La psicoanalisi è oggi spinta a nuove riflessioni sul suo statuto disciplinare – se definirsi scienza a statuto speciale o acquisire uno statuto ordinario. Questa spinta proviene sia dalle ricerche empiriche sugli esiti e i processi dei trattamenti analitici sia dalle neuroscienze che pongono nuovi interrogativi sulla specificità del proprio oggetto, la mente inconscia.
Gilberto Corbellini (uniroma1.it>biotecnologie>docenti>Prof.Gilberto Corbellini) è professore ordinario di storia della medicina e docente di bioetica alla Sapienza – Università di Roma. La sua ricerca ha riguardato diversi aspetti della storia e della filosofia delle scienze biomediche del Novecento, in particolare delle immunoscienze e delle neuroscienze, della malaria e della malariologia in Italia, dei modelli eziologici delle malattie, del dibattito etico e bioetica, della politica della scienza e della percezione pubblica della biomedicina. Tra i suoi ultimi libri: Ebm.Medicina basata sull’evoluzione (Roma 2007), La razionalità negata. Psichiatria e antipsichiatria in Italia (con G. Jervis, Torino 2008), Perché gli scienziati non sono pericolosi (Milano 2009) e Scienza, quindi democrazia (Einaudi 2011). Ha curato con M.Maraffa il libro di G.Jervis Il mito dell’interiorità (Boringhieri 2011). È stato condirettore della rivista «darwin» e collabora con il supplemento «Domenica del Sole 24 Ore».
Intervista a cura di M.Ponsi
1 – Negli ultimi decenni – pur con un considerevole ritardo rispetto ad altre prospettive – si sono moltiplicate le ricerche empiriche anche sui risultati delle psicoterapie psicoanalitiche, come testimonia l’articolo di Shedler ripubblicato in questo sito. Lo sviluppo di queste prospettive di ricerca all’interno della psicoanalisi incide sul modo in cui la psicoanalisi e i trattamenti a essa ispirati vengono percepiti nella comunità scientifica, nell’area medica e, più in generale, a livello sociale e culturale?
A mio parere, queste ricerche non cambiano gran che lo statuto epistemologico della psicoanalisi, e l’articolo di Shedler ha solo dimostrato che, quando uno studio empirico, o un metanalisi, non vengono condotti per confutare un’ipotesi specifica, si possono facilmente produrre o a-selezionare i dati che vanno bene per dire sia una cosa, sia il suo contrario. Purtroppo, sempre secondo me, non ha aiutato a qualificare meglio la discussione la reazione stizzita e non argomentata di Shedler alle critiche metodologiche rivolte al suo articolo. In pratica, ha replicato che gli argomenti dei sui critici erano di natura ideologica (American Psychologist 2011, 66; pp. 152-154). E ha rifiutato l’invito a discutere pubblicamente proprio con chi, come Michael D.Anestis e Scott Lilienfeld, conduce da anni una seria e trasparente battaglia per smascherare la pseudoscienza in psicologia. I commenti critici all’articolo di Shedler entravano nel merito e risultavano ben comprensibili e plausibili per chiunque conoscesse anche solo un minimo i problemi legati all’uso degli studi clinici che valutano l’efficacia di trattamenti, confondendo indicazioni di significatività statistica ottenute peraltro combinando studi tra loro diversissimi per disegno, qualità e premesse teoriche, con la dimostrazione che un’idea terapeutica, generica o ancora diversa da quelle testate negli studi analizzati, è efficace. Peraltro, Shedler dà per buone delle meta-analisi in cui sono stati rilevati errori di calcolo. Per i metodologi e gli statistici che fanno ricerca empirica, questo non è un modo corretto di procedere. Quindi, all’interno della comunità scientifica e tra i metodologi clinici, la percezione della psicoanalisi non mi sembra gran che cambiata. E io non ho letto niente che ancora mi abbia illuminato di più del famoso The Great Psychotherapy Debate: Models, methods, and findings, di Bruce Wampold (2001, Erlbaum and Associates).
A livello sociale e culturale il discorso è diverso, perché comunque non esiste una cultura diffusa di come si fanno gli studi empirici o si accerta l’efficacia di un trattamento. La psicoanalisi nel mondo umanistico, cioè tra chi ha un certo livello di cultura, conserva un fascino che prescinde completamente dall’aspettativa che possa essere o meno scientificamente fondata. Di fatto mette insieme idee abbastanza suggestive e prossime al senso comune, su come ci piacerebbe che si procedesse per spiegare e affrontare il disagio psichico.
2 – La psicoanalisi è uno dei tanti ambiti sul quale le acquisizioni delle neuroscienze hanno suscitato un’influenza significativa, tanto che ne è nato un rigoglioso filone di studi e ricerche: la cosiddetta neuro-psicoanalisi. Quali prospettive aprono per la psicoanalisi quei modi di spiegare l’efficacia dei trattamenti ad essa ispirati che fanno riferimento a dati provenienti dalle neuroscienze, come ad esempio propongono Gabbard & Westen nell’articolo ripubblicato in questo sito?
Le teorie di Gerald Edelman sul funzionamento del cervello, le riflessioni di Eric Kandel sulla natura della malattia mentale e gli effetti teoricamente immaginabili della terapia della parola, e l’esplosione degli studi neuropsicologici sui sistemi emozionali o sull’attività inconscia del cervello hanno in qualche modo ridato fiducia e coraggio agli psicoanalisti. Personalmente trovo del tutto plausibile l’assunzione epistemologica di fondo della neuropsicoanalisi, cioè che la natura dei processi cosiddetti mentali si possa studiare affrontando entrambi gli aspetti che assume il funzionamento del cervello, cioè quello strettamente neurobiologico e quello comportamentale, e nella fattispecie le manifestazione disfunzionali. Sono un po’ perplesso, invece, quando si va alla ricerca di conferme neurobiologiche delle idee tradizionalmente psicoanalitiche, nel senso che spesso si procede più nel senso di cercare una conferma neuroscientifica della dottrina freudiana o di qualche altro modello psicoanalitico, che non in quello di accettare la messa in discussione di idee che sono del tutto incompatibili con le conoscenze neuroscientifiche. Secondo me, si dovrebbero cercare eventuali coincidenze tra modelli psicodinamici e teorie neurobiologiche solo a posteriori, e dopo avere inquadrato i dati neurobiologici nell’economia di un modello neuroscientifico. Questo sarebbe peraltro anche più coerente con la lezione freudiana. A mio modesto parere, quello che rimane valido del lavoro di Freud – che io continuo a trovare un pensatore formidabile e quindi ancora una fonte di spunti per ragionare sulla psicologia umana, soprattutto nelle sue dinamiche sociali più che individuali – sono l’impianto comunque naturalistico del suo approccio al funzionamento della mente, quindi l’auspicio di poter fondare su una teoria biologicamente plausibile ed empiricamente consolidabile la psicoanalisi. Inoltre, penso che Freud avesse ragione nel caratterizzare i processi della coscienza come costitutivamente fondati sull’autoinganno e governati da logiche deterministiche che ci sono sconosciute. Orbene, questi due temi oggi sono largamente studiati e inquadrati dalle neuroscienze e dalla psicologia cognitiva ed evoluzionistica. La parola psicoanalisi a me suona un po’ un anacronismo, quando vuole rimanere vincolata nei suoi fondamenti a idee decisamente arcaiche.
3 – Entrando in un ambito più specifico, sul quale lei ha scritto recentemente, e cioè quello della terapia dell’autismo (Domenicale Sole24Ore, 12 febbraio 2012), come valuta quelle metodologie esplicative e terapeutiche che integrano l’approccio psicoanalitico e neurobiologico al trattamento delle patologie autistiche, come ad esempio quello di Barale e Ucelli ? (La debolezza piena. Il disturbo autistico dall’infanzia all’età adulta, in A.Ballerini, F.Barale, V.Gallese, S.Ucelli. Autismo. L’umanità nascosta. Einaudi 2006).
I disturbi dello spettro autistico sono molto variabili e non credo si potrà mai dire di aver trovato una spiegazione o un trattamento generali, che funzionino per tutte le forme cliniche e i profili individuali. Questo perché l’eziologia è chiaramente molto complessa, in quanto dipende da dinamiche di sviluppo del cervello complesse e modulabili, in cui la componente genetica svolte un ruolo in diversi casi preponderante, mentre la variabilità dei contesti familiari e sociali rendono ulteriormente caotico il quadro clinico-epidemiologico. Gli studi meglio condotti dicono che la psicoterapia non è efficace, se non in alcuni casi per tenere a bada una componente ansiosa o per aiutare i famigliari. Io non sono un clinico e quindi leggo quello che viene pubblicato, confrontando le metodologie usate per giustificare i risultati ottenuti e anche l’impianto teorico da cui prende avvio l’approccio. Di fronte a condizioni complesse e differenziate per cui mancano modelli eziologici definiti, penso che sia in primo luogo doveroso pretendere coerenza e onestà intellettuale a chi propone approcci terapeutici, nonché l’assunzione di un atteggiamento laico e pragmatico, quindi metodologicamente trasparente, nell’analisi delle prove che si portano a favore o contro l’efficacia di questo o quel trattamento. Si può dire che molte combinazioni di approcci e ragionamenti sono stati percorsi per raggiungere qualche posizione di vantaggio nella comprensione o nel trattamento del problema. La Linea Guida preparata dall’Istituto Superiore di Sanità “Trattamento dei disturbi dello spettro autistico nei bambini e adolescenti”, poteva probabilmente essere fatta anche meglio, e qualcosa avrebbe dovuto dire sulle psicoterapie, cioè che non ci sono prove della loro efficacia o anche solo perché è stato deciso di non usare neppure la parola “psicoterapia” in tutto il testo. Nondimeno il tentativo di screditare la Linea Guida agendo attraverso un gruppo di parlamentari, cioè richiedere un intervento della politica invece di portare all’attenzione pubblica prove empiriche del fatto che quel documento sarebbe sbagliato, è un modo decisamente irrituale di affrontare una questione di carattere tecnico. L’Italia è il paese del caso Di Bella, della Legge 40 sulla fecondazione assistita e di un’interferenza vergognosa della politica nelle scelte personali e autonome di fine vita: sarebbe triste se mentre la psicoanalisi rivendica uno statuto epistemologico scientifico, benché “speciale”, si rivolgesse a politici che cercano solo dei pretesti per manipolare e mortificate la scienza (superando.it>home>mi curo>la politica non mortifichi la scienza)
Ora, se dovessi indicare una carenza che riscontro nella discussione sui disturbi dello spettro autistico, questa riguarda il profilo evoluzionistico e il ruolo che possono avere alcuni fattori di rischio legati al mismatch nell’insorgenza, ma soprattutto nell’apparente esplosione epidemiologica delle manifestazioni disfunzionali del comportamento diagnosticate clinicamente. E penso che se si ragionasse anche in un’ottica evoluzionistica, stante l’evidente ruolo che svolgono i fenomeni di imprinting genomico nell’eziologia del quadro neurologico e clinico, nonché stante probabilmente l’eccesso di stimolazioni affettivo-emotive in rapporto a quanto potevano aspettarsi i cuccioli dei nostri antenati cacciatori-raccoglitori, forse si potrebbe addirittura immaginare qualche nuovo intervento da testare sul piano della prevenzione.