La Ricerca

Bonomi C. (2013). Intervista sulla ricerca storica in psicoanalisi.

25/02/14

Bonomi C. (2013). Intervista sulla ricerca storica in psicoanalisi.

 In un recente seminario dal titolo “Analisti al lavoro. Teoria e pratica nella clinica psicoanalitica contemporanea“, che si è svolto il 7 Dicembre 2013 presso il Centro di Psicoanalisi Romano, Carlo Bonomi ha presentato una relazione in cui, analizzando il rapporto conflittuale fra Freud e Ferenczi, ha proposto una storia della nascita della psicoanalisi assai diversa da quella canonica.

In questa occasione gli abbiamo rivolto alcune domande.

 Carlo Bonomi è psicologo, psicoterapeuta e psicoanalista a orientamento relazionale, didatta e supervisore presso l’istituto H.S. Sullivan di Firenze. E’ autore di numerose pubblicazioni, dedicate prevalentemente a temi storici, molte delle quali sono consultabili sul suo sito web.

E’ membro del board della International Sándor Ferenczi Foundation, promotore, insieme a Judit Meszaros del Ferenczi House project, e fondatore, insieme a Franco Borgogno, dell’Associazione Culturale Sàndor Férenczi.

Intervista a cura di M.Ponsi  

Nella relazione che hai presentato a Roma – dal titolo “Il pene sul vassoio. Premesse oniriche e conseguenze del conflitto Freud-Ferenczi” – sostieni che le questioni che hanno animato la relazione fra Freud e Ferenczi gettano una luce nuova sulle origini della psicoanalisi. Puoi riassumere gli aspetti rilevanti di questa amicizia e di questa collaborazione professionale?

In una lettera scritta pochi mesi prima della morte di Ferenczi, Freud definì la loro relazione una “comunità di vita, pensieri e interessi”. Credo che questa sia la migliore sintesi. Si possono poi distinguere vari periodi. Io ne distinguo tre (1908-1912; 1912-1924; 1924-1933). All’inizio vi è un innamoramento reciproco, anche se naturalmente ci sono anche momenti difficili. In questa fase Ferenczi è mosso dalla speranza di un rapporto trasparente e reciproco. Poi questa speranza s’infrange e Ferenczi chiede di entrare in analisi con Freud. Questo avviene il 26 dicembre 1912. L’intervento che ho presentato al Centro di Psicoanalisi Romano riguarda proprio questo passaggio a partire da un sogno che Ferenczi ha la notte di natale. Riprendo qui temi e riflessioni che avevo presentato già nel 1993 e poi ampliato in un lavoro intitolato “Mute correspondence” apparso nel 1997 in un libro sulle corrispondenze di Freud che avevo curato con Patrick Mahony e Jan Stensson (s’intitolava Behind the scenes. Freud in correspondence). Freud era riluttante a prendere Ferenczi in analisi (era troppo importante come confidente e collaboratore), ciò che avverrà infine per poche settimane nel 1915 e nel 1916. Come è noto sarà un disastro. Questo è il periodo della identificazione di Ferenczi con Freud, identificazione che però nasconde frustrazione, rabbia e, come Ferenczi scrive nel Diario Clinico, una “aggressività che mira alla reciproca castrazione”. Questo periodo si conclude con la pubblicazione di Thalassa, nel 1924. Quest’opera segna sia il culmine della identificazione inconscia con Freud, sia l’inizio di una disidentificazione che renderà possibile un nuovo cammino che sfocia nei suoi contributi finali, così apprezzati dalla psicoanalisi contemporanea. Questo periodo si conclude con un conflitto aperto innestato nell’estate del 1932 dal saggio “Confusione delle lingue tra gli adulti e il bambino”, saggio a lungo considerato “eretico” e “patologico” (di fatto non vi era distinzione tra le due cose) e che oggi, a quasi trent’anni dall’inizio della “Ferenczi renaissance”, è riconosciuto da tutti come una pietra miliare. Dopo la morte di Ferenczi, avvenuta nel 1933, vi è poi un ulteriore periodo, caratterizzato dalla assimilazione del suo pensiero da parte di Freud. Nel 1930 Freud era stato molto impressionato dalla nuova metapsicologia della frammentazione della vita mentale delineata da Ferenczi, e vi sono precisi elementi che portano a pensare che dal 1936 al 1938 Freud fosse impegnato in un dialogo postumo con Ferenczi. Questo processo di assimilazione rimase incompiuto, proprio come lo scritto “La scissione dell’io nel processo di difesa” che Freud scrive nel 1938.

Nella tua relazione dici che mentre Freud sosteneva che un certo grado di indifferenza professionale fosse necessaria per tenere sotto controllo il coinvolgimento emozionale e per rispondere con oggettività al transfert, Ferenczi riteneva al contrario che non si dovesse rispondere con questa forma di ‘insensibilità’ all’impatto emotivo con il paziente. In che misura il modo con cui Ferenczi si differenziava da Freud a questo riguardo è a tuo parere da ascrivere a una differenza di sensibilità e di carattere o a una vera a propria differenza di metodo terapeutico?

 Il carattere in psicoanalisi non è un fattore esplicativo. Ferenczi riteneva che Freud si fosse ritirato da una relazione oggettuale e formula delle ipotesi interessanti in merito al suo trauma infantile, al rapporto tra quest’ultimo e la sua teoria e, ciò che per me è più interessante di tutto, in riferimento alla fondazione della psicoanalisi. Naturalmente Ferenczi aveva sperimentato sulla sua pelle l’insensibilità di Freud, ma la cosa interessante è che egli pensava che Freud non fosse sempre stato così. Egli aveva la fantasia che, all’inizio, Freud si fosse gettato anima e corpo nella cura delle sue pazienti isteriche, ma che ad un certo punto era stato scottato e, ripetendo un pattern precedente, si era ritirato dal rapporto interpersonale, diventando uno “scienziato materialista”. Con ciò voleva dire che in lui si era liberata una pura intelligenza dissociata dal coinvolgimento emotivo. Egli aveva una idea precisa su come e quando ciò fosse avvenuto. In una pagina del Diario Clinico dice che ciò era avvenuto quando davanti a Freud si era spalancato l’abisso del controtransfert. È chiaro che per Ferenczi l’indifferenza del fondatore della psicoanalisi era una questione che travalicava la sua persona, e che toccava il “telos” della psicoanalisi stessa, il suo senso costitutivo. Il ritorno quasi ossessivo di Ferenczi al momento inaugurale della psicoanalisi e il suo rimettere sul tappeto la questione del trauma deve essere letto proprio in questa chiave: riuscire a sostenere il trauma è per Ferenczi la missione della psicoanalisi, il suo senso d’essere. Freud si era gettato anima e corpo in questa impresa, ma era riuscito in ciò solo a metà, perché una sua parte era rimasta insensibile – come quando un soldato rimane sordo dopo lo scoppio di una granata. C’è passo della sua autoanalisi che è particolarmente significativo a tale riguardo. In esso Freud scrive: “è come la quiete di un campo di battaglia seminato di cadaveri: non si sente più nulla del tumulto della lotta.” Da solo, con la sua autoanalisi, Freud era riuscito a capire tutto. Paradossalmente questa intelligenza pura, dissociata dalle emozioni, era una malattia, una malattia tanto più grave in quanto l’insensibilità traumatica di Freud, che con pietà filiale possiamo comprendere a accettare, era stata incorporata nella teoria e nella tecnica classica. Era diventata la malattia della psicoanalisi.

E’ dunque in questa vicenda storica – in cui si intrecciano rapporti personali, differenze caratteriali e modi diversi di considerare la dinamica psichica – che risiedono le radici dei due approcci nella clinica psicoanalitica: uno, diventato poi la base della analitica standard, che ascrive il cambiamento all’insight a cui il paziente viene condotto da una corretta interpretazione, e un altro, che è andato affermandosi negli anni e di cui Ferenczi è stato il precursore, che valorizza maggiormente il potere trasformativo della relazione analitica.

Noi abbiamo bisogno di formule e organizziamo il pensiero in forma dicotomica. Questo è inevitabile, soprattutto nell’ambito della trasmissione del sapere, e perciò va bene mettere le cose in questo modo sistematico. Però abbiamo anche la capacità di porre domande e stare nell’incertezza. Per Ferenczi il rapporto tra intelligenza ed emozione era il problema per eccellenza, un problema su cui ritorna quasi ossessivamente, a volte producendo intuizioni straordinarie, come l’idea di “progressione traumatica” o l’immagine del poppante saggio, ma non si può dire che sia un problema risolto. È piuttosto una prospettiva da cui guardare l’esperienza che si produce nella situazione analitica. Certamente, fra il 1922 e il 1924, sia lui che Rank erano profondamente infastiditi dal tangibile scollamento tra teoria ed esperienza che ormai caratterizzava la deriva scolastica della psicoanalisi. Il libretto che scrivono insieme in quegli anni, su richiesta e incoraggiamento di Freud, contiene già tutti i temi che saranno ripetutamente riscoperti nei sessant’anni successivi. Al centro di questi problemi c’è il comprensibile bisogno dell’analista di difendersi dal venire risucchiato nell’inconscio del paziente. Oggi è più che evidente che la teoria classica della interpretazione-insight è stata l’espressione più forte di questa difesa. Inoltre, in merito al tema dei precursori delle tendenza attuali, non vorrei lasciar fuori Otto Rank, il quale,nelle lezioni che tiene in America tra il 1926 e il 27, sviluppa la prima teoria completa delle relazioni oggettuali.

Nella relazione che hai presentato al Centro di Psicoanalisi Romano hai considerato il sogno di Férenczi del ‘pene sul vassoio’ come un sogno che ha segnato una svolta nel suo rapporto con Freud. Puoi riassumere quel sogno e il significato che gli è stato dato – da Férenczi e Freud innanzi tutto, e poi da te, nella tua lettura dell’evoluzione del loro rapporto?

Quando Freud chiese a Ferenczi e Rank di lavorare insieme sul tema dello scollamento tra teoria e prassi in psicoanalisi, Rank scrisse a Freud che “per prima cosa avevano deciso di iniziare con una campagna scientifica contro la sopravvalutazione del complesso di castrazione” e che erano desiderosi di sapere la sua opinione in merito (22 agosto 1922). Freud li scoraggiò dall’andare in quella direzione, e il tema fu effettivamente rimosso dalla loro agenda immediata, ma non dalla loro mente. Freud difese fino alla fine, e spesso contro ogni logica, la posizione nucleare del complesso di castrazione. Questo tabù, oggi logorato dal tempo, è rimasto l’aspetto più enigmatico e irrazionale della psicoanalisi. Qualcuno lo ha collegato alla radici ebraiche (circoncisione rituale neonatale) della psicoanalisi, invocando il carattere “etnico” della sua mitologia. Ma è anche chiaro che l’ambizione di Freud era “universale” e che ciò che temeva più di ogni altra cosa era la riduzione della psicoanalisi a scienza ebraica. Vi è poi da considerare tutta l’ambivalenza di Freud per le sue stesse radici ebraiche, la sua inflessibile condanna della religione, la sua distruzione della figura di Abramo (e quindi dell’alleanza con Dio, suggellata dalla circoncisione), la sua liquidazione della circoncisione a costume egiziano, la sua decostruzione di Mosè (dalla cui uccisione fa risalire l’adozione, per senso di colpa, del costume “egiziano” della circoncisione), e infine il fatto, a lungo custodito come un segreto, che si era rifiutato di far circoncidere i figli maschi, ciò che è evidentemente all’origine del mito per eccellenza della psicoanalisi, l’uccisione del padre (non sto sminuendo il potere disgregante della fantasia adolescenziale di uccidere il padre, ma solo puntualizzando come Freud ha concretamente ucciso suo padre: non facendo circoncidere i figli e non dando loro un nome ebraico). Altri hanno cercato di spiegare questo paradosso ambientando la nascita della psicoanalisi in un ambiente sociale visceralmente antisemita e postulando una interiorizzazione, nell’opera di Freud, di un corpo, quello dell’ebreo circonciso, a partire da come esso era percepito dai gentili. In questo passaggio il significante della differenza ebraica (circoncisione) si sarebbe trasformato in castrazione. Io non sono insensibile a questi temi, tutt’altro – sono stato il primo a pubblicare, nel 1993-94, che sui registri della Comunità ebraica i figli di Freud non risultavano circoncisi (l’anno prima la questione era stata portata all’attenzione generale da Gilman, che però aveva altre fonti, diciamo “ad oculum”). Tuttavia ho imboccato una strada di ricerca diversa che mi ha portato a scrivere molti lavori sulla castrazione medica praticata sulle donne e le bambine. Questa mia curiosità venne innescata proprio dalla lettura del sogno di Ferenczi (il primo volume delle lettere con Freud apparve in francese nel 1992) e dalla indefinibile impressione della presenza di un “corpo estraneo”. Nel lavoro che presentai al congresso Ferenczi del 1993, a Budapest, feci l’ipotesi che questo corpo estraneo fosse stato introiettato da Ferenczi, guidandone il futuro orientamento. Diventava possibile tracciare una storia della psicoanalisi i cui protagonisti non erano le persone e nemmeno le teorie, ma contenuti inconsci che passavano da una mente all’altra. Questo permetteva, per esempio, di spiegare un altro straordinario mito, quello dispiegato da Ferenczi in Thalassa (1924), come la trasformazione poetica del sogno del pene sul vassoio. Insomma Ferenczi era diventato l’analista del suo analista, proprio come postulato dalla sua teoria del poppante saggio.

E’ dunque a quel periodo, e cioè ai primi anni ’90 quando cominciavi a scavare a fondo nel rapporto Freud-Ferenczi, che si è concretizzata la possibilità di “tracciare una storia della psicoanalisi i cui protagonisti non erano le persone e nemmeno le teorie, ma contenuti inconsci che passavano da una mente all’altra“, di tracciare insomma una storia alternativa della nascita della psicoanalisi, diversa da quella canonica basata sull’auto-analisi di Freud.

Diciamo che sono progressivamente arrivato – ma una visione completa e articolata della mia idea non è ancora pubblicata, anche se conto di farlo entro breve tempo – a vedere l’autoanalisi di Freud come guidata dall’interiorizzazione della parte traumatizzata di una sua paziente che da bambina aveva subito una castrazione medica (circoncisione come cura della masturbazione). La mia ipotesi non contesta l’idea che la psicoanalisi nasce dall’autoanalisi di Freud. Evidentemente, però ne cambia il significato. Per la verità l’idea che l’autoanalisi di Freud rappresentasse il raggiungimento da parte del padre fondatore della “suprema autonomia” era crollato da tempo per mano degli storici che, a partire da Ellenberger e Sulloway, per finire a Borch-Jacobsen e Shamdasami, avevano liquidato la cosa sotto la voce “mito dell’eroe”. Paradossalmente io ripristino il valore leggendario dell’autoanalisi, anche se descrivo l’io auto-osservato da Freud come la tomba di un altro, e anche se nel corpus freudiano sento la voce incessante di uno spettro che vuole essere ricordato.

Nella tua relazione al Centro di Psicoanalisi Romano hai anche tratteggiato una storia che riguarda il tuo stesso processo di ricerca, quando hai riletto l’Interpretazione dei sogni alla luce di quanto andavi elaborando sul pensiero di Férenczi. Puoi riassumere i passaggi principali del tuo processo di ricerca?

Posso dire quali sono stati gli ostacoli maggiori. Fin dall’inizio mi ero ritrovato con due filoni di indagine, da una lato quello relativo alla castrazione quale pratica medica diffusa e storicamente circoscritta in cui il giovane Freud era stato suo malgrado coinvolto e dall’altro quello relativo al discorso freudiano sulla castrazione. Collegare questi due piani era un’impresa impossibile. Sentivo che il punto di giuntura era il sogno da cui nasce la psicoanalisi, il sogno dell’iniezione di Irma, ma non riuscivo andare oltre una insoddisfacente lettura metaforica. Il tempo passava e così, grazie all’interessamento di Jervis, mi decisi a pubblicare con la Bollati Boringhieri un libro che si intitolava Sulla soglia della psicoanalisi (2007), in cui ricostruivo la parte storica sulla castrazione delle donne e delle bambine senza osare oltrepassare la soglia. Nel 2006, quando il lavoro era in stampa, Elisabeth Roudinesco mi invitò a Parigi per discutere le mie idee. Quello mi diede il coraggio per attraversare la soglia in un lavoro che s’intitolava “Dalla mutilazione genitale al culto del fallo”. Ero sufficientemente soddisfatto da sottoporlo all’IJP. Successe un gran casino. Per farla breve mi chiesero di dividere l’articolo in due e di pubblicare per il momento solo la parte storica, dettagliandola. Insomma questa soglia non si poteva proprio oltrepassare. Comunque accettai, ma anche in questa forma la pubblicazione venne bloccata grazie al potere di veto. Infine le regole vennero cambiate, e l’articolo ebbe il via libera. Apparve nel giugno del 2009 con il titolo “La rilevanza della castrazione e della circoncisione per le origini della psicoanalisi. 1. Il contesto medico”. Poche settimane dopo, il 24 luglio dello stesso anno– per significato di questa data si veda la lettera di Freud a Fliess del 12 giugno 1900– ricevetti una mail in cui un analista olandese, Adrian (Eddy) de Klerk, mi confidava i suoi pensieri e le sue fantasie sull’argomento. In particolare, egli coltivava da tempo la fantasia che la parola chiave del sogno di Irma, “Trimethylamin”, fosse una trascrizione di “(b)rith milah”, la parola ebraica per circoncisione. Questa idea all’inizio non mi disse niente, poi m’incominciò a lavorare dentro per vie traverse, infine si rivelò la chiave che da solo non ero riuscito a trovare, e da quel momento lì le cose incominciarono andare a posto. Con Eddy avevamo discusso appassionatamente di tutto, e soltanto quando poco dopo morì, capii che regalo prezioso mi aveva fatto. Lui immaginava che la fantasia di grandiosità veicolata dalla formula della trimetilamina fosse costruita su una ferita fallica, il cui riferimento ultimo era il trauma della circoncisione di Freud. Non aveva però una teoria soddisfacente. Io poi non ritenevo che la circoncisione rituale neonatale fosse di per sé un trauma, o meglio, non ritenevo che di per sé potesse arrivare a parlare, né tantomeno a parlare incessantemente. Per me era l’incontro con la circoncisone medica che aveva fatto diventare retroattivamente il corpo stesso di Freud il luogo in cui era iscritto e conservato un trauma (nel sogno di Irma questo passa dalla infiltrazione sulla spalla in cui il corpo di Freud si fonde e confonde con quello della sua paziente). E poi per me il “fallo” – la preziosa reliquia di cui la psicoanalisi si era fatta custode e chiesa – era l’allucinazione della paziente di Freud che aveva subito la mutilazione genitale, così come avevo proposto nell’articolo smembrato dalla redazione dell’IJP. Nel 2011 venni invitato ad inaugurare la Casa Ferenczi a Budapest, il luogo in cui l’analista ungherese aveva scritto il Diario clinico, e allora raccolsi le mie idee sul compito originario di resistere al trauma e poi sottomisi il mio discorso all’IJP come la parte ancora mancante del primo articolo. Ma poi mi resi conto che le resistenze erano insuperabili e mi rivolsi a un’altra rivista, il Psychoanalytic Quarterly, dove, disiecta membra, l’articolo è stato pubblicato in forma più estesa nel 2013 (con il titolo “Withstanding trauma: The significance of Emma Eckstein’s circumcision to Freud’s Irma dream”). L’idea che la missione della psicoanalisi, iscritta nella suo atto di nascita, consistesse nel resistere al trauma, veniva, naturalmente, da Ferenczi.

Ti faccio un’ultima domanda, che riguarda il rapporto fra la tua identità professionale di storico e quella di ‘psicologo, psicoterapeuta e psicoanalista’.

Nell’elaborazione della tua tesi sugli elementi che hanno costituito il primo corpus teorico e tecnico della psicoanalisi tu – da “psicologo, psicoterapeuta e psicoanalista” – fai ampio utilizzo di schemi interpretativi psicoanalitici, il primo dei quali è appunto quello applicato al sogno del ‘pene sul vassoio’, che interpreti come incorporazione dell’eredità di Freud. Vorrei chiederti qualche riflessione sulla ricerca storica in psicoanalisi effettuata da chi si serve, ai fini della ricostruzione e comprensione delle vicende proprie di questa disciplina, degli strumenti specifici prodotti dalla disciplina medesima rispetto alla ricerca storica effettuata da uno storico per così dire ‘puro’, ovvero non specificatamente competente nella disciplina medesima.

Mi poni molte domande insieme. Non è vero che nella mia lettura del sogno del pene sul vassoio io “applico” schemi interpretativi psicoanalitici. In realtà io guardo questi schemi dal di fuori, ed esco dal sistema mettendolo sul vassoio. Sebbene infatti vi siano ottimi motivi per leggere il sogno come un sogno psicologico, come un sogno di castrazione,vi sono altrettanti motivi per leggerlo come un sogno sul linguaggio della castrazione, e io mi focalizzo selettivamente solo su questa dimensione metapsicologica. Questo mi consente da un lato di spiegare come, quando e perché Ferenczi inaugurerà una nuova metapsicologia, quella della frammentazione della vita psichica, superando la soglia per Freud invalicabile del complesso nucleare, il complesso di castrazione, e dall’altro di porre la domanda su come, quando e perché la castrazione diventi in Freud la lingua stessa del trauma, il suo idioma. Quindi io non applico uno schema, ma lo decostruisco. È vero che in questo movimento io esco dalla metapsicologia Freudiana ma non dalla psicoanalisi, in quanto mi appoggio ad un’altra metapsicologia, quella appunto Ferencziana della frammentazione della vita psichica. In realtà non mi fermo nemmeno a questa, in quanto implicitamente mi chiedo quale sia la funzione svolta dalla stessa metapsicologia nell’offrirci gli schemi attraverso cui ci rappresentiamo il traumatico e le parole con cui parliamo dell’indicibile, ma qui il discorso ci porterebbe troppo lontano.

In merito alla ricerca storica, bisogna innanzitutto dire negli ultimi tre decenni la storiografia della psicoanalisi è progredita in modo straordinario, diventando una disciplina specialistica dotata di luoghi di confronto, istituti, riviste, collane, e un numero crescente di studiosi competenti, spesso con posizioni accademiche (non parlo dell’Italia). Anche della vita di Freud, e persino dei suoi sogni, si sa oggi tantissimo (per esempio quando un certo sogno è stato sognato, quali sono gli eventi evocati nelle associazioni, e così via). Tuttavia, la crescita esponenziale delle informazioni non ha portato ad una narrazione significativa della nascita della psicoanalisi. Michele Ranchetti, che nel 1992 mi fu di grande aiuto trovando la mia ipotesi plausibile e mettendomi in contatto con Gerhard Fichtner, in quegli anni aveva provocatoriamente scritto che per la storiografia la psicoanalisi non era, propriamente, mai nata. Il punto è che, come ogni disciplina specialistica, anche la storiografia la psicoanalisi per essere credibile si auto limita, concentrandosi su elementi che possono essere vagliati e ordinati sulla base di documenti. Gli storici più seri per essere credibili e creduti evitano tutto ciò che appare in odore di speculazione, ossia rifuggono dall’immaginazione – potremmo dire dalle associazioni libere, ma io preferisco parlare di speculazione perché è una parola che fa davvero paura. Eppure le pagine più belle che io ho letto sulla nascita della psicoanalisi, e ho qui in mente le letture che nel 1954 Erikson prima e Lacan subito dopo fanno del sogno di Irma, sono pure speculazioni. Erikson arriva addirittura a colmare quella che avverte come una lacuna nell’interpretazione di Freud introducendo una libera associazione su una sua paziente scioccata da un quadro del Louvre – una circoncisione di Cristo. Che follia! E che coraggio inserirla nel suo testo! E non è pura speculazione quella di Ferenczi – quando si immagina un Freud che si ritira dall’abisso del controtransfert, così come nel sogno fondante si ritira spaventato dalla bocca di Irma che si spalanca? Il punto è che gli storici, per essere credibili e creduti, sono costretti a praticare una disciplinata autocensura, e così hanno smesso di interrogarsi sul fondamento o, per dirla con Freud, di fare entrare la “strega metapsicologia”. Naturalmente, se le si apre la porta si rischia di essere travolti dal sabba dell’immaginazione. È chiaro che qui c’è una circolarità tra la pratica terapeutica quotidiana e la mia ricerca. Ma al di là della capacità soggettiva di addomesticare l’immaginazione senza soffocarla, io credo che la nascita della psicoanalisi ponga un problema epistemologico specifico. Io vengo dalla fenomenologia Husserliana e ho assorbito l’idea che il metodo deve essere adeguato all’oggetto. Il metodo storico sarebbe stato adeguato se l’auto-analisi di Freud fosse davvero stata una dimostrazione della “suprema autonomia dell’io” (la definizione è di Kris), ossia se l’oggetto fosse stato una mente isolata. Ma se al fondo di tutto ci fosse davvero l’abisso del controtransfert?

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Su questi temi v. il libro, pubblicato da Routledge nel Marzo 2015, The Cut and the Building of Psychoanalysis e la recensione pubblicata su Psychoanalysis and History.

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