J.KOONS, 1990
A cura di Giangaetano Bartolomei e Rossella Vaccaro
Probabilmente l’espressione “perversione relazionale” è stata introdotta nel lessico psicoanalitico italiano da Anna Maria Pandolfi, nel suo contributo,”Le perversioni relazionali nella coppia e nella famiglia”, presentato a un convegno internazionale, svoltosi a Verona nel 1999.
Qualche anno dopo, Sandra Filippini, riconoscendo il suo debito, quantomeno lessicale, verso A. M. Pandolfi, ha ripreso questa espressione, connotandola e arricchendola in modo nuovo e adoperandola come concetto-base del suo saggio Relazioni perverse – La violenza psicologica nella coppia (2005). A questo saggio hanno fatto seguito, da parte di Sandra Filippini, altri contributi, nella forma di relazioni o interventi a convegni. Di particolare rilievo la sua relazione, del 2 febbraio 2007, intitolata “Quando la coppia non funziona. Conflitto o violenza?”, svolta a un convegno, organizzato da un’associazione di avvocati fiorentini, intorno al tema “Conflitto e violenza intrafamiliare”.
Secondo Sandra Filippini, della quale qui di seguito riassumiamo le tesi più importanti, il maltrattamento psicologico può essere definito “perversione relazionale” quando contiene certe caratteristiche psicodinamiche. Si tratta di una modalità particolare (patologica) di interazione nella coppia dove uno dei due partner (denominato ‘perpetratore’) mette in atto una serie di comportamenti finalizzati a controllare, dominare e sottomettere l’altro, trattandolo non più come un essere umano ma come una cosa.
Va subito aggiunto che il perpetratore può svolgere la propria azione perversa e pervertitrice solo grazie a una sistematica alterazione della verità (delle emozioni, dei sentimenti, delle situazioni, dei fatti eccetera, riguardanti la coppia o soltanto la vittima), alterazione della verità che viene, per così dire,‘imposta’ alla vittima, la cui mente è stata preliminarmente, nella fase di formazione della coppia, ‘colonizzata’ dal perpetratore. La vittima viene manipolata al punto da accettare come vera la rappresentazione falsificata di sé stessa e, in generale, della realtà, impostale dal perpetratore allo scopo di dominarla e di farle subire i propri maltrattamenti e le proprie violenze psicologici.
Spesso l’inizio di una relazione con un partner narcisista è, per la donna, molto gratificante. Il narcisista, infatti, finché ha bisogno di entrare in possesso della donna, è capace di essere molto affascinante (pensiamo al personaggio di Don Giovanni). Lei è molto coinvolta e ha la sensazione di vivere il rapporto più importante della sua vita. In questa fase la donna, com’è normale, è particolarmente esposta; ed è proprio in questo momento che si realizza la prima tappa della vittimizzazione: l’effrazione, come viene chiamata da chi si occupa di maltrattamento. L’effrazione consiste in una sorta di colonizzazione della mente dell’altro, come se il perpetratore prendesse possesso della mente della donna instillando in quest’ultima l’idea che lui sa, più e meglio di lei, che cosa veramente lei vuole, di che cosa veramente lei ha bisogno. A questo punto, la vittima sta cominciando ad abdicare al proprio senso critico, perciò, quando il vero e proprio maltrattamento comincia a manifestarsi, lei non è in grado di riconoscerlo. La perdita della capacità di effettuare un sicuro esame della realtà è, infatti, una delle conseguenze della relazione con un narcisista perverso, ed una delle più dolorose. La donna cade, dunque, vittima di un inganno o più precisamente cade dentro una rete dalla quale spesso non potrà più uscire perché il suo partner riuscirà a persuaderla che solo lui è in grado di darle una rappresentazione corretta di lei stessa e del mondo circostante. Con il termine gaslight, titolo di un film inglese, da cui gaslighter, Sandra Filippini indica “comportamenti messi in atto allo scopo di far sì che una persona dubiti di se stessa e dei suoi giudizi di realtà, che cominci a sentirsi confusa o a temere di stare impazzendo. Esso va distinto dal dubbio e dalla ruminazione ossessivi, che non sono dovuti alla presenza di un gaslighter” (2005, 34).
Ma come inizia una storia di maltrattamento psicologico? E’ essenziale e fatale che la donna s’imbatta in un narcisista perverso, nel quale, come si sa, il tratto narcisistico si caratterizza per l’indifferenza alla relazione, se non in quanto e fin tanto che gli dia lustro o comunque alimenti la ‘grandezza’ del suo Io, mentre iltratto perverso si caratterizza per l’indifferenzaper la persona dell’altro, per la mancanza di empatia, per il tentativo costante di trasformare la relazione con l’altro in relazione di potere, nel disconoscere, dell’altro, l’umanità e nell’usarlo a proprio piacere: nel deumanizzare l’altro. Il perverso prova piacere – un senso di trionfo – nel controllare l’altro, nell’obbligarlo a fare, attraverso la manipolazione e la minaccia di un ricatto (psicologico), quello che l’altro non vorrebbe fare: “Nella relazione narcisistico – perversa l’oggetto viene usato con la finalità di mantenere il sé coeso, ma ciò avviene con mezzi che vanno oltre l’uso dell’oggetto come supporto e specchio del proprio sé grandioso. Il rifornimento narcisistico nella relazione narcisistico – perversa si effettua, in altre parole, con un surplus di danneggiamento e di manipolazione nei confronti dell’oggetto perché entrano in gioco i mezzi tipici della perversione e cioè il diniego e la scissione messi in atto con il piacere specifico di umiliare e distruggere, oltre a quella peculiare capacità, tipica della perversione, di alterare la realtà. Il narcisista perverso è “narcisista” in quanto lavora per mantenere la propria autostima ed è “perverso” in quanto fa pagare ad altri il prezzo della difesa dal collasso del sé” (M. Ponsi, 2003, in www.spi-Firenze.it).
La donna, così, si isola: rimane sola con il perpetratore, alla mercé del suo giudizio. Nascondendo ciò che realmente accade fra loro, finisce con il proteggere il partner che la maltratta; ma soprattutto, la donna ha paura. Teme il rimprovero, la battuta sarcastica, la minaccia espressa a bassa voce e in tono cupo, oppure gridata durante un’esplosione di collera. Fa di tutto per rabbonire il compagno, ogni suo sforzo va in questa direzione. Farebbe qualunque cosa pur di strappargli un sorriso, un cenno di assenso, un’approvazione.
Esiste – si chiede Sandra Filippini – uno specifico profilo di personalità della vittima designata, nello stesso modo in cui si può tracciare un profilo del perpetratore? Probabilmente no. Quello del diventare vittima è un percorso che molte donne potrebbero fare e non fanno perché non hanno incontrato un perpetratore, oppure che molte donne fanno quando incontrano un perpetratore, ma che, se riescono a lasciarlo, possono non ripetere più nella vita.
Una volta attratte nelle spire di una relazione perversa, le donne annaspano per molto tempo senza riuscire a uscirne. Quali sono le ragioni di questa lunga permanenza in un rapporto che fa soffrire? Non è chiaro se questo dipenda dalle caratteristiche della perversione relazionale, oppure da un profilo di personalità precedentemente stabilito e identificabile, e ciò costituisce una questione che ammette multipli livelli di risposta. Fin qui il nocciolo del pensiero di Sandra Filippini.
Ruth Stein (2005), ma non solo lei, parla di un “patto perverso” che legherebbe i due membri della coppia perversa. Ma, invece, nel caso della “perversione relazionale”, descritta da Sandra Filippini ( e questo va sottolineato energicamente) non esiste alcuna “coppia perversa”, non esiste alcun tacito patto tra vittima e perpetratore, e nessuna complicità sotterranea: piuttosto, esiste una strategia perversa di inganno e di sopraffazione, messa in atto dal perpetratore dopo avere, in vari modi e in varie forme, “sedotto” la vittima e privata della sua autonomia e della sua autostima.
Mario Rossi Monti, al termine della sua recensione del saggio della Filippini, ci ricorda una tesi fondamentale della Filippini stessa, e cioè che “adottare l’ipotesi della collusione equivale ad assumere un atteggiamento di sospetto e di colpevolizzazione nei confronti della vittima, rendendo inefficace la relazione terapeutica”. Viceversa, la relazione è perversa in primo luogo poiché il partner perverso perverte la relazione, attaccando nella vittima la capacità di pensare e mettendola fuori uso mediante un’opera di sistematico décervelage, per usare l’espressione di Racamier (1992). “Al di là delle intenzioni che l’Autrice esplicita – conclude Mario Rossi Monti – queste considerazioni sollevano una serie di problemi di grande rilevanza. Solo due accenni: (1) problemi di carattere epistemologico relativi al frequente ricorso da parte della psicoanalisi a ‘pseudo-spiegazioni’[…]; (2) problemi di carattere teorico-clinico relativi all’ adozione di una prospettiva ‘disposizionale’ per il perpetratore del maltrattamento (che sarebbe caratterizzato da un particolare assetto patologico di personalità) e viceversa di una prospettiva ‘situazionale’ per la vittima, nella quale conta più la situazione che non le caratteristiche della persona”(Rossi Monti, 2007).
Nancy Mc Williams, nel suo La diagnosi psicoanalitica (2011), descrive il masochismo a vari livelli e con diverse sfumature (2011, 303-325) distinguendo il masochismo nella sfera sessuale dell’individuo dal masochismo come stile di attaccamento, sostenendo che quest’ultimo struttura le personalità autodistruttive che, sottomettendosi ai loro aguzzini, annullano sé stesse nella speranza di essere amate. Quindi masochismo non per amore e piacere della sofferenza, ma sopportazione della violenza come mezzo che “giustifica” il raggiungimento di uno scopo senza il quale non è possibile sopravvivere: “La donna che si comporta in modo masochistico tollera il dolore e la sofferenza nella speranza, cosciente o inconscia, di un qualche bene maggiore come se il proprio benessere in definitiva dipendesse dalla sua capacità di sopportare i maltrattamenti” (2011, 305). Sandra Filippini ha invece sostenuto che l’uso del termine masochismo deve essere esclusivamente applicato alla sfera della sessualità: “Se molte formulazioni psicoanalitiche sono mal definite, quella di masochismo è anche fuorviante, perché troppo moralisticamente compromessa, troppo legata a giudizi di valore. In questo caso tali giudizi sono doppiamente pericolosi, perché l’argomento che la donna rimane con il compagno maltrattante perché lo vuole è l’argomento del maltrattante stesso (e a volte anche dello psicoterapeuta cui la donna alla fine si rivolge). Se parliamo d’intenzionalità inconscia, potremmo essere tentati di affermare che, se la donna subisce, è perché con una parte di sé lo vuole, ma nemmeno quest’affermazione coglie la sostanza del problema. Come sto cercando di dimostrare, è proprio la situazione di maltrattamento a legare la donna all’uomo che la maltratta, attraverso le strategie di coping che tale situazione le impone di adottare, attraverso l’isolamento e la deformazione della realtà” (S. Filippini, 2005, 72; G. Bartolomei, S. Filippini, 2001). Osserva Benedetta Guerrini Degl’ Innocenti (2011): “La coppia è̀ una situazione esemplare in cui si ha la presenza reale, concreta dell’altro come modello, oggetto, soccorritore, nemico. Alcune di queste cose, o tutte insieme[…]. È proprio il legame che diventa il nuovo soggetto psicopatologico: un’organizzazione psicopatologica transpersonale costituita da ambiti di condivisione inconscia che, una volta entrati in risonanza e trasformati in un nuovo soggetto, sono inscindibili dall’apporto delle persone che interagiscono[…]. Il maltrattamento psicologico si radica in un contesto relazionale patologico che solo recentemente è diventato oggetto di riflessione e che, per le sue peculiari caratteristiche, sfugge alle possibilità di lettura offerte dalle concettualizzazioni tradizionali”.
Il principale intento di Sandra Filippini è stato pertanto quello di affrancare la donna maltrattata da un giudizio che la rappresenta come vittima compiacente, dove il terapeuta, e non solo, scambia gli effetti con le cause (la debolezza della vittima, la sua incapacità di reagire è la conseguenza di una prolungata situazione di abuso, non è il motivo scatenante di questa situazione).Stefania Nicasi, nel suo commento al caso clinico di A.“Lavorare con la complessa combinazione delle dinamiche paranoide e masochistica: un caso clinico” presentato da Nancy Mc Williams nella Giornata di Studio “Lo spettro della follia – diagnosi e storie cliniche” (Firenze, 17 settembre 2016), osserva, tra l’altro, quanto segue: “Sandra propendeva pertanto per una diagnosi situazionale piuttosto che disposizionale: la vittima è resa tale dalla situazione che vive e non dalla sua personalità. Pensava, viceversa, che il maltrattante, il perpetratore, avesse uno specifico profilo personologico e stile relazionale. Del resto, un’impressionante mole di studi di psicologia sociale ha ampiamente documentato l’esistenza di specifiche ‘strategie di vittimizzazione’. Sandra Filippini riconosceva che, nella maggior parte dei casi osservati, la vittima aveva una storia infantile traumatica, ma si rifiutava di disegnarne un profilo: in fondo, questo non avrebbe fatto altro che spostare indietro nel tempo la ‘colpa’ di avere subito. L’operazione compiuta da Sandra Filippini è stata salutare: era urgente e andava fatta, specie nel mondo psicoanalitico. Tuttavia credo che, se Sandra avesse potuto seguitare il suo studio, oggi sarebbe disponibile a un confronto più disteso con Nancy Mc Williams, autrice da lei molto apprezzata. Forse avrebbe potuto accettare una formulazione del tipo: il fatto che le vittime non provino piacere nel subire non significa che non ne ricavino un guadagno narcisistico e relazionale. Questo, se ho capito, è il terreno nel quale si spinge Nancy Mc Williams che non usa la diagnosi di personalità autodistruttiva come un verdetto ma come un’ipotesi guida con la quale ricostruire e comprendere la storia del formarsi di un tratto di personalità e di una modalità di stare con l’altro che possono essere modificati a caro prezzo ma con sicuro vantaggio per il paziente”.
Come si vede, il tema di un profilo di personalità specifico delle “vittime” rimane cruciale, così come il riferimento ai traumi infantili subiti, come fattori predisponenti alla creazione di una relazione perversa, nella quale svolgere il ruolo di vittima. D’altro canto, l’osservazione di un cospicuo numero di casi sembra suggerire che NON ogni donna è a rischio di diventare vittima di un “perpetratore”, anche perché alcune donne che si sono imbattute in un potenziale “perpetratore”, hanno prontamente interrotto la relazione, disgustate dalla sua personalità. Insomma, a ogni donna può accadere di incontrare questo tipo patologico, ma soltanto alcune sono esposte al rischio di entrare con lui in una relazione perversa, nella quale saranno vittime.
Forse non sarebbe uno sforzo inutile quello di tentare di tracciare i tratti principali di un profilo di personalità delle potenziali “vittime”. E tale profilo dovrebbe far riferimento, come fattore caratterizzante, al contesto affettivo in cui la vittima è stata allevata e ai probabili eventi traumatici che hanno segnato le sue relazioni primarie. In altre parole si potrebbe formulare l’ipotesi che esista un “tipo” di donna che, se avesse la sventura di imbattersi in un “perpetratore”, sarebbe più suscettibile di altre di diventarne la vittima. Donne, pertanto, certamente più a rischio, nelle quali il fallimento del compito evolutivo dell’oggetto primario è stato causa di traumatiche sofferenze non curate e la cui regia difensiva può produrre dipendenza, paura della solitudine e terrore dell’abbandono. Questa ipotesi, però, esclude che le vittime ricavino dalla relazione perversa un guadagno narcisistico e relazionale, come, invece, sembra supporre la Mc Williams. Pare, insomma, che molti psicoanalisti siano a tal punto attaccati al principio, quasi metafisico, del “vantaggio secondario” da non poter ammettere l’esistenza di una relazione in cui la vittima ricavi soltanto danni psichici (e talora anche fisici). Come se, ad ogni costo, nell’interpretare il senso degli atteggiamenti e dei comportamenti umani fosse obbligatorio rintracciare un piacere o manifesto o latente. In questo modo, tuttavia, è il concetto stesso di “vittima”, nella pienezza del suo significato, a essere rifiutato. In ogni caso, la scelta tra le due opzioni interpretative or ora accennate ha un impatto immediato e decisivo sulla possibilità e sulla modalità di un trattamento psicoterapeutico della “vittima”. La “tradizione psicoanalitica”, ma anche una certa pigrizia mentale, ci indurrebbe a mostrare alle nostre pazienti il “vantaggio” (inconscio ma potente) che traggono anche dal ruolo di vittima in una relazione perversa. Ma è una sfida, che dovremmo avere il coraggio di raccogliere, quella di immaginare, invece, in che modo prenderci cura e ‘curare’ una vittima allo stato puro (non molto dissimile da un bambino vittima di un genitore sadico), per aiutarla a sottrarsi al suo perpetratore. Proviamo a escludere che la futura vittima vada inconsciamente alla ricerca del suo aguzzino (così come lo ha descritto la Filippini), proviamo a immaginare che diventi “vittima” non per ottenere qualcosa, ma perché soffre di importanti mancanze affettive ed è carente di qualche strumento di insight e/o di comprensione empatica (cioè di comprensione immediata e intuitiva della personalità e degli intenti nascosti del suo carnefice), e vediamo se e come possiamo aiutarla a salvarsi con gli strumenti di cui disponiamo. Si capisce che una psicoterapia centrata sui “buchi” di una personalità è più difficile, meno prevedibile e meno routinaria di una psicoterapia centrata su conflitti, difese, desideri inconsci eccetera, ma può darsi che in taluni casi sia l’unica via da tentare e anche, spesso, da inventare.
Dicembre, 2016
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