lunghe e con frequenza di sedute più bassa lo è.
Molti degli studi su cui si basano queste conclusioni presentano però limiti metodologici anche seri, e i loro risultati non sono stati replicati da un numero sufficiente di studi condotti da gruppi di ricerca indipendenti.
Viceversa, più solidi sono i risultati relativi all’efficacia di forme di psicoterapia dinamica breve e/o per disturbi specifici, come la Terapia Dinamica Interpersonale Breve di Lemma, Target e Fonagy (2012) – peraltro presente nelle linee guida NICE) – la Psicoterapia Focalizzata sul Transfert di Clarkin, Yeomans, Kernberg (2015), la Terapia Basata sulla Mentalizzazione di Bateman e Fonagy (2005) e soprattutto la Psicoterapia Supportivo-Espressiva di Luborsky (1984)[4].
A mio parere, questi dati non legittimano né un atteggiamento di avvilito né un atteggiamento trionfalistico rispetto all’efficacia delle nostre terapie, ma un cauto ottimismo, e soprattutto ci indicano la necessità, anzi l’urgenza, di investire di più nella ricerca empirica sui nostri trattamenti e sulle nostre ipotesi, di creare sinergie maggiori con gli altri ambiti del sapere scientifico e una maggiore confidenza con il metodo scientifico, e di inserire nei curricula scientifici delle nostre scuole degli insegnamenti relativi alle terapie brevi psicoanaliticamente orientate che già hanno dimostrato empiricamente la loro efficacia. Molto debole è invece, a mio parere, la posizione di quanti ritengono che la psicoanalisi non sia una psicoterapia (ai pazienti lo dicono?) o che i suoi effetti non siano misurabili; un effetto non percepibile al paziente o non inferibile in modo rigoroso da parte di osservatori terzi dove sarebbe? E che rilevanza avrebbe?
In un periodo in cui la gestione della sanità è vincolata a criteri economici di costi e benefici, le risorse sanitarie sono destinate a pratiche la cui efficacia è dimostrate empiricamente e la richiesta di psicoterapia è in crescita, mentre le finanze delle persone non lo sono, non farlo sarebbe un’operazione miope dagli esiti disastrosi.
Bigliografia
Huber, D., Henrich, G., Clarkin, J., Klug, G. (2013), Psychoanalytic Versus Psychodynamic Therapy for Depression: A Three-Year Follow-Up Study. Psychiatry, 76, 2, pp. 132-149
Kantrowitz, J.L. Katz, A.L., Paolitto, F. (1990c), “Follow-up of psychoanalysis five to ten years after termination, III: The relation between the resolution of the transference and the patient-analyst match”. In Journal of the American Psychoanalytic Association, 38, pp. 655-678.
Knekt, P., Lindfors, O., Sares-Jäske, L. Virtala, E., e Härkänen T. (2013), Randomized trial on the effectiveness of long- and short-term psychotherapy on psychiatric symptoms and working ability during a 5-year follow-up. Psychological Medicine, 38, 5, pp. 689-703.
Leuzinger-Bohleber M, Hautzinger M, Fiedler G, Keller W, Bahrke U, Kallenbach L, Kaufhold J, Ernst M, Negele A, Schoett M, Küchenhoff H, Günther F, Rüger B, Beutel M. (2019), Outcome of Psychoanalytic and Cognitive-Behavioural Long-Term Therapy with Chronically Depressed Patients: A Controlled Trial with Preferential and Randomized Allocation. Canadian Journal of Psychiatry, 64, 1 pp.47-58
Wampold, B., Imel, Z. (2015). Il grande dibattito in psicoterapia. Seconda edizione. Tr. it. Sovera, Roma, 2017. Kivlighan, D.M., Goldberg, S.B., Abbas, M., Pace, B.T., Yulish, N.E., Thomas, J.G., Cullen, M.M., Flückiger, C., Wampold, B.E. (2015), The enduring effects of psychodynamic treatments vis-à-vis alternative treatments: A multilevel longitudinal meta-analysis. Clinical Psychological Review, 40, pp. 1-14.
[1] Questi i link:
– italiano: https://www.iss.it/documents/20126/0/Consensus_1_2022_IT.pdf/251561f8-8243-00c5-8c1a-62d1a8dacdf4?t=1643896061884
– inglese: https://www.iss.it/documents/20126/0/Consensus_1_2022_EN.pdf/700e6d30-b2fb-3d00-b9f9-67688ac34491?t=1643896427649
La pubblicazione di questo documento è stata inoltre accompagnata da un comunicato stampa, qui reperibile: https://www.iss.it/web/guest//news/-/asset_publisher/gJ3hFqMQsykM/content/id/6621426.
[2] Gazzillo, F., Lingiardi, V., Genova, F. (2012), “L’efficacia delle psicoanalisi alla luce della ricerca empirica”. In Cuniberti, P., Caparrotta, L. (2012), Psicoanalisi in trincea. Franco Angeli, Roma, pp. 307-342. https://www.researchgate.net/publication/230641429_L’efficacia_delle_psicoanalisi_alla_luce_della_ricerca_empirica
[3] Pfeffer, A.Z. (1963), “The meaning of the analyst after analysis: a contribution to the theory of therapeutic results”. In Journal of the American Psychoanalytic Association, 11, pp. 229-224.
[4] Per una lista di tutti gli studi condotti sulle psicoterapie dinamiche, vedi https://www.researchgate.net/publication/357117935_Compehensive_compilation_RCTs_of_PDT_211217xlsx
* Professore Associato di Psicologia Dinamica, Dipartimento di Psicologia Dinamica, Clinica e Salute, ‘Sapienza’ Università di Roma