Il bisogno di interessarsi alla ricerca è pressante per la Psicoanalisi, perché non resti isolata e sconosciuta.
La giornata di studio, che si è tenuta a Roma, sabato 28 gennaio, ha rappresentato l’occasione per riflettere sull’ mportanza della diagnosi, le interazioni tra Psicoanalisi e Psichiatria e il lavoro dei clinici ricercatori. Tiziana Bastianini ha citato Eugenio Gaddini, attento studioso non solo dei limiti che incombono sulla strutturazione dell’Io ad opera delle primitive angosce di perdita di sé, ma anche dei limiti con cui deve obbligatoriamente confrontarsi la ricerca psicoanalitica. Gaddini (1984) scriveva:
“Volenti o nolenti, gli psicoanalisti sono un esercito di ricercatori, che per la prima volta nella storia umana indagano sistematicamente da circa un secolo sulla patologia del funzionamento mentale e, attraverso questa, sul funzionamento naturale. […] La psicopatologia umana èsempre stata un deserto della conoscenza prima che gli psicoanalisti, seguendo Freud, cominciasseroa penetrarvi. Tra le mille cose che Freud ha insegnato agli psicoanalisti, c’è ilsenso della scientificità e della gradualità in questo tipo di ricerca. Inutile correre avanti. Chilo ha fatto, è rimasto per strada. […] È chiaro, adesso, che sul deserto della conoscenza incombevala pazzia, e che pazzia rendeva deserto il deserto. […] la conoscenza della psicoanalisiè andata verso la conoscenza della pazzia, circondata dalla paura di tutti Non sono inostri pazienti che vanno verso la pazzia, ma gli psicoanalisti che si vanno avvicinando conil loro aiuto, e debitamente muniti di esperienza, a quella conoscenza perennemente temuta.L’uso che noi facciamo dei nostri pazienti è reso possibile dall’uso che loro fanno di noi”. Tiziana Bastianini ha sottolineato l’importanza, nell’analisi, di trovare un oggetto trasformativo e trasformarsi. Abbiamo bisogno di comprendere come ricercatori le varianti di queste trasformazioni.
ROSSI MONTI: “LA DIAGNOSI COME NOME, LA DIAGNOSI COME VERBO”
Nel lavoro presentato, Rossi Monti ha riportato alcuni stralci clinici relativi ad una giovane paziente, che aveva avuto diversi ricoveri con diverse diagnosi psichiatriche. Questo materiale ha offerto al pubblico la possibilità di riflettere sulle interazioni tra diagnosi psichiatrica e Psicoanalisi. In questo caso le diagnosi ricevute hanno permesso alla paziente di riunire una serie di esperienze di sé, senza senso, da cui si sentiva travolta, nella discontinuità psichiatrica in cui veniva seguita. Col senno di poi, è stato possibile dire che queste etichette hanno permesso un primo nucleo di soggettivazione, a partire dai disturbi che la paziente presentava.
La diagnosi psichiatrica riguarda anche lo psicoanalista come punto di partenza del lavoro clinico che poi andrà al di là. Quelli che questa paziente presenta sono frammenti utili-sintomi che dicono, intorno al perché e soprattutto al come, sulle manifestazioni della sua sofferenza. Il paziente quasi mai giunge digiuno, senza una sorta di “teoria della mente” (S. Nicasi). Dare dignità diagnostica a questi frammenti è dare al caso una visione allargata. Non si cerca un nome, ma la diagnosi deve essere un processo che si intreccia col percorso terapeutico. Per Rossi Monti la diagnosi rimanda al diagnosticare, funzione che si dispiega nel tempo. Come clinici bisogna essere capaci di usare il verbo.
Il contributo della Psicoanalisi sta nel tenere aperto questo stato oscillatorio della mente nome-verbo, mantenendo una visione strabica, con accomodamento oculare e psichico, cercando come nella visione binoculare, un’integrazione per acquisire la profondità (evitando l’uso piatto della diagnosi). Vi è, però, il rischio di una sintesi, evitabile se si tiene a mente che questa integrazione deve essere una meta ideale. La visione strabica deve essere mantenuta in fuoco e fuori fuoco. In questo continuo “fuochettare”, attraverso piccoli movimenti, la diagnosi-nome si fa verbo e poi di nuovo nome, e così via in una spirale. La tensione consente il vitale, che evita l’entità fissa/pietra tombale. È necessario, in questo procedere, che resti viva la capacità di stupore del clinico, per capire meglio e di più a favore della relazione terapeutica. Tutti gli strumenti diagnostici devono restare in tormento (Jaspers).
LINGIARDI: “FARE DIAGNOSIOGGI: SWAP-200, PDM-2 E DMS-5”
Lingiardi ha affermato che la formulazione del caso, non è più una parola-etichetta, ma un racconto, una descrizione, che colloca il paziente nel mondo delle caratteristiche psicopatologiche. È raro che il clinico si avvicini alla formulazione diagnostica. Invece, la diagnosi è importante per l’alleanza terapeutica.
Il carattere è il destino (Eraclito). Le caratteristiche psicopatologiche del paziente sono all’interno di una struttura di personalità che le trasforma. La diagnostica di personalità (SWAP) ci permette di riconoscere quante tipologie di pazienti ci sono in una personalità (considerazione del contesto della personalità).
Non si può riassumere la gente in poche parole (V. Woolf). Non è possibile farlo neanche in un report clinico, perché vi è un rischio di onnipotenza. Per alcuni pazienti è un processo che può durare poco tempo, per altri può durare anni. Quello in cui si deve restare col il paziente è una tensione diagnostica. Gli dobbiamo restituire qualcosa di descrittivo, ma senza alcuna idea di fissità. La diagnosi è psicodinamica, perché è in movimento. Lingiardi ha riportato lo scontro che c’è stato con Hoffman, per il quale la diagnosi è una modalità autoritaria sul paziente e il PDM è un DSM travestito. Esiste una posizione antidiagnostica, fino all’oscurantismo, ma vi sono anche coloro che si pongono in posizioni più dialettiche, per cui la clinica è solo one to one.
Le caratteriste del contesto di oggi sono interessanti per parlare della diagnosi. Prima vi erano solo DSM/CDI. Non esistevano proposte alternative nei contesti psicodinamici. La diagnostica DSM era vissuta dai clinici o come forzatura, da utilizzare per le cartelle cliniche, o come qualcosa da non prendere nemmeno in considerazione. Non c’era una voce psicodinamica/psicoanalitica che potesse dialogare in questi termini. La McWilliams diceva che per molti la diagnosi era una brutta parola.
Con la SWAP e PDM la situazione è cambiata. I cambiamenti si possono vedere nella formulazione del caso appoggiata su strumenti che possono rendere più semplice la vita del clinico. C’era la necessità di costruire una diagnostica che tenesse presente le varianti culturali del caso (dimensioni culturali della personalità in altri contesti).
Nel DSM-5 non è più presente la multiassialità, ma è stata inserita la dimensione categoriale dimensionale. Quella di cui si parla non è una diagnosi da fare in pronto soccorso. La diagnosi che deve essere fatta in consultazione, negli studi privati e nei centri clinici dovrebbe organizzarsi intorno a due proposte top-down (DSM-5 e PDM-2), mentre la SWAP è caratterizzata da un approccio bottom-up. Diagnosticare con il PDM e la SWAP significa:
– – Collocare la diagnosi nel ciclo di vita
– – Individuare le risorse e non solo gli elementi patologici (nella SWAP, per esempio, si può dire il paziente è dotato di ironia, sa prendersi cura del suo animale domestico)
– – Considerare la soggettività del sintomo (si può parlare di un adolescente portato alla paranoia, non di un adolescente paranoico)
– – L’esperienza relazionale del clinico come elemento della valutazione
– – Leggere la psicopatologia nel contesto della personalità
– La diagnostica serve al trattamento, ma non può vivere staccata dalla ricerca.
La SWAP, con i suoi 200 descrittori, valuta quanto ognuno di questi è presente e come rientrano nella formulazione del caso. È una strumentazione che permette di trasformare le noiose, e necessarie, tabelle della ricerca empirica, nell’oro della clinica. È un programma per la valutazione della personalità. È un metodo di attribuzione che serve a fare assessment, formulare il caso. La bontà di uno strumento diagnostico è costituita dall’uso che il clinico ne fa. Ci deve essere sfida e piacere a configurare una diagnosi, che è immersa in una storia e nel futuro, come previsione del trattamento (quale non trattamento per quel paziente) e nella gestione dell’invio. Questo restituisce al clinico l’identità di comprendere, descrivere, quello che sta capendo del paziente. Sta a noi dare un senso alla diagnosi, per recuperare la nostra sensibilità clinica.
FRANCES: “PSYCHOANALYSIS YESTERDAY, TODAY AND TOMORROW”
Frances ha sottolineato come l’interesse di Freud per il carattere derivò dalle resistenze dei paziente ai suoi trattamenti. Il DSM-3 è stato molto influenzato dalle descrizioni psicopatologiche dei casi di Freud. Krepelin lavorava solo con pazienti ricoverati ed i livelli di patologia erano elevati. Freud, meglio del DSM, descrisse le fobie e gli attacchi di panico e comprese la differenza tra melanconia e lutto. La sua definizione di DOC fu importante per le versioni successive del manuale. Permaneva, però, un problema storico tra Psicoanalisi e contesto storico. All’epoca Frances fu incaricato di negoziare tra le associazioni psicoanalitiche statunitensi e la task force del DSM. Lo scopo di Spitzer era di raggiungere l’affidabilità diagnostica dei criteri. La Psicoanalisi era sotto attacco perché questo strumento dava prova del fatto che gli psichiatri non convergevano né sulla diagnosi né sui trattamenti. Il DSM costituiva un sistema diagnostico semplice, che riduceva il livello d’inferenza, eliminando ciò che rende gli esseri umani esseri umani (l’invidualità/soggettività). La maggior parte del lavoro psicoanalitico dà significato e non si limita a descrivere ciò che appare. Trovare affidabilità nelle inferenze psicoanalitiche è impossibile. Nelle discussione di un caso clinico, ogni scuola è convinta di avere ragione e avere la verità. Il dibattito psicoanalitico sul DSM era molto concentrato sui termini simbolici, si poneva su cose marginali (mantenere o eliminare il termine nevrosi). Per altro nevrosi non è un termine psicoanalitico. Le nevrosi erano trattate dai neurologi.
Dopo la seconda guerra mondiale ci furono i dipartimenti di psichiatria, diretti o influenzati da psicoanalisti. La Psicoanalisi dominò anche in altri campi (Antropologia, Storia dell’arte, Psicologia). Era un movimento di grande forza negli Stati Uniti. Dopo l’uscita del DSM le persone iniziarono a parlare dei loro sintomi e non dei loro sogni. La Psicoanalisi iniziò ad essere messa in crisi dalle neuroscienze e da altri approcci o teorie. Non c’è dubbio che la Psicoanalisi era praticamente scomparsa negli Stati Uniti. All’inizio del secolo scorso, la Psicoanalisi era un movimento di ispirazione a livello mondiale. Oggi, 35 anni dopo DSM-3, la Psicoanalisi è considerata congelata o priva di rilievo/significato. È necessario riconoscere il problema e provare a trovare delle soluzioni.
Ai tempi della pubblicazione del DSM-3 vi era anche l’intenzione di pubblicare un testo sui progetti terapeutici per definire cosa fare a partire da quella diagnosi. Frances e il suo gruppo ritirò questo intento, dando così l’impressione che fosse sufficiente fare diagnosi per avviare il trattamento. Frances non si fida dei professioni che conoscono solo il DSM, come di chi lo trascura, perché la diagnosi differenziale può essere utile ai fini del trattamento. Ciò che stanno cercando di fare col PDM è trovare un linguaggio comune tra gli psicoanalisti.
L’unico limite che Frances ha osservato esserci nel PDM è che è un libro troppo lungo e specialistico. L’augurio per la Psicoanalisi è di divenire più flessibile e meno congelata. Il PDM è un passo importante, ma vanno fatti molti altri passi e spetta agli istituti abbracciare questi cambiamenti per non rischiare di sparire.
Frances ha posto in evidenza quali sono le questioni che deve affrontare la Psicoanalisi italiana.
Ha portato la sua esperienza personale. Con l’esperienza nella pratica, ha preferito applicare la psicoterapia ad orientamento dinamico, imparando che con essa era facile trovare pazienti, mentre era impossibile trovare paziente da analisi classica. Si rese conto che il futuro della Psicoanalisi era a ridosso della psicoterapia non della Psicoanalisi. Pensa che lo stesso Freud non fu mai così rigidamente freudiano come lo furono i suoi seguaci. Ritiene, inoltre, che purtroppo sono stati i tedeschi a controllare troppo precocemente la Psicoanalisi, introducendo una rigidità aliena al modello freudiano. Il suo modello di funzionamento mentale ha retto bene al passaggio del tempo. Effettivamente abbiamo pulsioni ed istinti innati, dentro di noi, che sono effettivamente deputati a controllare il nostro comportamento senza che ce ne accordiamo. Se ci rifacciamo all’imaging ci sono varie parti del cervello che si attivano come aveva previsto Freud. La scienza cognitiva contemporanea ha reinventato quello che ha detto Freud. Prima che venissero meno i fondi di ricerca, Freud era un eminente neuroscienziato, a livello mondiale. Fu il primo a comprendere come funzionano le sinapsi. Oggi, se fosse vivo, integrerebbe le neuroscienze, non resterebbe fermo sulla teoria della libido. La Psicoanalisi dovrebbe aggiornare il modello rispetto a queste componenti specifiche.
Frances ha affermato che Freud non era entusiasta di fare il clinico. Ai suoi tempi vi era una gerarchia netta tra accademici e clinici (posti nelle posizioni inferiori). Se fosse stato ricco non avrebbe mai fatto il clinico e non avrebbe scoperto la Psicoanalisi. Freud va considerato molto più un ricercatore, che uno che voleva curare i pazienti. Il vero clinico ai tempi era Ferenczi. Non era un grande costruttore di sistemi teorici, ma era più interessato all’interazione umana. Si concentrò molto su transfert, controtransfert e relazione terapeutica correttiva. Con Rank sviluppò un modello psicoanalitico più adattabile al mondo reale. Fare 4-5 seduta alla settimana era importante per ricercatore-Freud, ma meno efficace nell’esperienza coi paziente reali. Vi sono una serie di riscontri a riguardo. Per i candidati è molto difficile avere pazienti a 4-5 seduta per potersi associare. Finiscono il training in 4 anni ma non si associano prima di 10. Durante il training si lavora tantissimo, si apprendono cose, anche esotiche, ma non c’è la possibilità di applicarle. Gli istituiti psicoanalitici dovrebbero essere organizzati su modelli più applicabili ai tempi nostri. La terapia cognitivo-comportamentale mostra la sua efficacia anche su dati evidence based, perché in questo ambito si fa più ricerca empirica, ma non ci sono, effettivamente, tutti questi dati a sostegno della maggiore efficacia di tale terapia. Quando si confrontano i risultati sono molto vicini ed è molto probabile che i fattori trasversali siano più importanti di quelli specifici. Le persone sono curate dalle persone, non dalle tecniche.
Anche Andreoli ha sottolineato la necessità di porre l’attenzione al cambiamento radicale del volto dei pazienti psichiatrici. Negli ultimi tempi vi è stata una moltiplicazione della domanda di interventi di urgenza e di trattamenti acuti. Questi pazienti sono in balia di una perdita del controllo emozionale e di difficoltà interpersonali. Questi pazienti si pongono alla frontiera della personalità, della depressione e al crocevia di fattori eziopatologici tanto vari quanto distinti ed eterogenei. Questa, chiamata da Green, clinica del reale e che Andreoli preferisce chiamare clinica del “revenant”, o degli spettri del passato, si impone alla clinica della rimozione. Le conclusioni di Andreoli sono state: “è povera la scienza che non conosce la verità affettiva e viceversa”.
MASTELLA: “PER UNA DIAGNOSI INTERATTIVA IN ETA’ EVOLUTIVA”
Per Mastella diagnosticare è un “sapere attraverso”, di un soggetto (supposto sapere) rispetto ad un altro soggetto, all’interno di un dispositivo di cure e di un legame terapeutico (in un linguaggio medico) o transferale (in un linguaggio psi).
L’approccio diagnostico di uno psicoanalista sul campo è da subito interpersonale e interattivo, e mira a creare le condizioni perché il bambino ed i genitori possano creare legami tra aspetti slegati della loro storia, della propria mente, per potersi narrare in modo più consapevole.
MONTINARI: “DAL CONCETTO DI BREAKDOWN AL TRANSFERT DI BREAKDOWN: UN CONTRIBUTO AL PROCESSO DIAGNOSTICO IN ADOLESCENZA”
La collega, parte del Gruppo di Ricerca “Breakdown in adolescenza”, coordinato da Gianluigi Monniello, ha presentato l’esperienza maturata con adolescenti e giovani adulti che hanno vissuto un breakdown o che possono aver presentato manifestazioni di ingresso nella psicosi. Tali riflessioni sono state necessarie alla luce di un progressivo, sempre più numeroso, aumento di questo tipo di utenza, patologicamente grave e complessa.
È necessario poter prevenire. Riprendendo gli articoli di Fusar Poli ha senso parlare di probabilità prognostica aprendo una riflessione sul soggetto osservante con il contributo del paziente, in una co-costruzione fra soggetti. Kaes parla di “rispondente umano”. Occorre dare significato al gesto, sfruttare la “finestra” che si apre con una crisi, da intendersi come parte attiva dell’adolescente. Monniello, nell’ultima riunione con il gruppo di studio, aveva proposto l’idea di un “ostello psicoanalitico” per adolescenti, come luogo terzo, transizionale, per l’accoglimento della possibilità di esplorare la crisi, il crollo e le sue creative evoluzioni.
BOCCARA: “I RECENTI SVILUPPI NELLE TEORIE PSICOANALITICHE DELL’AZIONE TERAPEUTICA NELLA PSICOPATOLOGIA DELL’ADULTO”
Boccara ha rilevato come sui curanti venga proiettata da parte dei familiari un alone di sospetto di incompetenza, perché non trovano immediatamente ed in modo verificabile un rimedio che riporti il soggetto alle condizioni “precedenti”, mentre sui familiari viene proiettata dai curanti, con un troppo diretto procedimento di causa-effetto, il male che ha provocato la crisi. È necessario “pensare in gruppo”, tra terapeuta e paziente, tra paziente e suoi familiari e tra operatori tra loro. Serve sempre, da psicoanalisti, “inventare una forma di psicoanalisi che il paziente sia in grado di usare” (Ogden), adeguandosi alle capacità di contenimento, simbolizzazione e umanizzazione di quella particolare relazione terapeutica.
NARRACCI: “LA PSICOSI RIGUARDA UNA PERSONA O DUE”
Per Narracci, il modo in cui ci si rapporta al caso dipende dalla concezione del disturbo che ci viene portato. Nelle patologie gravi non è possibile considerare una persona che sta male, ma la persona insieme alla persona con cui vive o insieme alle persone con cui interagisce in modo significativo (un’altra o altre due o altre tre-quattro). Un “campo d’intervento” così articolato nasce dall’ipotesi che la patologia grave origini dai legami nelle relazioni primarie o nel transgenerazionale: possono esservi stati problemi nella separazione o vi può essere stata un’ “interdipendenza patologica o patogena” (Badaracco). Poter ascoltare ogni voce del campo del paziente può permettere il fenomeno della “mente ampliata”: la somma dei vissuti e delle storie arriva a costituire un unicum che racchiude tutti.
BIBLIOGRAFIA
Gaddini E. (1984). Se e come sono cambiati i nostri pazienti fino ai nostri giorni. Riv. Psicoan., 4, 560-580.