A cura di Andrea Scardovi
Piacere (Il)
Introduzione
Tematicamente il piacere attraversa l’opera freudiana dai suoi inizi sino agli ultimi scritti, ed è presente nella riflessione di diversi autori successivi a Freud. Allo stesso tempo esso rappresenta una voce tendenzialmente implicita della letteratura, e a tutt’oggi una definizione del piacere, inteso psicoanaliticamente, non esiste. La mancanza di una definizione del piacere si accompagna alla complessità del pensiero di Freud su questo tema, e corrisponde ad un problema conoscitivo già evocato dal Filebo di Platone. In questo dialogo Socrate afferma che chi provi in qualsiasi maniera un qualsiasi godimento gode sempre realmente, anche se di ciò che non esiste o non è mai esistito. Anche se ci pensiamo ciecamente orientati al conseguimento del piacere, riconosceremo facilmente che l’uomo ricerca quel che per lui è un piacere, e non qualcosa di ratificabile o oggettivabile come tale. Come ha notato recentemente Bencivenga (2012), il piacere non è falsificabile. Quando ne facciamo materia di studio rischiamo dunque di collocarlo in uno spazio pubblico, oggettivato; di fraintendere la sua natura intra-personale che per lo psicoanalista rimanda direttamente alla realtà psichica.
Il piacere nel pensiero di Freud
L’accezione freudiana del piacere prende forma in continuità con il pensiero di Fechner, ai cui studi neurofisiologici Freud si ispirò in modo ampio e dichiarato. Fechner (1848) aveva enunciato un “principio di piacere dell’azione”, con cui intendeva segnalare che i nostri atti sono determinati dal piacere e dal dispiacere procurati dalle rappresentazioni che intervengono al momento dell’azione da compiere. Come indicato da Laplanche e Pontalis (1967), questa accezione non intendeva tanto considerare il piacere come finalità dell’azione umana; metteva in luce piuttosto la natura automatica delle motivazioni che entrano in gioco nelle nostre scelte, avvicinando il problema delle loro ragioni inconsce. Similmente, Freud colloca il piacere in una posizione centrale all’interno della propria costruzione teorica e arriva a farne uno dei principi che regolano il funzionamento dell’apparato psichico, ma l’importanza della ricerca del piacere e dell’evitamento del dispiacere nella teoria freudiana non va confusa con una visione edonistica dell’individuo.
La teoria psicoanalitica cerca di radicare la pensabilità del piacere in termini di funzionamento psichico, individuandone gli aspetti economici e sforzandosi al tempo stesso di coglierne gli elementi dinamici. Da un punto di vista economico l’apparato psichico freudiano appare regolato dalla tendenza alla scarica della tensione, vissuta come spiacevole perché turbativa della quiete. In quest’ottica il piacere corrisponde alla sensazione della scarica verso l’esterno dell’energia apportata dalle sollecitazioni a cui l’individuo è esposto sia dall’esterno che al proprio interno. Tuttavia la riflessione su questi aspetti economici del funzionamento psichico ha conosciuto diverse articolazioni nell’arco dell’opera di Freud. Se in alcuni passaggi dei suoi scritti l’idea del piacere viene sovrapposta alla scarica della tensione, nell’insieme della sua teorizzazione l’apparato psichico tende a ripristinare lo stato di quiete turbato dalle sollecitazioni pulsionali in virtù di un principio distinto da quello del piacere: il principio di costanza. Il principio di costanza esprime la tendenza a risolvere le tensioni procurate dalle sollecitazioni a cui l’organismo è esposto, nella sua natura di essere irriducibilmente vivente. È un principio che contiene la sua implicita insoddisfabilità. Come Freud segnala sin dal “Progetto di una Psicologia” (1895), nel momento in cui una scarica avviene con completezza la percezione del suo realizzarsi costituisce una nuova sensazione, divenendo cosi fonte di ulteriore tensione e di nuove necessità di scarica. Il principio di piacere nasce da questa impossibilità di risolvere esaustivamente la tensione che si vorrebbe scaricare. La tendenza dell’organismo a ricercare il piacere e ad evitare il dispiacere non rappresenta dunque un giudizio sul carattere edonistico della natura umana; segnala piuttosto il suo legame costitutivo con qualcosa di insaturo e irrisolvibile, che mette in luce l’inquietudine a cui l’individuo è esposto, per sua natura.
In “Al di là del principio del piacere”, il famoso saggio del 1920, il piacere consiste della sensazione di sollievo procurata dalla scarica, ma non viene propriamente identificato con quest’ultima. Soprattutto non è la ricerca del piacere la causa della sofferenza psichica, ma la presenza di altre forze più potenti, primarie e elementari che intervengono nella coazione a ripetere e possono portare ad un uso, questo sì edonistico, del piacere. Come dirà Lacan (1971) la pulsione di morte è “iperedonista”; rivolta cioè a un godimento inteso come fattore di morte, e non di vita. D’altra parte è una evidenza dell’esperienza, non soltanto di quella clinica, che nei fantasmi inconsci la sofferenza possa rappresentare una sorta di piacere irrinunciabile. Con l’ipotesi di una coazione a ripetere in grado di oltrepassare il dominio del principio del piacere, il piacere non rappresenta più un oggetto teleologico; non è più pensato come solo scopo delle azioni umane, e diviene esso stesso oggetto di inibizione, timore, difficoltà. La tendenza della vita psichica a ridurre, mantenere costante o sopprimere la tensione interna prodotta dagli stimoli trova espressione nel principio di piacere, ma questo principio viene ora descritto come una tendenza che opera al servizio di una funzione, con cui non può più, propriamente, essere identificato. In sostanza Freud avvia in questo lavoro del 1920 un passaggio teorico complesso, che rimane però relativamente incompiuto. Da un lato esplora la possibilità di pensare il piacere come modificazione della grandezza della carica energetica entro una data unità di tempo, non più come scarica di una quantità; il piacere viene accostato ad una sorta di ritmo, una qualità temporale che riflette il modo in cui le sensazioni di piacere e dispiacere trovano modo di bilanciarsi nella loro alternanza. Dall’altro permane in questo saggio una sovrapposizione fra principio di costanza e principio di piacere, che se venisse considerata senza individuare la possibile articolazione fra le forze in gioco – quelle legate alla scarica, alla distruttività e alla coazione a ripetere, rispetto a quelle vicine al piacere e al principio che ne sancisce l’importanza – collocherebbe questo stesso principio al di qua di ogni dinamica, finendo per identificarlo con la ricerca di una scarica definitiva e sovrapponendo così la ricerca del piacere alla pulsione di morte. Nel 1924 (“Il problema economico del masochismo”) Freud afferma di poter risolvere questa sovrapposizione e arriva a compiere un importante passaggio differenziativo, che non a caso verrà messo in luce in particolare da Loewald, nel suo studio sulla sublimazione (1988). Questo scritto di Freud si apre con la dichiarazione esplicita di voler superare le confusioni rimaste irrisolte in “Al di là del principio del piacere”, e presenta un’articolazione dinamica del rapporto fra principio di costanza, principio di piacere e principio di realtà, che appare essenziale per la comprensione del piacere psicoanalitico. Il principio di piacere viene ora considerato come una modificazione del principio di costanza, come elemento di una trasformazione che interviene quando l’individuo, non potendo realizzare una scarica esaustiva, incontra nell’ambiente una qualità che gli consente di accedere alla capacità di dilazionare nel tempo l’urgenza, altrimenti inderogabile, della scarica. In presenza della possibilità di un piacere sufficiente, e sufficientemente qualitativo, l’individuo sperimenta la possibilità di accedere al principio di realtà, che viene a consistere della capacità di dilazionare la scarica nel tempo. Ciascun principio si propone ora uno scopo distinto, che contribuisce alla sua definizione. Il principio di costanza persegue la diminuzione quantitativa della pressione dello stimolo. Il principio di piacere la reperibilità di una caratteristica qualitativa dello stimolo. Il principio di realtà la capacità di dilazione temporale della scarica dello stimolo, con la conseguente tollerabilità della tensione spiacevole. In ragione di questa nuova accezione, conclude Freud, non si può più respingere la definizione del principio di piacere come custode della nostra vita. Dopo un complesso itinerario speculativo il piacere viene a rappresentare una qualità essenzialmente dinamica che consente di accedere al principio di realtà, e sembra costituire un elemento sostanziale di quella possibile trasformazione della quantità in qualità di cui il funzionamento dell’apparato psichico consiste. L’accenno di Freud al concetto di ritmo, di variazione nel tempo delle sensazioni di piacere e dispiacere, introduce inoltre il problema del rapporto fra piacere e temporalità, un tema che troverà sviluppo specifico nella riflessione di alcuni autori post-freudiani.
APPROFONDIMENTI
Nel suo libro “I destini del piacere” (1979) P. Aulagnier si pone una domanda centrale per la riflessione psicoanalitica su questo tema. Quale è, si chiede Aulagnier, il premio di piacere che permette all’Io di investire uno scorrere del tempo che lo conduce verso la morte? Che gli consente cioè di vivere, di “abitare” la temporalità dell’esperienza? Riprendendo implicitamente le riflessioni freudiane che abbiamo considerato, Aulagnier indica che perché il tempo risulti abitabile, senza dover sottostare alla necessità di una scarica immediata della tensione, occorre che ci sia la “promessa” di un piacere possibile. Essa individua l’oggetto di questa promessa nel piacere fornito dall’identità fra la parola e la cosa. Più precisamente: dalla sensazione della possibile corrispondenza fra rappresentazione di parola e rappresentazione di cosa. Il pensiero di Aulagnier sembra indicare che perché il soggetto sviluppi una continuità del senso di sé, è necessario che senta di poter trovare una conferma al legame fra le parole e le cose a cui lo svolgersi della propria esperienza lo espone, in particolare nella relazione con il genitore e, in senso lato, con il caregiver, che Aulagnier chiama appunto il ‘portaparola’. Similmente, laddove si sia creata una discontinuità, come accade nelle situazioni psicopatologiche, perché il soggetto possa ricominciare a vivere la sua temporalità occorre che egli disponga della possibilità di ripartire da un legame confermativo fra le rappresentazioni di parola e le rappresentazioni di cosa che incontra nella sua esperienza con il curante. La sensazione di questa possibile corrispondenza rappresenta per l’individuo una fonte di piacere soggettivante, un fondamentale piacere auto-riconoscitivo che assume valore di elemento evolutivo sostanziale. Si tratta di quello che possiamo intendere come un piacere confermativo dell’oggetto e di se stessi, che ha a che fare con il possibile piacere del Sé; che rimanda cioè alla possibilità di sentire autenticamente di esserci, a quella possibilità di “sentirsi reali” di cui Winnicott ha parlato in diversi passaggi della sua teorizzazione.
Da un lato sappiamo che per questo autore non è la soddisfazione istintuale che fa sentire al bambino di esistere, che rende la vita reale e degna di essere vissuta. Nell’area del gioco e dei fenomeni transizionali la soddisfazione attiene, infatti, alla capacità di creare legami con gli oggetti, più che all’attività diretta della pulsione che spinga verso il proprio soddisfacimento. Allo stesso tempo Winnicott sottolinea con forza come questi fenomeni possono avere straordinaria intensità e segnala che in essi potrebbe essere in gioco un piacere senza acme, distinto da quello modellato sulla localizzazione e sull’orgasmo (1968). Si tratta di un piacere che non conosce picco e detumescenza, come ha notato Recalcati (2012), ma piuttosto onde lunghe, oscillazioni, fenomeni infinitamente variabili non assimilabili alla forma stereotipata della scarica. L’idea winnicottiana di piacere, apparentemente distante dalla metapsicologia, risulta prossima al piacere qualitativo che abbiamo visto emergere nel pensiero di Freud, e sembra trovare una significativa applicabilità alla pratica clinica. Nel suo famoso lavoro sull’uso di un oggetto (1969) Winnicott sostiene che perché un’analisi non divenga interminabile, perché ci sia in essa la soddisfazione dell’autenticità, occorre che si compia il passaggio che porta dalla relazione con l’oggetto sino alla capacità di usare l’oggetto. Significativamente, le parole con cui illustrerà questo passaggio rimandano esplicitamente alla gioia, al godimento del paziente che abbia potuto realizzarlo, ma anche alla gioia e al godimento dell’analista che sia divenuto capace di lasciare che esso avvenga.
L’analista che sia troppo occupato a utilizzare il contenuto del gioco rischia di non cogliere il valore del gioco come cosa in sé, a partire dall’importanza del piacere e della gioia che il bambino sperimenta in esso (1970). Ma occorre che lo stesso psicoanalista metta in campo la propria capacità di provare piacere, di essere nell’esperienza in modo vivo e sensibile, non schermato da una conoscenza distanziante che confonderebbe l’importanza dell’astinenza con una astensione in realtà difensiva. Come ha scritto Phillips (1988), Winnicott è l’autore che più di ogni altro ha parlato esplicitamente del piacere che provava nel lavorare con i propri pazienti, e in questo senso ha fornito un contributo fondamentale perché sia possibile considerare i processi generativi del campo analitico, arrivando a pensare il piacere, sia quello del paziente che quello dell’analista, come un elemento costitutivo del lavoro che li coinvolge.
Non è probabilmente un caso che questa accezione di un piacere non identificato con la scarica abbia preso forma nell’esperienza del lavoro clinico con i bambini. Nella letteratura più recente è infatti proprio l’infant research a fornire nuovi spunti relativi alla comprensione dell’importanza del piacere e della natura non edonistica, ma certamente edonica, dello psichico. Anche l’intreccio con le neuroscienze, sempre più impegnate nell’approfondimento dei meccanismi appetitivi e della dimensione edonica dell’esperienza (Bloom, 2010; Tommasello 2011; Music, 2011; Ansermet e Magistretti, 2012; Wallenstein, 2012), sta portando diversi autori a valorizzare l’attenzione al piacere nel processo terapeutico. Come ha scritto Music (2011, 2013), una parte della letteratura psicoanalitica ha trascurato una serie di emozioni, e fra queste il godimento, il piacere, l’eccitazione – non già intesa come sinonimo di ipomaniacalità; la vitalità, la gioia. In Music la partecipazione attiva alla vita sociale diventa un esperienza di gioiosità della comunicazione con l’esterno, e non solo una regolazione emozionale o il contenimento del dolore psichico. Non a caso i bambini trascurati raramente mostrano la capacità di provare questo tipo di godimento.
Si pone qui il problema del positivo, del modo in cui, cioè, la teoria psicoanalitica rende pensabile la fisiologia di ciò che accade psichicamente, e inter-psichicamente, nella pratica clinica.
In una lettera a Ferenczi, citata in Jones, Freud (1928) scrisse che il positivo avrebbe meritato maggiore attenzione nella sua teorizzazione, e che egli aveva lasciato al tatto degli analisti ciò che di positivo si dovrebbe fare, ma che il risultato era stato che gli analisti più docili non avevano afferrato l’elasticità delle regole che aveva proposto, trattandole come fossero altrettanti tabù. Aggiunse che un giorno tutto questo avrebbe dovuto essere rivisto, senza però trascurare le regole e le condizioni di cui aveva parlato, che rendono possibile il lavoro analitico.
La capacità dello psicoanalista di muoversi fra le regole della cura e la possibilità di immergersi con sufficiente libertà nel piacere dell’area preconscia, indagando e mettendo in luce la fisiologia di quello che può intervenire nel campo analitico, sembra rappresentare una qualità essenziale dei più recenti contributi della psicoanalisi italiana. A partire da una radicata continuità con la metapsicologia freudiana, i lavori di Semi dedicati allo studio della coscienza in psicoanalisi e all’approfondimento del metodo delle libere associazioni (2003; 2011); gli studi di Conrotto, centrati sulla definibilità epistemologica della natura esperienziale del processo analitico, e dei limiti conoscitivi sulla cui consapevolezza esso si istituisce e si articola libidicamente (2010); i contributi di Ambrosiano e Gaburri, che hanno ripreso il pensiero di Loewald sulla sublimazione e valorizzato gli aspetti della “spinta a esistere” nel lavoro analitico (2008, 2013); il pensiero di Ferro e della scuola di Pavia, capace di dare forme e consistenza alle potenzialità generative del campo e alla capacità della coppia analitica di sognare e comunicarsi quanto va accadendo fra loro (2002; 2013); sino alla teoria dell’interpsichico, sviluppata recentemente da Bolognini (2008); costituiscono gli elementi di un pensiero composito, ma attento a valorizzare gli aspetti del positivo essenziali alla pratica analitica e alla sua stringente attualità.
Questi contributi avviano a pensare la fisiologia degli scambi fra analista e paziente, e il piacere che può intervenire in essi, in una prospettiva che va oltre la retorica della relazione, perchè approfondisce radici e modalità del contatto psicoanalitico, ricollocando nell’accezione freudiana della sessualità le teorie, in prevalenza francesi e nordamericane, che hanno studiato l’interazione fra i membri della coppia analitica. In particolare, il concetto di equivalenza (Bolognini, 2008) mette in correlazione lo scambio interpsichico che può avvenire in analisi con lo scambio intercorporeo fra le mucose – da quello della suzione di allattamento, alle interazioni comunicative che si realizzano grazie agli organi di senso, sino all’incontro e all’accoppiamento genitale – e radica nel corporeo e nella sessualità la possibilità di pensare qualità che trascendono le proprietà individuali.
Dicembre 2013
BIBLIOGRAFIA
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