Quagliata E. (2015). All’origine del dialogo tra genitori e figli. Primo capitolo (pp. 11-50) del libro di Canarile C., Carbone P., Maestro S., Quagliata E., Rustin M., Trapanese G. (2015). DIALOGHI CON I GENITORI. La psicoanalisi per i genitori, i figli e la famiglia (Astrolabio-Ubaldini Ed., Collana Cento e un bambino), che pubblichiamo per gentile concessione della Casa Editrice Astrolabio-Ubaldini.
“Suppongo che non ci sarà mai una possibilità di sapere
che cosa pensa un feto, ma […]
suggerisco che non ci sia nessun motivo perchè non debba sentire
[…]
ma queste stesse tracce mnemoniche
possono anche essere considerate come
un’ombra che il futuro getta davanti a sé”.
(Bion, 1976, p. 227)
Introduzione
Che fin dalla nascita il bambino si aspetti che un ‘altro’, distinto da lui, accolga i suoi bisogni è un fatto noto, ma che già nella vita intrauterina esista un rapporto intenso tra il feto e il corpo materno e che ogni feto mostri delle caratteristiche forme di comportamento che, in qualche modo, sono riconoscibili anche dopo la nascita, è un’ipotesi che solo negli ultimi trent’anni è stato possibile verificare, in particolare grazie all’uso dell’ecografia.
Il ‘mondo’ con cui il feto entra in contatto e nel quale cresce è rappresentato e mediato esclusivamente dal corpo della madre che lo contiene. Come osserva Mancia, attraverso la placenta la madre porta al feto ossigeno, nutrimento, immunità e difese e, attraverso la produzione di ormoni e le variazioni del tono muscolare e della temperatura, trasmette informazioni riguardanti non solo il suo stato biologico ma anche quello emotivo, informazioni che il feto è in grado di recepire (Mancia, 1981, p. 351). All’interno di questa relazione, interessanti studi ci mostrano che il feto non è un soggetto passivo, ma contribuisce attivamente alla propria gestazione. Nathanielsz descrive così l’attività fetale: “(…) abbiamo il feto, un organismo che secerne un ormone dalle sue cellule nella placenta, in un altro organismo, la madre. L’ormone fetale è allora in grado di modificare il funzionamento delle cellule in un altro organismo, la madre. Così la relazione tra madre e feto inizia molto presto con una conversazione a botta e risposta dove l’embrione già dice alla madre cosa deve fare!” (Nathanielsz, 1995, p. 95, corsivo mio).
L’importanza dell’intensa e complessa relazione che lega la madre, il padre e il bambino ha spinto studiosi e ricercatori nel campo, indipendentemente dalla loro formazione o area di appartenenza, ad andare indietro nel tempo per esplorarne le origini, alla ricerca delle prime manifestazioni di vita mentale e relazionale già nel feto.
Il tema della vita prenatale ha interessato anche i primi psicoanalisti, da alcuni dei quali veniva considerata prevalentemente come una fase idealizzata di beatitudine e fusione con l’ambiente materno e alla quale, successivamente alla nascita, si continua ad anelare. In particolare, Ferenczi, nel suo scritto Thalassa, afferma: “Sono stato indotto a formulare l’ipotesi che fin dalla nascita l’uomo è dominato da una tendenza regressiva permanente che mira a ristabilire la situazione intrauterina, e che vi si aggrappa ostinatamente, con una modalità magico-allucinatoria, tramite allucinazioni positive e negative.” (Ferenczi, 1924, p. 39). Alcuni anni prima riflettendo sull’argomento, egli si domanda se sia possibile ipotizzare l’esistenza di una vita mentale del bambino nell’utero. Ferenczi conclude che sarebbe sciocco ritenere che la mente cominci a funzionare improvvisamente al momento della nascita. Ma quale potrebbe essere, allora, lo ‘stato mentale’ di un feto? “[…] egli deve ricevere dalla propria esistenza l’impressione di essere effettivamente onnipotente. Ma che cos’è l’onnipotenza? La sensazione che uno ha di possedere tutto ciò che vuole e che non ha altro da desiderare. Il feto, quindi, potrebbe dire questo di sé poiché ha tutto ciò che gli è necessario per soddisfare i propri istinti e quindi non desidera nulla; esso è privo di desideri”. (Ferenczi, 1913, p. 219).
Anche Melanie Klein riflette su un presunto stato prenatale idilliaco e scrive: “Può darsi che il legame fisico prenatale con la madre contribuisca alla formazione di quel sentimento, innato nel bambino, che esista qualcosa fuori di lui che può appagare ogni suo bisogno e desiderio” (Klein, 1957, p. 11). Tuttavia Klein prende anche in considerazione l’ipotesi che “Mentre lo stato prenatale implica senza dubbio un sentimento di unità e sicurezza, il mantenimento di questo stato dopo la nascita dipende dalle condizioni psicologiche e fisiche della madre e forse anche da fattori finora non esplorati presenti nel bambino prima della nascita.” (Ivi, p. 11-12, corsivo mio). È possibile pensare che i ‘fattori non esplorati’ nel feto a cui Klein fa riferimento possano essere una sua specifica modalità di agire e/o reagire ai cambiamenti di ciò che lo circonda: “Che nel rapporto del neonato con il seno predominano sensazioni di frustrazione o, al contrario, di soddisfacimento, dipende indubbiamente in gran parte da circostanze esterne ma non si può certo trascurare il fattore costituzionale che incide fin dall’inizio sulla forza dell’Io” (1952a, p. 467, corsivo mio).
Wilfred Bion, soprattutto nei suoi ultimi lavori, si interroga proprio sulla possibilità che il feto abbia la capacità o meno di pensare (1974, p. 83) e sulla relazione tra feto e ambiente. Partendo dalla nota frase di Freud “Tra la vita intrauterina e la prima infanzia vi è molta più continuità di quel che non ci lasci credere l’impressionante cesura dell’atto della nascita” (1925, p. 286), Bion si chiede se non possa realmente esserci “una qualche verità […] e cioè che vi sia una comunione tra pensieri ed emozioni post-natali e la vita pre-natale” (Bion, 1974, p. 83). Tuttavia egli non ha una visione idealizzata della vita intrauterina e ipotizza dei meccanismi protomentali attraverso i quali il feto possa eliminare le esperienze dolorose. Così, infatti, scrive: “Facciamo un volo nella fantasia, in una specie di infanzia del nostro pensiero. Possiamo immaginare una situazione in cui un feto quasi a termine potrebbe essere consapevole di oscillazioni molto spiacevoli del liquido amniotico, prima di passare nel mezzo gassoso, cioè prima di nascere. Posso immaginare una situazione in qualche modo disturbata: i genitori hanno un cattivo rapporto o qualcosa del genere. Posso immaginare rumori piuttosto forti prodotti tra la madre e il padre, o anche forti rumori del sistema digerente dentro la madre. Supponiamo che questo feto sia anche consapevole delle pressioni da parte di ciò che un giorno si trasformerà in carattere o personalità, consapevole di cose quali la paura, l’odio, violente emozioni di questo tipo. Allora credo che il feto potrebbe onnipotentemente rivolgersi in maniera ostile contro questi sentimenti disturbanti, contro questi proto-sentimenti, proto-idee a uno stadio molto precoce, e scinderli, distruggerli, frammentarli e cercare di evacuarli”. [2] come esame di routine nei protocolli di controllo delle gravidanze, genitori, ginecologi e ostetriche, così come i ricercatori, hanno avuto modo di osservare, con sempre maggiore accuratezza grazie al progressivo raffinarsi della strumentazione, la crescita e il comportamento del feto. Oggi siamo in grado di ipotizzare e di osservare il precoce e progressivo sviluppo del feto e del suo sistema sensoriale, di monitorarne il battito cardiaco e le sue modificazioni a fronte di stimoli esterni e persino di conoscere il suo intero corredo genetico attraverso un prelievo del liquido amniotico.
Osservare attraverso l’ecografia i movimenti del feto e vederlo interagire con l’ambiente intrauterino e i suoi elementi e ritmi (placenta, cordone e liquido amniotico) si è rivelato estremamente affascinante. L’ecografia ci mostra come il feto modifichi i suoi modelli respiratori, movimenti e reazioni in risposta diretta alle alterazioni del suo ambiente circoscritto. Egli si mostra sensibile non solo ai macro-cambiamenti del contesto che lo circonda, ma anche ai cambiamenti più silenti delle funzioni endocrine, metaboliche e circolatorie della madre: questo ‘essere in relazione’ talvolta, come vedremo, può non essere sempre gratificante. Il bambino nel grembo non è, quindi, ‘privo di desideri’, come Ferenczi e altri ipotizzavano, ma, anzi, talvolta sperimenta ‘disaccordi’ e frustrazioni, proprio come in un ‘dialogo’ in cui a volte ci possono essere incomprensioni o tensioni.
Un elemento fondante di questo scambio è rappresentato dal sistema nervoso del feto e dal suo sviluppo, che comincia a quattro settimane dal concepimento. Nel momento stesso in cui il loro numero si moltiplica, le cellule del primo embrione devono immediatamente raggrupparsi in unità funzionali per formare le strutture principali che determineranno la sopravvivenza e lo sviluppo del feto: la placenta, il sistema circolatorio (cuore, arterie e vene), il tratto digestivo, il sistema nervoso e gli organi di senso, i reni.[4]
Queste “parole in codice” sono prodotte da una cellula che “parla” e raccolte da un’altra che “ascolta” (Nathanielsz 1994, p. 38, traduzione mia) e il numero astronomico di connessioni, date dall’enorme numero di possibili combinazioni, permette al cervello di espletare l’infinita varietà di compiti che gli compete.
Mi sembra interessante notare che durante tutti gli stadi evolutivi, ma anche prima e non solo dopo la nascita, l’ambiente può influenzare lo sviluppo del sistema nervoso di un singolo individuo. Già nell’utero infatti, la formazione delle cellule nervose e l’incremento del numero di connessioni dipende primariamente dalle informazioni che provengono dal codice genetico contenuto nelle cellule stesse, ma anche da sollecitazioni che provengono sia dall’ambiente sia dall’attività del feto. Così come i muscoli crescono se vengono esercitati, anche il cervello e le sue funzioni devono essere ‘esercitate’ e questa possibilità, nel caso del feto, è strettamente dipendente dalle condizioni ambientali all’interno dell’utero e dalle interazioni con l’organismo materno. In questo senso, l’interazione con l’ambiente è fondamentale non solo per gli scambi bio-organici, ma anche per lo sviluppo del cervello fetale e delle sue funzioni.
Un’altra manifestazione importante dell’attività fetale e del suo sviluppo in relazione all’ambiente che lo circonda sono gli ampi movimenti nel liquido amniotico che si possono osservare, in particolare nel terzo trimestre di una gravidanza, sempre grazie all’esame ecografico: il feto può flettere ed estendere le estremità e il tronco, fare pressione sulle pareti uterine, ruotare il capo, stirarsi, sbadigliare, grattarsi varie parti del corpo, succhiarsi il pollice, e, addirittura, toccare l’ago dell’amniocentesi quando viene introdotto fra la 16a e la 18a settimana. In tutti questi movimenti è facile riconoscere pattern motori che si manifesteranno dopo la nascita e che sembrano essere finalizzati a permettere un adattamento del neonato al suo nuovo ambiente (Prechtl, 1992, p. 65; Nijhuis, 1992, p. 68).
Nello specifico, nelle prime 20 settimane il feto è, di norma, totalmente circondato dal liquido amniotico nel quale galleggia, ma dalla 21a settimana la quantità del liquido comincia a non essere più sufficiente e il feto, notevolmente cresciuto, può, in diversi momenti e in diverse posizioni, entrare in contatto con le pareti uterine e di conseguenza sentirne la presenza e le eventuali contrazioni.
L’essere in contatto con i movimenti spontanei dell’utero gli procura nuove e diverse percezioni attraverso le quali egli “esplora il mondo uterino che lo contiene e, seppur indirettamente, sperimenta le modificazioni di volume e di forma, spaziali e temporali cui il contenitore va incontro nel corso della gestazione.” (Mancia, 1994, p. 39, corsivo mio). Il controllo motorio è notevolmente sofisticato ben prima della nascita e si è visto, per esempio, che feti gemellari già alla 14a fanno dei movimenti verso di sé e verso il gemello, mentre tra la 14a e la 18a settimana i movimenti aumentano verso il gemello.
Lo spazio, la percezione del proprio peso in rapporto agli appoggi, l’orientamento del corpo rispetto agli altri ‘oggetti’ presenti, la possibilità di muoversi con maggiore o minore difficoltà, i punti di contatto e pressione, la cedevolezza o meno delle pareti… sono tutti elementi destinati a subire profondi cambiamenti nel corso di una gravidanza e da una gravidanza all’altra e a essere fonte di diverse esperienze sensoriali. In alcune condizioni, queste specificità possono diventare determinanti nella storia di una gestazione e lasciare una impronta (utilizzando le parole di Bion) come “tracce mnemoniche” (1976, p. 227).
Kathy e Suzanne avevano avuto il difficile compito che spetta ai gemelli di trovare un proprio spazio nel rapporto tra di loro e con i propri genitori. L’esperienza prenatale di una delle due (Suzanne) era stata segnata da un reale timore per la sua vita e dalla frustrazione della madre di non riuscire a darle uno spazio adeguato per la crescita. Dopo la nascita, un’angoscia di sopravvivenza sembrava esprimersi nella disperazione del suo pianto e la voracità e irrequietezza che la caratterizzavano sembravano segni della denutrizione vissuta nell’insoddisfacente vita intrauterina.
Alcuni anni dopo la conclusione dell’osservazione durata due anni, tornai a trovarle. Dopo aver familiarizzato un po’ con loro, mi portarono in giardino dove c’era una casetta costruita dal padre. Entrammo e mi accorsi che era piena di gabbie di criceti sistemate su vari scaffali. Le due bambine cominciarono, allora, un appassionato racconto a due voci in cui mi misero al corrente di come inizialmente avessero solo due criceti in una gabbia, ma si erano presto accorte che le bestiole non potevano stare così a contatto perché potevano farsi del male “e persino uccidersi!” (Suzanne). Prima di riuscire a dividerli, i criceti, però, si erano riprodotti e la nuova generazione aveva proposto lo stesso problema: non solo, ma alcuni piccoli erano realmente stati uccisi dai loro compagni di gabbia (Kathy). Il racconto durò a lungo ed era appassionato e ricco di dettagli. A un certo punto entrambe mi spiegarono con grande partecipazione che gli animali dovevano essere divisi al più presto e Suzanne intervenne indicandomi quali erano i superstiti.
(Quagliata, 1993, osservazione di due gemelle omozigoti)
Oltre agli aspetti legati al movimento e alle percezioni dipendenti dal tatto/contatto, diversi studi hanno evidenziato come il cervello fetale risponda al suono già alla 2a/3a settimana della gravidanza e come questa risposta al suono, sia interno al corpo materno (come, per esempio, quello prodotto dai suoi movimenti intestinali) sia esterno, maturi considerevolmente durante le ultime quattro settimane di gravidanza. In seguito alle ricerche, durate oltre cinquant’anni, sulla percezione sonora durante la vita intrauterina, Tomatis sostiene che la voce materna agisca non solamente come una sorta di sostanza nutritiva emotiva, ma che prepari il bambino all’acquisizione del linguaggio dopo la nascita: così come i pattern motori prenatali sembrano partecipare a uno sviluppo che proseguirà dopo (e malgrado) la nascita, allo stesso modo il bambino comincia ad ascoltare già nell’utero, in funzione, come detto, dell’acquisizione del linguaggio stesso.
La voce, in particolare nelle sue componenti sonore, rappresenta un canale privilegiato non solo per la comunicazione di significati (aspetto denotativo), ma soprattutto per la capacità di includere il contenuto affettivo delle comunicazioni (Tomatis, 1996, 1981). Il timbro, l’andamento prosodico, la qualità dei suoni nelle parole ricorrenti (per esempio, il nome scelto per il bambino) sono verosimilmente elementi che lasciano una traccia nella corteccia uditiva in fieri del feto e che, così come la dimensione del tatto/contatto, sono associati a specifiche esperienze sensoriali. Sono ancora questi gli elementi che serviranno da “gancio” per il successivo apprendimento del linguaggio da parte del bambino (Trevarthen e Malloch, 2009, p. 468).
Se volevo essere sicura che la mia bambina fosse sufficientemente sveglia e attiva affinché il tracciato del monitoraggio[6] Quando ciò accade, il feto smette di compiere i movimenti respiratori nel tentativo di ‘risparmiare’ ossigeno e, contemporaneamente, il sistema sanguigno fetale ridistribuisce il sangue in modo tale che il cervello, in fase di sviluppo, sia protetto. Allo stesso modo, seppur con modalità meno evidenti, il feto monitorizza e reagisce alla quantità di glucosio che passa attraverso la placenta ed è, quindi, sensibile ai modelli e agli stili di alimentazione materni. È anche in grado di registrare i cambiamenti di temperatura del corpo della madre (per esempio in conseguenza di un bagno caldo) o il suo affaticamento dovuto a un eccesso di sforzo fisico e di reagire a questi cambiamenti aumentando o diminuendo i suoi livelli di attività e i ritmi delle sue funzioni biologiche.
Ho voluto nominare alcuni dei sorprendenti meccanismi di adattamento per mettere in luce come il feto sia attivamente sensibile e responsivo ai cambiamenti che possono avvenire nel suo ambiente.
La placenta, in particolare nella sua doppia funzione di portare nutrimento e di filtrare ed eliminare gli scarti del bambino, acquista anche un interessante significato simbolico per la madre in attesa. A proposito di queste fantasie materne, Raphael-Leff (1993) sostiene che vi sia una specie di fluttuazione nella percezione di sé in rapporto al feto da parte delle madri che, concentrandosi su un solo aspetto del processo di scambio mediato, appunto, dalla placenta, possono viversi, di volta in volta, come un contenitore passivo, una sorgente generosa, un pericoloso avvelenatore o un ospite indisturbato. In modo speculare, il feto può essere immaginato e percepito a sua volta come un innocente ospite, un parassita che prosciuga le energie e le risorse materne, una minaccia, un nemico interno, un prigioniero, un essere vulnerabile o in pericolo. Interessante il significato attribuito alla placenta, come espressione di ‘intersoggettività’: il sé della madre e l’altro, l’embrione, riescono a negoziare lo spazio del corpo materno e dell’altro. La loro. (Hirigaray, 1993 in Mc Carthy, 2012).
La signora A., all’ottavo mese di gravidanza, non riesce a dormire a causa dei suoi sogni angoscianti e non vede l’ora di partorire. Sembra vivere in costante ansia, soprattutto rispetto ai risultati degli esami del sangue.
Malgrado abbia grande fiducia nella sua ginecologa, tanto da volerle ‘fare un monumento’, non riesce a seguire le sue indicazioni rispetto alla dieta e al riposo e non sembra riuscire nemmeno a mettere bene a fuoco i rischi a cui la espongono il suo essere sovrappeso e la sua pressione costantemente troppo alta.
I suoi sogni, il cui contenuto angosciante non è mai realmente avvicinabile, sembrano concentrarsi sulla nascita del bambino e sul desiderio che questa avvenga il più presto possibile probabilmente a causa della paura, più volte manifestata già dalle prime sedute, che le sue fantasie e le angosce possano avere un effetto negativo sul feto.
Penso che, inconsciamente, la signora A. possa temere che il nutrimento che lei riesce a dare al bambino nel suo utero non sia sufficientemente buono, che non abbia una sufficiente forza vitale per sostenere il piccolo e la sua crescita: mi domando quanto la paura che il nutrimento possa essere contaminato dalle sue ansie e dalla sua stessa ambivalenza sia alla base della sua ansia rispetto ai risultati del sangue che, in qualche modo, se sono nella norma la rassicurano, seppur temporaneamente, rispetto alla qualità di ciò che lei fornisce al bambino.
(Quagliata, 2008)
Tornando a ciò che viene scambiato nell’interazione, l’equilibrio biochimico del corpo materno e, quindi, anche di ciò che entra a far parte dello scambio con il feto, dipende non solo dal suo funzionamento basale, dai suoi comportamenti e stili di vita o dalle condizioni ambientali in cui si trova ma anche, come scrive Piontelli, da un qualche fattore biochimico che possa essere implicato nelle emozioni materne.[8]
A questo proposito, Piontelli racconta di come il crollo psicologico della madre di Marco e Delia durante la sua gravidanza gemellare non sembrasse aver avuto effetti radicali sul comportamento dei bambini prima (attraverso le osservazioni delle ecografie) e dopo la nascita (ibidem). Mentre, nel caso di Gianni, un’angoscia pregressa e costante della madre in attesa, che si aggiungeva a quella causata da un’anomala inserzione placentare, sembrava, secondo l’Autrice, aver avuto un’influenza importante sulle condizioni di sviluppo del feto: “Gianni sembra particolarmente immobile, e come nota l’ostetrica, ‘doppiamente avvolto’, ‘tutto arrotolato’, e protetto dalla parete (uterina) come una ‘seconda pelle’ […] lo si vede anche aggrappato al cordone ombelicale come a una corda… la sua immobilità […] sembra nascere dalla tensione, se non dal terrore.” (1992, p. 74). Gianni, osservato a un anno di età, sembra un bambino indietro nello sviluppo, con caratteristiche di rigidità nel carattere che sembrano servire per mascherare una particolare vulnerabilità “che ricorda in qualche modo la sua ricerca di essere doppiamente avvolto dentro all’utero materno.” (Ivi, p. 82).
In questo e in altri studi ecografici, Piontelli mette in luce connessioni tra l’angoscia materna, le minacce di aborto, l’assunzione di farmaci anti-abortivi o altri disturbi dell’utero e la mobilità o improvvisa immobilità del feto (Ivi, p. 93).
In effetti, l’utero, secondo elemento fondamentale dell’ambiente prenatale, è un organo che, proprio in funzione del suo ruolo di contenitore indispensabile per il feto, diviene facilmente ricettacolo per le fantasie della donna, i desideri, le paure e le speranze. Esso viene spesso vissuto come la testimonianza della propria capacità o meno di accogliere e contenere una nuova vita. In particolare, le donne che hanno problemi di infertilità o hanno sperimentato uno o più aborti sentono a volte che l’incapacità di fornire un terreno fertile per una gravidanza o l’incapacità di portarla a termine hanno a che fare con l’incapacità di tenere e contenere in maniera adeguata il bambino desiderato nella propria mente. Così come l’utero contiene il feto, la mente contiene il pensiero e il desiderio di lui. Un fallimento della gravidanza reale, o del suo inizio, viene spesso vissuto come un fallimento di entrambi, generando spesso dolorosi sentimenti di colpa (E. Quagliata, Becoming Parents and Overcoming Obstacles, Karnac, London 2013).
Il cordone ombelicale rappresenta la terza presenza costante affianco al feto durante tutto il tempo della gestazione. Elemento inizialmente ignorato, con il passare del tempo e con il progressivo sviluppo degli arti, aumento delle dimensioni e delle capacità motorie del piccolo, diventa oggetto di diverse attività ed esplorazioni. Le immagini ecografiche mostrano come il feto possa aggrapparsi al cordone o muoverlo e spostarlo, quasi a ‘giocare’ con esso.
Soprattutto nel momento del parto, il rapporto con il cordone ombelicale può variare da piacevole sostegno a pericoloso oggetto di soffocamento. Infatti, non è raro che un ostacolo a una nascita con parto naturale sia proprio l’attorcigliamento del cordone ombelicale attorno al collo del piccolo che, come un cappio, gli impedisce di scivolare lungo il canale vaginale assecondando le spinte della madre e le contrazioni dell’utero.
Osservando la varietà, specificità, e, talvolta, problematicità di queste esperienze prenatali, sembra naturale pensare che queste esperienze possano avere un profondo effetto emozionale sul bambino, soprattutto se gli eventi che hanno caratterizzato una specifica gravidanza sono rinforzati da particolari esperienze postnatali.
Walter ha sette anni e mi viene descritto dai genitori come un bambino che “non ha mai dormito”. La notte sembra veramente angosciato: con le mani tra i capelli, suda e si colpisce la testa con pugni. Questo è il principale motivo della richiesta di aiuto.
La gravidanza, per quanto ‘tranquilla’, è caratterizzata da un cambiamento di casa poco voluto. Il parto, al contrario, è un momento carico d’angoscia a causa dell’emergenza e del rischio causati dal cordone che si attorciglia intorno al collo del piccolo. Fin dalla nascita, Walter mostra grandi difficoltà a dormire e sembra subire tanti cambiamenti e separazioni (baby-sitter, asili…) senza manifestare disagio o protestare.
Quando incontro Walter rimango colpita dal suo sguardo intenso e dai suoi grandi occhi neri. È un bambino molto magro e curioso. Nei suoi primi giochi compare spesso ‘una pancia’ (di animali, pupazzi, di uno zombie…) che viene colpita: Walter lancia alcuni piccoli oggetti della sua scatola di giochi in direzione della mia pancia, ma io non penso alla gelosia per la nascita del fratellino (di cui i genitori mi avevano parlato), quanto a qualcosa di più primitivo che il suo sguardo così angosciato mi trasmette. Gli parlo, allora, della pancia come luogo molto interessante, pieno di cose, un luogo dove nascono i bambini e da dove alcuni hanno voglia di uscire, mentre altri, invece, provano grandi paure. Walter si blocca, mi guarda con i suoi occhi profondi e mi dice: “Io ho avuto molta paura! …ma non so dire perché”.
Successivamente, quando il sintomo dell’insonnia sembra essere già parzialmente scomparso, Walter porta in seduta Spider-man: nella sua descrizione appassionata, Spider-man, con le sue ventose, può arrivare dove vuole. Contemporaneamente protende il braccio e, portando avanti la mano aperta, si allunga fino quasi a toccarmi.
In un successivo incontro con i genitori, la madre, parlando della sua depressione post-partum, ricorderà un’immagine: Walter, a due o tre mesi, dal fondo del letto si trascina verso di lei, sdraiata vicino alla spalliera lungo i cuscini, e allunga il braccino, “con la manina mi prende il seno, si attacca come una ventosa e da lì non si muove”.
Sono molto colpita dall’immagine di questo neonato, lasciato solo in fondo al letto, ma anche dalla sua forza vitale che lo spinge a ricercare quel posto tra le braccia della mamma.
(Materiale clinico personale)
Ciò che vorrei evidenziare è che i ‘primi dialoghi’ del feto con il suo ‘altro’, possono passare dall’essere stimoli per lo sviluppo, gratificanti e piacevoli sensazioni, fino all’opposto, acquisendo, talvolta, il carattere di eventi dolorosi e decisamente spaventosi.
Nello scorrere di questa varietà di situazioni, con Bion e Mancia, possiamo pensare che il feto, sulla base delle sue ‘sensazioni’, sia realmente in grado di fare un’esperienza affettiva di piacere o di dolore all’interno della sua relazione con il suo ‘mondo oggettuale’ (object world), il contenitore materno nel quale si sviluppa (Mancia, 1981, p. 352). Tutti quei movimenti, comportamenti, atteggiamenti, risposte motorie, abitudini, smorfie ed espressioni facciali, che le ecografie ci hanno permesso di esplorare, sembrano rappresentare esperienze e manifestazioni declinate sull’asse piacere/dispiacere di cui troviamo tracce anche dopo la nascita. Da questa prospettiva, allora, possiamo ipotizzare che queste esperienze contribuiscano a organizzare la qualità delle esperienze affettive più primitive al loro nascere.
L’ipotesi di Osterweil (2002) è che il feto può sperimentare un’esperienza come buona quando è piacevole e come cattiva quando è spiacevole e che, quindi, “possiamo dedurre che il feto ritiene, in un certo senso, responsabili i suoi oggetti del tipo di esperienza che sta vivendo ” (p. 246). Questa ipotesi la porta a suggerire che l’esperienza post-natale al seno possa essere profondamente radicata nella precedente relazione fetale con gli oggetti intrauterini, come la placenta e il cordone ombelicale. Così l’idea di Bion che il neonato abbia una “pre-concezione” (1962, p. 91) del seno, presegue Osterweil, “può anche essere interpretata come conseguente al contatto e stimolazione dell’area periorale durante la vita fetale e al suo attivo succhiare la placenta, il pollice e il cordone ombelicale, dal momento che dopo la nascita il cordone ombelicale e la placenta sono sostituiti dal capezzolo” (Osterweil, 2002, p. 245).
Durante un seminario con le educatrici di un asilo nido, si parla di una bambina di circa 8 mesi che non riusciva a dormire. L’educatrice racconta di avere provato in ogni modo con canzoncine e cullamenti fino a quando, mettendola su un fianco e accarezzandola in un certo punto, la bimba si è addormentata. Nel raccontare, poi, con la naturalezza di una comunicazione di routine, il tutto alla madre si è molto sorpresa nel vederla commuoversi. La madre le ha poi riferito che la sua era stata una gravidanza gemellare e che le due bambine erano a contatto nell’utero proprio da quel lato e in quel punto prima che una delle due sorelline morisse due settimane prima del parto.
(Comunicazione personale della collega che teneva il seminario)
Sembra, in questo caso, piuttosto naturale ipotizzare che la piccola stia richiamando alla memoria, attraverso la stimolazione sensoriale delle carezze, quell’esperienza fisica prenatale di una presenza/contatto rassicurante, così come era rassicurante la voce del papà di Giacomo durante la visita della pediatra proprio alla luce del suo averla già ‘sentita’ in precedenza. Possiamo anche pensare che Walter, nonostante le sue difficoltà, prima e dopo la nascita, persista con determinazione nella sua ricerca di un contatto con la ‘fonte evocatrice’, proprio grazie alla possibilità di recuperare, seppure a un livello arcaico e mediato sensorialmente, il piacere e l’emozione sperimentati nella proto-relazione sviluppatasi nell’utero. Tutte queste tracce ci riportano all’idea di poter davvero parlare di esperienze affettive vissute e ricordate così precocemente, seppure esclusivamente attraverso i sensi.
Alle origini del dialogo
Secondo Gaddini (1982) la memoria è un punto chiave del passaggio dal funzionamento fisiologico a quello mentale e, in termini di sviluppo, fornisce l’indicazione del tempo presumibile in cui, nella vita intrauterina, tale passaggio può avere inizio. “Dal punto di vista ontogenetico”, scrive Gaddini, “è forse più corretto dire che corpo e mente sono l’organismo, il cui apprendimento fisiologico viene a un certo punto, attraverso la differenziazione della funzione mentale, giunge a essere appreso da se stesso, e in questo modo a essere gradualmente organizzato in un ‘Sé’ mentale, e a farsi un’immagine mentale del Sé corporeo” (p. 97, virgolette e corsivo dell’Autore).
Parlando di memoria, Mancia ne distingue una “esplicita”, che permette la ricostruzione della propria storia, e una “implicita” che riguarda, invece, esperienze non coscienti, non verbalizzabili, non ricordabili. Uno dei tre ambiti della memoria implicita è la memoria emotiva e affettiva, che comprende anche la memoria per le emozioni vissute in rapporto a determinate esperienze affettive che caratterizzano le prime relazioni del bambino con l’ambiente in cui nasce. “Forse questo tipo di memoria – scrive Mancia – riguarda anche gli ultimi periodi della vita gestazionale in cui il feto vive una stretta relazione con la madre, con i suoi ritmi (cardiaco e respiratorio) e, in particolare, con la sua voce, che vengono a costituire un modello di costanza, ritmicità e musicalità intorno al quale si organizzano le prime rappresentazioni del bambino alla nascita” (Mancia, 2007, p. 100).
Grazie alla componente affettiva della memoria, rimangono quindi profonde tracce dell’esperienza prenatale anche dopo la nascita, in particolare nelle sue forme primitive di trascrizione corporea.
Antonio, bambino di 10 anni dall’infanzia passata in un poverissimo e inadeguato orfanotrofio estero, sta giocando con le costruzioni. Ha costruito un’isola con al centro un grosso vulcano che ne occupa tutto lo spazio. Su quest’isola quattro poveri omini stanno cercando di salvarsi da un luogo che diventa progressivamente più caldo e invivibile. “L’unica possibilità”, sostiene Antonio con serietà, “è entrare nella camera magmatica e da lì infilarsi nello stretto tunnel che dal fondo conduce da un’altra parte. Il problema è che la camera magmatica è piena di lava e il tunnel diventa sempre più stretto ed è difficile passarci… Fa molto male!”. Alla terapeuta tornano immediatamente in mente le ipotesi della neuropsichiatra a proposito di una gravidanza caratterizzata da trascuratezza e, in particolare, da un abuso di alcol.
(Comunicazione personale della terapeuta di Antonio)
La piccola Marta fra l’anno e mezzo e i due anni aveva la strana abitudine di prendere dai cassetti o dalla biancheria piegata un paio di mutandine sue o della sorella e di infilarsele in testa come un cappuccio per poi andarsene in giro per casa tutta orgogliosa. Solo in seguito mi sono ricordata di come, durante il parto, la piccola abbia dovuto spingere con la testa contro il sacco amniotico che non si era rotto e che, come disse l’ostetrica, le aveva coperto la testina come una cuffietta. Forse continuava a mostrare il suo orgoglio per essere riuscita a nascere!
(Comunicazione personale della mamma di Marta)
Queste immagini volevano suscitare delle riflessioni su quanto il meccanismo attraverso il quale si costruisce il dialogo tra genitore e figlio dopo la nascita abbia radici nella vita prenatale.
A proposito del primo legame, Bion (1962) utilizza un’efficace metafora che traccia un parallelo fra il meccanismo di regolazione dell’attività mentale, cioè il processo di ‘introiezione’ e ‘proiezione’, e quello che regola l’apparato digerente (assimilazione ed evacuazione del cibo). Attraverso l’introiezione e l’identificazione con chi si prende cura di lui, un bambino inizia già nei primi mesi di vita a formare la struttura interna incaricata di “digestione mentale” (ibidem, p. 71-72). Come ho già scritto altrove (Quagliata, 2002), la risposta di una madre, o di chi si prende cura del piccolo, alla sua angoscia e sofferenza è, innanzi tutto, quella di riconoscerla e, successivamente, di fare tutto ciò che è necessario per alleviarla. Il bambino ha la percezione di aver proiettato qualcosa di intollerabile nel suo ‘oggetto’ ma, al tempo stesso, che l’oggetto è stato in grado di contenerla ed elaborarla; può quindi reintroiettare non la sua ansia originale, ma un’ansia modificata e resa più ‘digeribile’ dall’essere stata compresa e contenuta. Introietta così anche la funzione materna del ‘sapere come’ comprendere la propria esperienza e, alla fine, si può identificare con l’oggetto stesso capace di pensare, comprendere e tollerare: un oggetto ‘contenente’.
Bion sviluppa il modello del “contenitore-contenuto” (1962), a partire da una forma particolarmente intensa di proiezione teorizzata da Klein e da lei denominata “identificazione proiettiva”, una “fantasia onnipotente” con la quale il bambino proietta sentimenti e angosce non tollerabili nella madre (Klein, 1946).Alla concezione originale, Bion aggiunge che questo processo non è solo una fantasia onnipotente, ma rappresenta una forma primitiva di comunicazione che costituisce il precursore del pensare. Attraverso l’identificazione proiettiva il soggetto, per esempio il neonato, induce inconsciamente nell’altro con cui interagisce, la mamma, quegli stati emotivi da lui stesso espulsi/evacuati, la sua angoscia. Come scrive Britton, “In questo modo, ciò che nel neonato è semi-sensoriale e somatico viene trasformato dalla madre in qualcosa di più mentale che può essere usato per pensare o essere conservato come memoria” (Britton, 2003, p. 89).
La qualità “affettiva” del legame che si viene così a creare si può declinare sostanzialmente lungo tre direttive che Bion definisce come legame di amore (L), di odio (H) e di conoscenza (K) e il negativo di questi legami (-L, -H, -K) considerati come forze che si contrappongono all’esperienza emotiva. Sebbene possano sembrare troppo semplificanti, questi segni sono per Bion una “chiave” (1962, p. 86) della relazione all’interno della quale possono essere declinate molte altre emozioni. Per esempio, il legame di amore comprende i sentimenti che ruotano intorno al piacere e alla fiducia, oppure il legame di odio comprende avidità, invidia e altri sentimenti similari (Symington, 1996, p. 28).[10] “Penso sia più semplice considerare la curiosità al pari dell’amore e dell’odio e considerare lo sviluppo epistemofilico come qualcosa che viene complicato da, e immerso con, l’amore e l’odio ma non derivato da essi” (2003, p. 90). Il desiderio di conoscere, secondo Britton, “è un istinto primario indipendente” (Britton, 1998, p. 11) e anche “la spinta a conoscere” è “un innato istinto dell’io” (Britton, 2003, p. 90).
Ma il desiderio di conoscere è anche in “stretta connessione con l’apprendere dall’esperienza” (Bion, 1962, p. 89) ed è quindi alla base della capacità di un bambino di imparare a dare significati a ciò che accade nelle sue relazioni con l’altro.
Siamo spinti, quindi, sin dalla nascita a entrare in rapporto con l’altro (Klein, 1952a, b, c) o, per dirla in un altro modo, a una motivazione di attaccamento intersoggetiva (Trevarthen, 2009, p. 210).
L’idea di una relazione con l’altro è stata confermata dall’Infant Observation (Bick, 1964; Miller, 1989; Magagna, 2006) e dagli studi più recenti dell’Infant Research (Stern, 1985, 1995; Trevarthen, 1997, Trevarthen e Mallock, 2009; Music, 2011). Questi lavori hanno avvalorato l’ipotesi secondo la quale il neonato possiede una ‘innata intersoggettività’ (Panksepp e Trevarthen, 2009, p. 211) e sostengono che la distinzione tra sé e l’altro sia presente, in una qualche forma, già alla nascita. Hanno dimostrato come il neonato abbia una consapevolezza non solo della presenza della figura materna, ma anche dei suoi stati affettivi: si sono anche soffermati a descrivere come l’oggetto (l’altro che si prende cura di lui) sia atteso, cercato e usato (Stern, 1995) e, più specificatamente, come “noi siamo nati per suscitare interesse e risposte affettive da altre persone” (Trevarthen, 2009, p. 211). Al tempo stesso è altrettanto importante la capacità dell’oggetto di intrattenere e dare piacere (Alvarez, 1992, 2014). Il bambino, secondo Alvarez, ha infatti bisogno di conforto, ma anche di un oggetto accessibile e raggiungibile, impressionabile, interessato, contento di essere intrattenuto (Ibidem, p. 247). I momenti di vigilanza e attività che tipicamente seguono una nascita offrono secondo Trevarthen “le migliori opportunità per osservare le capacità innate di rispondere nel contesto di un dialogo affettuoso con un’altra persona.” (Trevarthen, 1997, p. 118).
Anche la ricerca sullo sviluppo neurobiologico si muove ormai da tempo verso l’idea di un individuo che, fin dalla nascita, è guidato da una predisposizione naturale fondata sul bisogno di relazione, cioè sul desiderio innato di rapporto con l’altro, indipendentemente della semplice ricerca della sopravvivenza biologica.
Proprio in questo campo, la scoperta dei ‘neuroni-specchio’,[12] Questi sistemi, a livello psicologico, riflettono le nostre capacità affettive di base: la capacità di coinvolgerci nel mondo con interesse, di arrabbiarci se la nostra libertà di azione viene limitata, di avere paura se le nostre azioni portano a farci del male, di provare un desiderio sessuale, di gioire nel coinvolgimento sociale e di sentire il dolore quando perdiamo le cose a cui diamo valore, specialmente le persone che amiamo. E tutti questi sentimenti, o l’ombra di essi, possono essere evocati dalla musica. (Panksepp e Trevarthen, 2009, p. 113).
Questi sistemi sono considerati, per l’appunto, “sistemi emotivi” perché il loro attivarsi determina simultaneamente manifestazioni psicologiche, emotive-affettive, fisiologiche e comportamentali. I sistemi neuro-emotivi coinvolgono, quindi, necessariamente il sistema psichico (emotivo-cognitivo), il sistema nervoso (neuro-circuiti cerebrali), il sistema endocrino (neurotrasmettitori e ormoni) e il sistema immunitario[14], in questo senso Alvarez sostiene che la descrizione del sistema di ricerca corrisponda un po’ al concetto di K di Bion (Alvarez 2012, p 261).
Sappiamo oggi dalla ricerca sullo sviluppo del cervello che quando la madre sorride, il sistema nervoso del bambino viene stimolato in modo piacevole e il suo battito cardiaco aumenta (Gerhardt, 2004). Questi processi scatenano una reazione biochimica che coinvolge endorfina e dopamina che aiutano i neuroni a crescere e producono uno stato di benessere (Shore, 1994). Sappiamo anche che, al contrario, esperienze di rifiuto, trascuratezza e abbandono producono un ottundimento delle emozioni e del pensiero e il blocco della maturazione cerebrale accompagnati da ritardo emotivo e cognitivo (Music, 2009, Perry 2002, Strathearn et al., 2001).
I geni sono importanti, scrive Music, ma l’esperienza accende o spegne i potenziali genetici (Music, 2011, p. 3). All’origine del dialogo tra genitori e figlio troviamo complesse interconnessioni tra i geni, neuroni, recettori, neurotrasmettitori, che attraverso reti e circuiti si attivano in misura diversa a seconda dell’ esperienza di noi stessi in relazione con l’ambiente e gli oggetti dando origine a quella rappresentazione mentale degli istinti chiamata ‘fantasia inconscia’ (Isaacs, 1948); questo complesso intreccio ipotizziamo affondi le sue radici nell’esperienza prenatale.
Conclusioni
La mia ipotesi è che sia possibile ricondurre i ‘circuiti affettivi’ descritti da Panksepp ai tre fondamentali legami di L, H e K di cui parla Bion e che potremmo allora chiamarli ‘legami neuro-affettivi’. In fin dei conti, questa spinta della coppia genitori/bambino a incontrarsi ed entrare in relazione sembra essere determinata da un comune desiderio di conoscenza, inteso nel senso lato del termine, dove conoscenza emotiva e relazione sembrano essere due termini dello stesso atto. L’esperienza della relazione tra feto e contenitore materno, con i suoi successi, fallimenti, gratificazioni e frustrazioni, e la necessità di confrontarsi con essi, sembra al tempo stesso nutrirsi e nutrire il funzionamento neurochimico e biologico che ne è alla base.
Questo percorso attraverso le recenti scoperte neurobiologiche, le ricerche pre- e neonatali, l’osservazione del neonato e le riflessioni psicoanalitiche, seppur provenienti da aree di ricerca solo parzialmente sovrapponibili, converge verso la descrizione di un neonato predisposto a ricercare e formare un legame sia nel piacere sia nel dispiacere e di una madre e padre potenzialmente predisposti ad accettare, sostenere e ricercare a loro volta il legame stesso in prosecuzione di uno scambio cominciato e progressivamente incrementato e arricchito già in epoca prenatale.
Ma, così come ogni genitore è portatore di una sua specificità nella modalità, qualità e intensità con cui si coinvolge in questa relazione, anche i bambini appena nati variano nel modo in cui si affacciano al mondo e l’effetto della madre su alcuni neonati (come Walter) e non su altri, può essere paragonato a quella di un “magnete che attrae a sé la limatura del ferro” (Cassel & Sander 1975, p. 77).
Bion si interroga in diverse occasioni sulla continuità della personalità pre e postnatale (per es. 1979, p. 117) e, suggerisce Meltzer, “l’ipotesi di Bion, secondo cui alcune parti infantili possono venire ‘lasciate indietro’ al momento della nascita, come dimenticate nel grembo, è confermata dall’esperienza con quei pazienti la cui vita prenatale è stata complicata da fattori traumatici, quali una malattia della madre, l’infarto della placenta, la nascita prematura o la sofferenza fetale, per citarne alcuni” (Meltzer, 1992, p. 60).[16].
Penso allora che un intenso scambio affettivo, principalmente mediato dal corpo e dalla sensorialità, sia legato al desiderio di conoscere e lasciarsi conoscere attraverso le emotzioni (K) e rappresenti la spinta originale che nutre la relazione fra la madre e il suo bambino fin dalla vita prenatale. Essa sembra descrivere una forza alla base di tutta l’attività emotivo/mentale di un individuo, una forza che nasce dal desiderio di conoscere emotivamente l’altro, dalla possibilità di andare oltre l’esperienza dolorosa e mantenere viva la curiosità, al di là delle frustrazioni, dei dolori, delle possibili delusioni. E anche in seguito, fra adulti, quella spinta verso l’altro, mossa dal desiderio di conoscere, continuerà a rappresentare la matrice fertile per ogni relazione significativa. Una forza che sembra affondare le sue radici nella possibilità di recuperare la memoria di un’emozione sperimentata quando ancora non era possibile nominarla.
‘C’è un posto al mondo dove il cuore batte forte, e rimani senza fiato per quanta emozione provi; dove il tempo si ferma e non hai più l’età; quel posto è tra le tue braccia in cui non invecchia il cuore mentre la mente non smette mai di sognare.’ (Alda Merini)
Emanuela Quagliata 2014
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Pubblicato nel volume “La Psicoanalisi per i genitori, i figli e la famiglia” nella Collana di libri di Psicoanalisi per Genitori 101 Bambino. Astrolabio, 2015.
[2]L’ecografo venne sviluppato negli anni ’60 a partire da strumenti bellici utilizzati durante la Seconda guerra mondiale per l’intercettazione dei sottomarini.
[4] Le cellule nervose producono diverse sostanze chimiche specifiche, con la funzione di passare informazioni ad altre cellule garantendone l’attivazione. Queste sostanze sono genericamente chiamate ‘neurotrasmettitori’.
[6]Per esempio, una temporanea ipossia può essere causata da una mancanza di glucosio oppure dalle periodiche contrazioni che, fisiologicamente, possono presentarsi durante la gravidanza. Infatti, che una donna le percepisca o meno, ci sono tra i 3 e 15 minuti di moderate contrazioni nel corso di una gravidanza. Le contrazioni dell’utero comportano automaticamente un abbassamento del contenuto di ossigeno nel sangue fetale.
[8] “[…] è probabile che solo emozioni molto forti e di lunga durata influenzino il feto” (Piontelli, 1992, p. 241).
[10] Da Melanie Klein chiamato “istinto epistemofilico” e da Freud Wisstrieb.
[12] Sistemi (il cui nome l’Autore scrive sempre in caratteri tutti maiuscoli) che hanno vari trasmettitori (ovvero sostanze chimiche che trasmettono ‘informazioni’ e inducono stati mentali), tra i quali: la dopamina (coinvolge gli animali nella ricerca dell’ambiente circostante); il testosterone (che può promuovere la rabbia) e la serotonina (che può diminuire la rabbia); il cortisolo (ormoni coinvolto nelle risposte da stress); l’ossitocina (svolge un ruolo cruciale nell’attivare le cure materne); l’endorfina (oppioidi che producono uno stato di conforto e benessere) (da Panksepp & Biven, 2012).
[14] Questo sistema è alimentato dalla dopamina, neurotrasmettitore che facilita l’assorbimento del glucosio, aiutando la crescita di nuovo tessuto prefrontale e che infonde una sensazione di benessere (Biven & Panksepp, 2012). Risultati di benessere simili si ottengono attraverso la somministrazione di sostanze chiamate ‘psicostimolanti’ proprio perché aumentano il rilascio della dopamina nel cervello.
[16] Questa spinta all’incontro e al desiderio di conoscere l’altro è stata chiamata, quindi, in molti modi: “vitalità ritmica” da Trevarthen, “sistema di ricerca” da Panksepp, “forma di vitalità” da Stern, “un cuore che pensa” da Alvarez, “legame K” da Bion, paragonata da Solms (2002) all’ “istinto di vita”.