Incontro con Allan Schore, Roma, 20 e 21 Ottobre 2012
Società Psicoanalitica Italiana
Centro di Psicoanalisi Romano, Centro Psicoanalitico di Roma, Istituto G. Bollea di Neuropsichiatria Infantile.
Gli innumerevoli aspetti interattivi che percorrono il trattamento analitico hanno cominciato a essere oggetto di attenzione con l’affermarsi del modello relazionale. Nel modello classico l’interazione veniva o ignorata, o minimizzata o eventualmente combattuta in quanto la dimensione dell’azione (inter-azione) era considerata deviazione dalla regola posta alla base del setting analitico; nel quale, come diceva Freud, “non si scambia nient’altro che parole”. Se il paziente ‘agiva’ significava che stava opponendo una resistenza all’analisi; se era l’analista ad ‘agire’ significava che o soccombeva al suo controtransfert o cercava di influenzare, anziché di analizzare, il suo paziente. In questo contesto il termine di enactment, da sempre in uso nel vocabolario psicoanalitico, aveva un significato generico: equivaleva in senso lato a ‘attualizzazione’, o ‘messa in atto’, di una fantasia inconscia.
Il termine di enactment è diventato più specifico con la crescente attenzione dedicata alla dinamica transfert-controtransfert e all’interazione (… basti pensare al concetto di ‘role responsiveness’ di J.Sandler e alle versioni sempre più inter-personalizzate del concetto di identificazione proiettiva).
Con il tramonto dell’analista-‘schermo opaco’ e l’affermarsi dell’analista-partecipante attivo della vicenda analitica anche il significato degli episodi di ‘messa in atto’ è cambiato: non più un fatto riguardante il solo paziente ma un’evenienza da capire, e da elaborare, prendendo in esame il comportamento di entrambi i membri della coppia analitica. E’ andato così stabilizzandosi nel vocabolario psicoanalitico un nuovo concetto, che ha poi vissuto di vita autonoma – il concetto di enactment: la punta dell’iceberg della dimensione di interazione che attraversa la situazione analitica.
Come per molti altri concetti psicoanalitici, anche per l’enactment non c’è unanimità nel modo di definirlo: c’è chi ne mette in evidenza l’eccezionalità, la dinamica inconscia e regressiva e chi la dimensione normalmente interattiva della relazione analitica; per alcuni designa episodi specifici, non particolarmente frequenti, che possono verificarsi durante il trattamento analitico, mentre per altri si tratta di evenienze ordinarie che percorrono continuamente la relazione paziente-analista. Per gli analisti più classici segnala una collusione di transfert-controtransfert, e dunque una smagliatura nella relazione analitica che solo se viene adeguatamente elaborata può essere superata e eventualmente convertirsi in un’occasione di sviluppo del lavoro analitico.
Oggi è opinione diffusa che l’evenienza dell’enactment sia inevitabile e, soprattutto, che costituisca un’opportunità per entrare in aree inconsce altrimenti non esplorabili.
Personalmente preferisco considerare l’enactment come un evento discreto, ben definito e riconoscibile rispetto al generale andamento della relazione terapeutica: “un episodio relazionale a reciproca induzione evidenziabile attraverso il comportamento”, come lo avevamo definito con S.Filippini nel 1993. Questo modo di intenderlo non deve però far pensare che in assenza di enactment sia assente anche l’interazione – tutt’altro! La componente di ‘azione’ è inerente a qualsiasi scambio comunicativo, veicolata sia dagli aspetti para-linguistici, non-verbali, come il tono, le pause, la prosodia, la mimica, ecc., sia dagli aspetti pragmatici del linguaggio insiti nella struttura verbale del discorso (Ponsi 1997). Così inteso, l’enactment è un’evenienza specifica, in cui l’interazione raggiunge una particolare visibilità e una particolare intensità: la punta di un iceberg, come dicevo sopra.
E, aggiungo, distinguo l’enactment da un’altra evenienza particolare, quella dell’acting out, che per certi aspetti è vicina all’enactment ma le cui origini concettuali appartengono al classico modello uni-personale. Ritengo che i concetti che hanno un saldo radicamento nell’osservazione clinica, anche se si sono sviluppati all’interno di prospettive teorico-cliniche diverse fra loro, possano, anzi debbano, convivere nel lessico della psicoanalisi clinica, la cui ricchezza terminologica e concettuale è un bene prezioso, da preservare e da coltivare (Ponsi 2012).
Tornando all’enactment, si può dire che è andata diffondendosi in questi ultimi anni una versione decisamente radicale, che ne esalta il valore terapeutico e che ne fa il momento centrale della relazione analitica, quello in cui avvengono le svolte essenziali della terapia. E’ in questa versione più radicale dell’enactment che si inserisce la prospettiva neuro-psicoanalitica di Schore.
Proseguendo nel suo decennale lavoro di integrazione fra le più recenti acquisizioni delle neuroscienze e il patrimonio clinico e concettuale della psicoanalisi – un lavoro nel quale ha una competenza e una capacità di documentazione eccezionali – Schore ritiene che gli enactments siano l’espressione di una disregolazione e della riattualizzazione di un’esperienza traumatica tramite una comunicazione implicita, da cervello destro a cervello destro, in cui la vulnerabilità del paziente interagisce con la disponibilità emozionale dell’analista (diapositive 106, 114 e 116).
Ciò rende l’enactment il fulcro di un tipo di terapia che non persegue più, come nella psicoanalisi classica, la conquista dell’inconscio da parte della coscienza; l’obbiettivo è piuttosto la trasformazione e l’integrazione nel sé di aree mentali-cerebrali dissociate attraverso la regolazione dell’affetto (A.R.T., Affect Regulation Therapy).
Sulla centralità dell’enactment come meccanismo di base dell’azione terapeutica della psicoanalisi Schore si è soffermato a lungo, sia nell’introduzione all’ultimo libro di Bromberg da poco uscito in Italia (… Bromberg è una specie di alter-ego in versione narrativa e poetica di Schore), sia nel suo ultimo libro, The Science of the Art of Psychotherapy.
Dico subito che questo titolo mi è piaciuto molto perché indica che la psicoterapia può arricchirsi di un tipo di conoscenza sul suo funzionamento tramite il metodo scientifico, senza doversi appellare a statuti speciali ma anche senza dover disconoscere o minimizzare la propria natura di disciplina pratica, narrativa o ‘artistica’ (o, forse, anche più semplicemente ‘artigianale’).
Avendo in mente questo intreccio di ‘scienza’ e ’arte’ vorrei ora soffermarmi sull’enactment in versione neuro-psicoanalitica che ci propone A.Schore.
L’operazione che egli fa è semplice e chiara: si impossessa di una nozione eminentemente clinica, ampiamente illustrata e discussa negli ultimi due decenni nella clinica psicoanalitica, prediligendone la versione più relazionale e interazionista, quella cioè che meglio gli permette di saldare i dati delle neuroscienze cognitive e dello sviluppo con l’esperienza e la concettualizzazione dei modelli teorico-clinici post-classici.
Quale è il risultato dell’aggancio della ‘scienza’ all”arte’?
Premettendo che il punto di vista dal quale faccio la mia valutazione è quello clinico, penso che ne venga fuori qualcosa di molto pregevole, che contiene però anche qualche (meno pregevole) rischio di semplificazione.
L’aspetto più pregevole è costituito dal fatto che tutta quell’area della fenomenologia relazionale che la psicoanalisi contemporanea ha riconosciuto essere di basilare importanza nell’avanzamento del processo analitico viene collocata in un contenitore concettuale di solida qualità. Disporre dei dati provenienti dalle discipline affini per spiegare tale fenomenologia è una risorsa di grande pregio per vari motivi: perché dà forza e valore alle osservazioni e esperienze cliniche che riguardano l’area della relazione, perché salda le conoscenze del campo osservativo psicoanalitico con quello delle discipline affini, e – per ultimo ma non meno importante motivo – perché fornisce alla nostra disciplina, tanto frammentata in una pluralità di modelli teorico-clinici sempre più distanti fra loro (… una ‘pluralità di ortodossie’, come la chiama A.Cooper 2008), uno strumento di dialogo intra-disciplinare.
In tale pregevole operazione si annida però anche il rischio di considerare in modo semplificato la situazione terapeutica: se sul piano della spiegazione teorica la semplificazione della descrizione e la riduzione delle variabili sono inevitabili e necessarie, sul piano della pratica clinica il processo di semplificazione può far perdere qualcosa di ciò che è stato acquisito riguardo alla comprensione delle vicende cliniche. Andremmo, ad esempio, incontro a una semplificazione se nel lavoro clinico vedessimo enactments dappertutto, se considerassimo enactment qualsiasi interazione, o se cercassimo scorciatoie per sintonizzarci con l’emisfero destro del paziente. Ma il rischio maggiore è di dimenticare che c’è una differenza fra un enactment e la sua elaborazione. Non basta, infatti, che un enactment si verifichi perché questo acquisisca un valore terapeutico; è necessario lavorarci su, farne un’elaborazione. Non entro qui nella questione, eminentemente clinica, di come si possa procedere all’elaborazione di un enactment – se più con interpretazioni o con interventi non-interpretativi o con una self-disclosure. Quello che è certo è che senza un’adeguata elaborazione – la quale non può che avvenire in un momento successivo al verificarsi dell’enactment medesimo – l’occasione di crescita e di cambiamento viene sprecata.
E’ l’elaborazione dell’enactment, non il suo più o meno frequente verificarsi nel corso del trattamento, a fare la differenza. E per capirne il significato va sviluppato un lavoro di riflessione – il classico ‘working through’!
Questo specifico punto – quello che riguarda il lavoro di elaborazione post-enactment, il working through che fa acquisire coscienza e conoscenza – mi pare un po’ trascurato, o forse sottostimato, da Schore, malgrado egli parli di enactment ‘regolato’ (… non selvaggio).
Mi domando se il motivo di tale trascuratezza non stia nel fatto che il lavoro di elaborazione, il working through’ post-enactment, necessita delle funzioni analitiche e ordinatrici dell’emisfero sinistro: e Schore non ha tanta simpatia per l’emisfero sinistro!
( Ho paura che, nell’entusiasmo per tutto ciò che veicola, trasmette, regola, produce, integra, ecc. l’emisfero destro si finisca col trascurare ciò che, modestamente, fa l’emisfero sinistro. Non buttiamo via il bambino con l’acqua sporca! ).
Al di là della battuta, a proposito del valore terapeutico attribuito all’enactment in sé, vorrei portare l’attenzione sulla differenza fra il lavoro sull’enactment e il lavoro dell’enactment (o nell’enactment), che è un processo che si svolge a livello inconscio, o implicito, per dirla con Schore.
Nella prospettiva in cui si muove Schore (e anche Bromberg) l’obbiettivo del trattamento non è tanto la conoscenza di sé (insight), ma la crescita del Sé. Questa è concepita in modo così intrinsecamente relazionale e interattivo da far passare in seconda linea la conoscenza di sé (insight), in misura forse anche maggiore di quanto non venga teorizzato da molti modelli relazionali. L’assunzione del modello relazionale interpretato in chiave neuro-psicoanalitica corrisponde – come Schore ripetutamente sottolinea – a un cambiamento di paradigma; questo si articola in tre passaggi, che Schore assume direttamente da Bromberg: “si è passati dal primato della cognizione al primato degli affetti, dal primato del contenuto al primato del processo e del contesto e, di conseguenza, all’abbandono del concetto di tecnica” (Schore, 2012, p. XVIII; v. anche Bromberg 2012, cap. VI,pp. 129-150).
Quest’ultimo punto – l’abbandono del concetto di tecnica – è a mio parere rilevante: una psicoanalisi che mette al primo posto gli affetti e il contesto relazionale e che fonda la sua azione terapeutica sulla regolazione della relazione e non più sull’acquisizione di una conoscenza di sé (l’insight) è una psicoanalisi in cui il concetto di tecnica, e cioè dell’insieme delle regole che guida la condotta dell’analista, tende a sfumare: ciò che conta non è la ricostruzione di una fantasia inconscia né la conquista di una verità nascosta, ma la regolazione della relazione, “la sintonizzazione generale dell’analista rivolta all’esperienza percettiva del contesto” (Bromberg 2011, p.133).
In questa ottica l’enactment è la punta di diamante di un’azione terapeutica che mette in primo piano ciò che prima stava sullo sfondo: la relazione. “Quello che sostengo qui” dice Bromberg (2012, p. 129) “è l’idea che il processo di crescita del Sé è intrinsecamente e decisamente relazionale: non è determinato attraverso la relazione tra paziente e analista. Al contrario, la fonte di azione terapeutica è la relazione“. E’la relazione in sé, dunque, a avere un potere trasformativo; è l’enactment in sé a costituire il cambiamento. L’irrilevanza della questione tecnica ha qui la sua radice: nella misura in cui si afferma che è l’affetto, e non i contenuti, ad avere un potere trasformativo, che è l’affetto, e non i contenuti, a garantire l’attivazione congiunta degli emisferi destri dell’analista e del paziente, ne consegue che i contenuti, le strategie discorsive, le tecniche diventano irrilevanti ai fini dello stabilirsi di una “conversazione tra sistemi limbici” (Schore 2011, p. XXII).
Epilogo
E’ fantascienza psicoanalitica immaginare di poter verificare in diretta su un monitor lo stato di attivazione degli emisferi destri dei due membri della coppia terapeutica durante un enactment?
Credo che non sia tanto lontano il momento in cui le tecniche di neuro-imaging ci permetteranno di verificare come diversi modelli di comprensione e di gestione dell’enactment possano convergere in un’unica spiegazione neurobiologica.
Lo straordinario materiale che nel frattempo ci offre Schore sta addestrando le nostre menti – e naturalmente anche i nostri cervelli! – a affrontare quell’emozionante momento.
Riferimenti bibliografici
Bromberg P.M. (2011). L’ombra dello tsunami. La crescita della mente relazionale. Milano, Cortina, 2012.
Cooper A. M. (2008). American psychoanalysis today: a plurality of orthodoxies. J.Amer.Acad.Psychoanal., 36: 325-353.
Filippini S. & Ponsi M. (1993). “Enactment”. Riv.Psicoanal., 39(3): 501-516.
Ponsi M. (1997). Interaction and transference. Int.J.Psycho-Anal., 78: 243-263.
Ponsi M. (2012): Evoluzione del pensiero psicoanalitico. Acting out, agire, enactment. Riv.Psicoanal., 58(3): 653-670.
Schore A. (2011). Attaccamento, trauma, dissociazione. Una premessa neuro-biologica. Introduzione (pp. XVII-XLVI) a Bromberg P.M. (2011). L’ombra dello tsunami. La crescita della mente relazionale. Milano, Cortina, 2012.
Schore A.N. (2011). The right brain implicit self lies at the core of psychoanalysis. Psychoanal.Dialogues, 21: 75–100.
Schore A.N. (2012). The Science of the Art of Psychotherapy. New York , W.W.Norton & Company.