La Ricerca

Boccara P. (2017). I recenti sviluppi nelle teorie psicoanalitiche dell’azione terapeutica nella psicopatologia dell’adulto. Giornata Nazionale di Ricerca “They are people”, Roma, 28 genn 2017.

12/02/17

Relazione presentata nella Giornata Nazionale di Ricerca “They are people”. Il contributo della Psicoanalisi alla psicopatologia e alla diagnosi nell’infanzia, nell’adolescenza e nella vita adulta. (Roma, 28 genn 2017).

Premessa

Credo che come psicoanalisti abbiamo bisogno di capire cosa è successo e ancora succede nel campo della salute mentale per comprendere noi stessi e accedere alla sfida con la contemporaneità.

Non è più sufficiente ribadire l’orgoglio del nostro ‘metodo’ , ma occorre tenere conto delle difficoltà che si sono incontrate e si incontrano (tuttora e comunque) e che ci interrogano su come affrontarle con strumenti più efficaci.

E per far questo, a mio parere bisogna tenere presente:

  • Le differenti implicazioni nella clinica psicoanalitica tra teoria e teoria (es le recenti teorie sul trauma e l’ampliamento del concetto di inconscio agli aspetti non verbali, non rappresentati e gruppali)
  • La distanza tra teoria e l’esperienza pratica (quello che si sa e quello che succede) (e di come quello che succede influisce sulla nostra soggettività)
  • Le origini dei concetti ‘analitici’ non sono esclusivamente analitici ma derivanti dalla esperienza clinica anche extra analitica ( articolo di Rossi Monti sul controtransfert, Miti della storiografia psicoanalitica, 2008)

Di solito (e troppo spesso) si parla de “ la psichiatria e la psicoanalisi ”. Credo che occorra parlare anche di cosa succede agli psicoanalisti insieme a psichiatri, psicologi, (oltre che di tanti altri operatori di differente formazione), perché le esperienze con i pazienti sono più complesse delle definizioni o delle spiegazioni teoriche, avendo a che fare con la complessità dell’apparato per pensare.

Nei servizi tutto appare più trasparente, più osservabile che nella stanza dello psicoanalista, essendo scenari ‘drammatici’, non tanto e non solo per le condizioni di lavoro attuali, quanto nel senso di ‘teatrali’. Esattamente come Anna Ferruta ci ricorda per la psicoanalisi che, secondo Bleger (1969), è drammatica, nel senso di ‘teatrale’: perché si tratta di interazioni tra persone e non tra concetti e perché mette in scena la relazione tra due soggetti in un contesto sicuro, ma nel quale nessuno dei due sa  “che cosa avverrà, come l’altro risponderà, quali emozioni emergeranno”.

Infine se  il nostro obiettivo è sempre dare forma a contenitori viventi, è’ utile tener conto che le teorie psicoanalitiche contemporanee tendono a spostare l’attenzione nella stanza di analisi dal “cosa si pensa” (i contenuti)al  “come si pensa” (ai modi); non a ‘cosa’ diciamo ma a ‘come’ parliamo; da “cosa significa?” a “cosa sta succedendo”?

Per farlo. vorrei avvicinare alcune “esperienze disturbanti”,  che hanno a che fare con quel senso di insicurezza e instabilità…

1) La diagnosi dimensionale e i fenomeni psicopatologici imprevisti

Questo seminario ci propone una riflessione su cosa succede dalla diagnosi in poi una diagnosi sempre intesa come dimensione continuativa  dell’ascolto che permetta di valutare quello che di problematico si sviluppa nella relazione e di affrontare la crisi con opportune iniziative che , prendendo forma al tempo stesso nella relazione e nella mente del terapeuta, offrano il contenimento necessario (contenimento mentale e/o farmacologico/o ambientale) e che non rinuncino dialogo interattivo.

Oggi, come sempre, potremmo dire che la vera sfida nella clinica è quella di predisporre volta per volta un ambiente, che renda possibile la soggettivazione attraverso la costruzione di un significato personale all’esperienza.

Ma, pur imparando a fare domande che aiutano dare un significato alle esperienze e a promuovere un’atmosfera terapeutica si impatta spesso  nel percorso su fenomeni psicopatologici imprevisti per quel determinato paziente e sulla incertezza su come trattarli.

Con il rischio o di tentare di fare sparire l’alterità del paziente per assimilarlo a sé o di offrirsi come interlocutori inutilizzabili perché esigono una seduzione narcisistica che obbliga il paziente a mettersi al servizio della autoreferenzialità del terapeuta.

2) La discontinuità nelle relazioni e il collasso della funzione terapeutica

Sappiamo che “scoprire il paziente curandolo” comporta inoltre tenere presente che la sofferenza psichica profonda ricerca sempre una stabilità, immaginata come risolutiva di un’angoscia invivibile, ma è anche attraversata  da rotture, da break down, da  interruzioni degli assetti raggiunti

Da un lato ci sono le inaccessibilità al rapporto, le chiusure delle porte di casa, dall’altro le esplosioni pantoclastiche, le fughe, le interruzioni, i rifiuti improvvisi di rapporti di cura individuali o di comunità, magari prima a lungo anche accettati e apprezzati.

I terapeuti inevitabilmente ne vengono come contaminati, in una continua fatica controtransferale che produce un’atmosfera di minaccia insidiosa, tanto più  si confrontano con la delega di controllo sociale, che nei fatti sempre la stessa società propone loro.

Quindi si tratta di “stare con“ molto a lungo, correndo però anche i rischi di collusione e crollo della propria funzione terapeutica. E questo trova spesso impreparati molti terapeuti che, per la loro formazione sono abituati a gestire setting resi stabili sia da strutture contenitive che da richieste esplicite di aiuto.

Recentemente si è cominciato poi a riflettere criticamente (Ferruta, 2015) proprio sugli effetti che quel bisogno di stabilità provoca nel paziente nei familiari e nei terapeuti. L’effetto prevalente è un intollerabile senso di insicurezza, che si vorrebbe superare anche con diagnosi definitorie, prognosi, uso perentorio di farmaci, sistemazioni in specifiche strutture: tutto purché questa inquietante sensazione abbia fine.

Accade che sui curanti viene proiettata dai familiari un alone di sospetto di incompetenza, perché non trovavano  (rapidamente e in modo verificabile) il rimedio che riporti il soggetto alle condizioni ‘precedenti’, mentre sui familiari viene proiettato dai curanti, con un troppo diretto procedimento di causa-effetto, il il disturbo che ha provocato la crisi.

Motivi per i quali la diagnosi dimensionale, pur inizialmente utilizzata e accettata, entra difensivamente in crisi nei soggetti coinvolti, il contenitore ‘mobile e vivente’ viene perforato, con l’effetto di soccombere frequentemente di fronte al gravosissimo impegno dato da queste situazioni.

3) Pensare in gruppo e la concezione gruppale della mente: il terapeuta, gli altri e la coesione del gruppo

“Pensare in gruppo” diventa così indispensabile e significa provare prima a ridefinire e poi a sperimentare il valore che hanno nella relazione terapeutica il legame tra terapeuta e paziente, tra il paziente e i suoi familiari, e tra operatori tra loro. Ma avere a che fare con gruppi non è facile per i processi di simmetria spesso distruttivi che nei gruppi emergono.

Il tema del funzionamento della mente gruppale a livello individuale e nei gruppi di lavoro rappresenta quindi una questione teorica, tecnica, ed esperienziale.

Uno strumento per “stare con” il paziente, senza entrare in una dinamica annientante. Una questione che non è organizzativa ma psicodinamica. Le dispute teoriche e tecniche sul caso clinico, la lunghezza e i fallimenti di tali trattamenti, rimandano alla necessità di far fronte ai processi di simmetria tra curante e paziente tra i curanti tra loro e con gli altri interlocutori attivi attraverso l’ausilio durante il processo terapeutico di una gruppalità di significati che trovi una compatibilità e una  convivenza accettabile. Una convivialità sufficiente per creare uno spazio mentale che ospiti una pluralità di istanze e di personaggi del mondo interno di ciascuno dei soggetti coinvolti necessaria per sopravvivere psichicamente, proprio per consentire  l’emergere il riconoscimento e lo sviluppo di elementi inconsci bloccati di terapeuti e pazienti e che sono entrati nella dinamica degli scambi relazionali solo attraverso comportamenti non rappresentabili verbalmente.

4) L’importanza della attività mentale dei terapeuti come espressione della attività mentale dei pazienti

Prestare attenzione ai processi di soggettivizzazione, utilizzando per la costruzione ed espansione del Sé l’entrata in relazione con l’elemento inconscio del paziente, se da una parte contiene elementi vitali, dall’altra attiva anche nei terapeuti importanti aspetti inconsci che provocano un processo dinamico di ulteriore potenziale indeterminatezza a volte preoccupante.

D’altra parte, avviare una diagnosi dimensionale e non più categoriale implica anche avere una visione dimensionale della psicosi, che consenta anche a noi stessi di metterci in relazione come ‘vulnerabili esseri umani verso un altro’, assumendo un atteggiamento che renda possibile per il paziente un’alleanza terapeutica autentica e affidabile.

Se autori come Fairbairn, Winnicott, Ogden, Bollas ci propongono di considerare (elementi de) il funzionamento psicotico come una condizione umana normale e regolarmente ricorrente, ne discende che gli individui anche “potenzialmente maturi” (quindi anche i terapeuti) vi possono entrare, specialmente quando devono gestire affetti forti come la paura.

Saper molto di più sul ruolo che l’angoscia ha nei primi periodi della vita ha significato sapere che spesso esperienze emozionali soverchianti vengono recepite in un sistema di memoria dissociato (Bromberg, 2011) in cui vien meno la percezione della continuità del vissuto di sé; l’inconscio non solo può essere deposito di qualcosa di rimosso da restituire alla coscienza ma anche ricettivo (Bollas, 2012) di qualcosa ancora non rappresentabile che può diventare occasione per attivare un pensiero per l’analista e il paziente; che questi vissuti non elaborati possono far irruzione nella vita mentale di tutti i soggetti coinvolti, collegandosi a stati di angoscia senza nome e di paura del crollo (Winnicott, 1963) che non elaborati si possono quindi tradurre in azioni più o meno sintomatiche.

La capacità di dissociare è semplicemente parte di ogni essere umano e pazienti e analisti a questo proposito non sono diversi.

5) La realtà come avvicinamento a eventi psichici

Nel vivo di queste situazioni cliniche QUINDI oltre che da parole siamo continuamente circondati da comportamenti, azioni, acting di pazienti di terapeuti di familiari. Le dimensioni attive del processo danno spesso espressione a un’esperienza inconscia (J. Greenberg, 2012) , e per azioni possiamo intendere sia il modo in cui il terapeuta e il paziente pensano e parlano, sia la qualità di alcuni dei loro comportamenti, compresi quindi anche azioni effettive (non simboleggiate e magari ignorate) a cui partecipano prima e anche durante i loro incontri.

Ancora oggi molti psicoanalisti non danno abbastanza valore ai propri comportamenti con i loro pazienti e a quelli dei pazienti e molte questioni extrasetting psicoanalitico cioè gli agiti e le manifestazioni patologiche che non vengono contenute e elaborate nel setting analitico non vengono adeguatamente affrontate durante la formazione analitica sono ancora lasciate, forse come  riflesso di autoconservazione istituzionale, ai margini del processo elaborativo spesso affidate  colpevolmente all’esterno del setting al braccio secolare  dell’intervento esclusivamente  farmacologico o assistenziale.

Oggi il punto è valutare bene quale psicoanalisi e per quali pazienti cercare un uso appropriato delle nostre capacità e come poterle trasmettere anche a chi psicoanalista non è e non lo potrà o vorrà mai diventare, ma è ugualmente implicato nel processo terapeutico.

E faccio, per concludere, un esempio di uno strumento analitico che mi aiuta a pensare in modo gruppale. Il concetto enactment e l’uso che ne possiamo fare viene considerato sempre di più un concetto vitale in relazione alla attualizzazione dei processi inconsci, sia come espressione del coinvolgimento controtransferale dell’analista nelle azioni che rappresentano una rottura dell’esperienza cosciente di se stesso, sia come attualizzazione degli scenari relazionali potenziali in cui si attiva del materiale inconscio scarsamente simbolizzabile e simbolizzato sia nel paziente che nell’analista.

L’uso dei fenomeni di enactment mette ancora una volta al centro di attenzione di una concezione relazionale bipersonale e interattiva dell’analisi le idiosincrasie personali dell’analista e ciò pone nuove sfide alla teorizzazione della diade analitica mettendo la teoria di fronte alle relazioni d’incertezza. La soggettività dell’analista la sua spontaneità e la sua vulnerabilità possono così ricevere riconoscimento, in quanto componenti necessarie e coerenti della teoria del trattamento clinico

Conclusioni

Oggi ci troviamo ad affrontare problemi le cui soluzioni richiedono traiettorie complesse e parte degli strumenti ereditati dalla cultura psicoanalitica (che magari hanno coinvolto massivamente gli anni della nostra formazione) non sono adeguati a risolvere i problemi che ho fino ad ora descritto.

Credo che in questo senso, come psicoanalisti, dobbiamo volgere lo sguardo non solo verso i nostri tanti pregi (consolatori), ma (con più umiltà) anche  verso le difficoltà che incontriamo.

Si tratta di domandarci in ogni occasione quali siano i limiti del contenitore mentale dell’analista e del dispositivo analizzante che utilizza. Per chiederci se i limiti sono un fallimento della psicoanalisi o invece rappresentino la necessità di tentare sempre da psicoanalisti di “inventare una forma di psicoanalisi che il paziente sia in grado di usare” (Ogden, 2015), adeguandosi alle capacitàdi contenimento, di simbolizzazione e di umanizzazione di quella particolare relazione terapeutica.

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