La Ricerca

Bezoari M. (2006). Contributo alla riflessione su dialogo scientifico e ricerca in psicoanalisi.

6/07/14

Bezoari M. (2006). Contributo alla riflessione su dialogo scientifico e ricerca in psicoanalisi. In Il dialogo scientifico sull’osservazione e sull’esperienza psicoanalitica, a cura del Comitato Nazionale per la Ricerca. Rivista di Psicoanalisi: Monografie, Roma, Borla, pp. 23-29.

 

La pubblicazione di questo testo è stata autorizzata dalla Rivista di Psicoanalisi.

 

Per rilanciare quel dialogo tra le diverse posizioni teoriche che è necessario per lo sviluppo della psicoanalisi, come di ogni scienza, mi sembra utile prendere in considerazione il criterio epistemologico della specificità.

Dopo la crisi del modello normativo sancito dal neopositivismo, a cui tutte le scienze degne di questo nome avrebbero dovuto uniformarsi, nel variegato panorama dell’odierna epistemologia emerge un atteggiamento descrittivo – più che prescrittivo – nei confronti delle diverse discipline, nel rispetto delle specifiche modalità con cui ogni scienza “costruisce la sua base empirica”, istituendo un proprio peculiare campo di osservazione e “oggettivazione” dell’esperienza (Borutti, 1999).

In questa prospettiva possono essere superate alcune tradizionali e sterili antitesi, come quella tra “soggettività” e “oggettività”, aprendo un fecondo campo di riflessione sulle diverse modalità con cui momenti soggettivi e oggettivi si articolano necessariamente in ogni processo di conoscenza.

Seguendo la documentata ricognizione storica di Assoun, appare verosimile che Freud abbia fatto leva proprio sul criterio di specificità – nella forma allora sostenuta dall’epistemologia di Mach, che attribuiva a ciascuna scienza lo statuto di Spezialwissenschaft – per garantire alla nascente psicoanalisi uno spazio di crescita autonoma, svincolandola sia dal riduzionismo positivistico (che pure aveva improntato la sua formazione di ricercatore neurobiologico) sia dal dualismo natura/spirito proposto dallo storicismo (che ora riecheggia nel dualismo scienza/ermeneutica).

Suona dunque ancora molto appropriata, in tal senso, la ben nota definizione freudiana della “psicoanalisi come scienza empirica”, dove va sottolineata l’affermazione che la psicoanalisi, al pari delle altre scienze come la chimica o la fisica, “si attiene ai dati di fatto del proprio campo di lavoro” (Freud, 1922, 457).

E quali erano – quali sono – per la psicoanalisi questi dati di fatto, se non i fatti clinici prodotti nel setting, grazie alla messa in funzione del dispositivo interpsichico della cura analitica? L’attualità della precedente definizione implica, come naturale corollario, quella dello Junktim, l’inscindibile legame fra terapia e ricerca.

Ciò non significa, ovviamente, che l’attività di ricerca per l’analista possa coincidere semplicemente con la pratica clinica. L’elaborazione necessaria a rendere pubblici, confrontabili e quindi fruibili per la comunità scientifica i fatti clinici prodotti nella seduta analitica ha rappresentato un problema già per Freud (il quale fu il primo a notare che i suoi resoconti clinici somigliavano più a racconti che a protocolli sperimentali) ed è oggi al centro dell’attenzione, dopo essere stata troppo a lungo lasciata all’estro individuale di ciascun analista.

Il problema è come raggiungere il massimo di omogeneità e affidabilità nei criteri di esposizione del materiale clinico senza comprometterne la qualità personale e narrativa efficace per trasmettere la dimensione emotiva e intersoggettiva dell’esperienza analitica. La natura dei fatti clinici in psicoanalisi è tale che l’analista può fungere da osservatore previlegiato proprio in quanto è anche soggetto partecipe della loro realizzazione, insieme al paziente. Quella soggettività che nell’ottica neopositivista è giudicata come fonte di irrimediabile “contaminazione” epistemica (Grünbaum, 1984) rappresenta invece una dimensione costitutiva dell’oggetto che si vuole indagare.

L’utilizzo di strumenti meccanici di registrazione per aiutare o, secondo alcuni, per sostituire il lavoro di trascrizione personale dell’analista è, come sappiamo, argomento di animate discussioni. Altrettanto dibattuta è la questione di quale sia il metodo migliore per mettere insieme e valutare i dati così ottenuti a scopo di verifica delle ipotesi e di confronto tra diversi modelli teorici.

La teoria psicoanalitica nella sua accezione più specifica – o, se si preferisce, più ristretta – ha come proprio referente empirico il campo di lavoro clinico dell’analisi ed è quindi con i fatti clinici provenienti dal setting analitico che essa va cimentata alla ricerca di convalide, smentite o cambiamenti.

Sappiamo, tuttavia, che lo stesso Freud è stato il primo ad andare oltre questi confini, desiderando ampliare la portata conoscitiva della psicoanalisi ad ogni espressione della vita psichica umana e quindi riferendosi anche a fatti esterni al setting analitico, provenienti dai più vari campi.

Accanto alla teoria psicoanalitica ristretta c’è stato quindi lo sviluppo di una teoria psicoanalitica allargata, che non è facile ma è opportuno distinguere dalla prima, applicando il criterio di specificità epistemologica che riconosce, in ogni disciplina scientifica, una precisa connessione tra teoria, oggetto e metodo.

Le stesse enunciazioni teoriche possono assumere una portata ben diversa a seconda del campo di esperienza, cioè dell’ambito di fenomeni, a cui si riferiscono. E, per quanto riguarda la ricerca, diversi saranno i metodi più idonei a cimentare ogni teoria con il tipo di fatti ad essa pertinenti.

Il criterio di specificità richiama così un altro principio, quello dei limiti di ogni conoscenza scientifica che, proprio in quanto tale, non può pretendere di cogliere tutta la realtà, ma solo quegli aspetti della realtà attingibili con i suoi strumenti concettuali e operativi.

Per l’odierna coscienza epistemologica “è un’illusione credere che possano esistere teorie valide in assoluto“, poiché “qualsiasi teoria ha un suo ‘dominio di validità‘ limitato” (Toraldo di Francia, 1996). Trascurare questo criterio rischia di favorire indebite generalizzazioni sia delle conferme che delle confutazioni empiriche (come accadrebbe, ad esempio, se si ritenesse che nella fisica moderna l’avvento della meccanica quantistica ha “falsificato” la teoria di Newton, mentre ne ha soltanto precisato i limiti di validità entro certi ordini di fenomeni e di grandezze).

La pluralità dei metodi di ricerca in psicoanalisi è dunque non solo inevitabile, ma necessaria, data la pluralità di livelli presenti nella teoria psicoanalitica così come si è storicamente sviluppata fino ad oggi.

Il riconoscimento di questa molteplicità di posizioni teoriche all’interno della comunità analitica, una volta attenuatasi la pressione dogmatica dell’ortodossia, pone il problema di come sviluppare un dialogo scientificamente fecondo tra le diverse posizioni su un terreno comune, per evitare il rischio di una progressiva frammentazione della psicoanalisi in una babele di saperi (e di pratiche cliniche) tra loro incommensurabili, anche se magari coesistenti nel medesimo spazio istituzionale.

L’esigenza di ridefinire consensualmente uno sfondo comune (Di Chiara, 2003) non va intesa come aspirazione a superare tutte le differenze di pensiero tra gli analisti, ristabilendo una fantomatica unità perduta, bensì come necessità di creare le condizioni di base che favoriscano in psicoanalisi un vero confronto, fatto anche di salutari controversie (Bernardi, 2002), tra i sostenitori di indirizzi teorici diversi.

Tra gli ostacoli che si frappongono allo sviluppo di un vero dialogo scientifico in psicoanalisi c’è l’estrema variabilità nell’uso del linguaggio e, in particolare, dei concetti, che costituiscono i cardini dell’ articolazione tra teoria ed esperienza.

Nell’attuale intrecciarsi di modelli teorici, con i relativi “dialetti”, non è sempre chiaro, ad esempio, se si stia dicendo la stessa cosa con parole diverse o magari cose diverse con la stessa parola, se due o più ipotesi siano alternative o complementari, se e quanto siano coerenti tra loro e se possano o meno coesistere all’interno dello stesso paradigma.

Un certo grado di elasticità nel significato di un concetto può essere un pregio, che ne favorisce la capacità di integrare nuove esperienze. Ma, al di là di un certo limite, il rischio di fraintendimenti nella comunicazione aumenta, rendendo necessaria una chiarificazione, ridefinizione o eventuale sostituzione del concetto stesso.

Di qui l’esigenza, sempre più condivisa nella comunità psicoanalitica internazionale, di assumere i principali concetti del nostro strumentario teorico quotidiano come oggetto specifico di riflessione e ricerca.

Per ricerca concettuale si intende oggi – secondo la stessa A.U. Dreher (2000, 2003) che l’ha formulata in questi termini – non una procedura standardizzata e univoca, ma un “programma di ricerca” aperto a diversi approcci metodologici che si rivelino utili allo scopo.

In questa prospettiva generale si è inserita anche la scelta del nostro gruppo di lavorare su un concetto cruciale come quello di transfert per esplorare le vie più idonee ad un rilancio del dialogo e della ricerca in psicoanalisi.

Abbiamo sperimentato innanzi tutto tra noi come sia impegnativo ma anche proficuo sforzarsi di esplicitare i significati del concetto, sulla base dei nostri orientamenti teorici ma senza ricorrere a definizioni autorevoli, all’ipse dixit, bensì cercando di mettere in parole condivisibili ciò che ritenevamo essenziale e più rispondente all’effettivo uso clinico del concetto stesso.

Non fermarsi alle prime concordanze o discordanze, ma cercare di ricondurle ai loro presupposti impliciti, senza dare per scontato per tutti ciò che lo è solo per qualcuno, è un esercizio che richiede un parziale straniamento rispetto al lessico e ai modi di pensare che ci sono diventati familiari nel corso della nostra formazione, della nostra vita professionale, degli scambi con i colleghi più frequentati. L’impegno emotivo, oltre che intellettuale, che ciò comporta può essere portato avanti in un ambiente istituzionale e gruppale che non solo lo permetta ma lo sostenga, come è avvenuto nel nostro caso e come è auspicabile che avvenga con il coinvolgimento sempre più esteso dei colleghi.

Occuparsi dei concetti è ben altra cosa che dedicarsi ad astratte speculazioni, lontane dall’esperienza e dal confronto con “i fatti”.

In una scienza empirica – anche se non sperimentale – come la psicoanalisi, i concetti non hanno soltanto un valore semantico, nell’ambito della teoria di cui fanno parte, ma anche un valore pragmatico, operazionale, in rapporto al campo di esperienza a cui la teoria si riferisce. Essi rappresentano, per così dire, l’interfaccia per mezzo della quale il mondo delle idee e quello dei fatti si connettono e si trasformano reciprocamente.

I fatti, anche quelli clinici, non parlano da soli, non possiedono un’evidenza innata. E’ soltanto una specifica messa in forma dell’esperienza secondo certi presupposti teorici che permette di individuare alcuni fatti come tali, cioè pertinenti all’osservazione, prima ancora di poterli utilizzare a favore o contro un’ipotesi.

I difficili e spesso frustranti tentativi di dialogo tra diversi orientamenti, nel nostro ambito psicoanalitico, stanno a testimoniare quanto sia illusorio pensare di risolvere la complessità delle differenze teoriche mediante il puro e semplice ricorso alla clinica, che ci metterebbe a diretto contatto con “la realtà dei fatti”. Altrettanto illusoria è, a maggior ragione, la pretesa di ottenere lo stesso risultato grazie all’obiettività di dati provenienti da altri campi di esperienza, raccolti e trattati con i metodi propri di altre discipline.

Indagare e riflettere sul nostro uso dei concetti psicoanalitici, cercando di rendere un po’ più espliciti anche quegli assunti personali, privati o condivisi solo a livello di sottogruppi, che spesso non vengono mai messi in discussione pubblicamente, sembra un modo promettente per coltivare il comune terreno psicoanalitico sul quale le diverse posizioni teoriche e i diversi metodi di ricerca, clinici ed extraclinici, possono articolarsi, evidenziando meglio i punti di affinità o divergenza.

Ciò non equivale a perseguire, come obiettivo necessario, una sintesi unificante e conciliante di tutte le differenze. Un confronto portato avanti su questa linea, con la progressiva esplicitazione e il reciproco riconoscimento dei presupposti e delle conseguenze operative di ciascun punto di vista, anche quando lascia aperte le questioni controverse, aiuta già di per sé a rendere un po’ più chiare e coerenti le idee così cimentate e rafforza comunque, negli interlocutori, lo spirito di collegialità e il senso di appartenenza a una vera comunità scientifica.

Questa è, almeno, l’indicazione che mi sembra scaturire dall’esperienza del nostro gruppo.

I due questionari sono stati concepiti e realizzati, dopo un’intensa e dibattuta fase di elaborazione all’interno del comitato, come strumenti per estendere al più vasto numero possibile di colleghi una ricognizione dei diversi punti di vista presenti oggi nella psicoanalisi italiana su un concetto fondamentale come il transfert. Nello stesso tempo, si è trattato di esplorare concretamente la possibilità di coniugare, in un medesimo progetto, i metodi qualitativi caratteristici della ricerca concettuale (studio della letteratura e discussione nel piccolo gruppo) con i metodi quantitativi (raccolta di dati numericamente valutabili e analisi statistiche) propri della ricerca empirica. La convinzione maturata nel corso della nostra esperienza è che tra questi metodi di ricerca praticabili in psicoanalisi sia necessario mantenere un costante rapporto dialogico, non potendo l’uno ignorare le ragioni dell’altro, né pretendere di avere l’ultima parola.

Le domande comprese nel primo questionario sono scaturite, come già detto, dal confronto preliminare tra i membri del comitato circa i rispettivi punti di vista sul concetto di transfert.

Le risposte a tali domande, elaborate con il metodo statistico dell’analisi fattoriale (Solano, in questo volume), sembrano confermare su scala più ampia quello che si era verificato nell’esperienza del piccolo gruppo. Quando, cioè, il confronto di idee tra analisti avviene in un clima abbastanza libero da condizionamenti gerarchici e superegoici, allo scopo di chiarirsi reciprocamente l’uso dei concetti, le differenze che emergono tendono a delineare una mappa di posizioni non coincidenti con i modelli di “scuole” o “famiglie” psicoanalitiche quali vengono di solito schematicamente rappresentate nella letteratura e nei nostri più consueti discorsi (kleiniani, winnicottiani, kohutiani, ecc.).

Dal confronto aperto tra i vari punti di vista non risulta – com’era prevedibile – una definizione univoca del concetto di transfert, ma neppure – com’era forse temibile – una dispersione babelica del suo significato. Vengono, piuttosto, messi in evidenza gli aspetti ritenuti oggi più pertinenti all’effettivo uso teorico-clinico del concetto, le dimensioni più fruibili del suo spazio semantico (“meaning space” di Sandler).

Su alcuni di questi aspetti si riscontra una notevole convergenza, a testimoniare che, nonostante gli ampliamenti e le trasformazioni cui è andato incontro nel tempo, il concetto di transfert mantiene ancora per gli analisti un nucleo di significato consensuale e non ha soltanto valore di scibboleth. Il maggior accordo tra gli analisti che hanno risposto al questionario esiste, in particolare, per i gruppi di items attinenti al transfert come riedizione di esperienze e modalità relazionali del passato e all’influenza che le relazioni attuali, inclusa quella con l’analista, esercitano sulle manifestazioni del transfert.

Per altri aspetti le posizioni sembrano divergere, indicando nodi problematici e tensioni tra opposti versanti di significato a cui corrispondono, verosimilmente, usi diversi del medesimo concetto che sarebbe opportuno rendere più espliciti per coglierne meglio le diverse implicazioni teorico-cliniche e per evitare il rischio di fraintendimenti nella comunicazione scientifica.

Il maggior disaccordo si registra sui due gruppi di items, che riguardano l’importanza della dimensione intrapsichica del transfert (sia nel paziente che nell’analista) e il grado di centralità e specificità del transfert nel processo analitico. Ciò potrebbe indicare, a mio avviso, alcuni punti “caldi” da approfondire nel dibattito e in successive ricerche:

a) la problematica articolazione tra la metapsicologia classica, formulata in termini prevalentemente intrapsichici, e le più recenti teorizzazioni orientate a cogliere la dimensione relazionale e interpsichica;

b) i diversi modi di recepire sul piano teorico le esperienze cliniche di estensione della psicoanalisi (a patologie borderline, psicotiche, psicosomatiche, ecc.). Il concetto di transfert può essere utilizzato anche per formulare teoricamente queste nuove esperienze, ampliandone la portata semantica (ad esempio, sviluppando le implicazioni del freudiano “transfert positivo irreprensibile” come fattore di per sé terapeutico), o il suo ruolo nella teoria della cura analitica diventa meno essenziale (ad esempio valorizzando le componenti non transferali della relazione “reale” con l’analista)?

In conclusione, mi sembra ragionevole attendersi da ulteriori progetti di ricerca e chiarificazione concettuale come quello avviato nel nostro gruppo non risposte in grado di dirimere le controversie tra punti di vista alternativi, ma una facilitazione del confronto sulle autentiche differenze di pensiero, sgombrando il campo dai fraintendimenti dovuti al diverso uso delle parole e dei concetti con cui ciascuno esprime il proprio punto di vista.

 

Bibliografia

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Dreher A.U. (2000). Foundations for Conceptual Research in Psychoanalysis. London & New York, Karnac.

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Toraldo di Francia G. (1996). Il mito della verità approssimata. In AA.VV., Scienza e filosofia alle soglie del XXI secolo, Milano, Le Scienze Editore.

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