Fotografia tratta da: Gottshall J. (2012), L’istinto di narrare. Come le storie ci hanno reso umani, Bollati Boringhieri, Torino 2014
A cura di Maurizio Collovà
Il concetto di personaggio in psicoanalisi
Definizione del tema; teorie e modelli di riferimento.
Gli sviluppi della psicoanalisi contemporanea hanno trovato nella narratologia e nel concetto di personaggio utili strumenti per la cura del disagio psichico. Da Bion in poi, il concetto di personaggio è inteso come il luogo della rappresentazione e trasformazione degli affetti e delle emozioni.
Definire il concetto di personaggio implica occuparsi in modo particolare della funzione svolta dal personaggio e dalle sue narrazioni nello sviluppo del processo psicoanalitico.
In una psicoanalisi post-bioniana (Civitarese, 2011), personaggio non è solo l’umano, il vivente, che appare nel racconto, ma può essere anche un nuvolone nero, una barca di salvataggio, un tacco rotto di una paziente, come pure gli stessi analista e paziente. Anche se, come afferma Ferro (2010) il personaggio umano rappresenta la parte più evoluta del campo.
Ogni personaggio che fa ingresso in seduta, ovvero nel campo, é inteso come narrante una dimensione emotiva che contribuisce a definire il clima del campo e le sue continue trasformazioni (un campo aggressivo, dormiente, paranoicizzato, ecc.) e riguarda la qualità dell’accoppiamento mentale tra A/P.
Una posizione più radicale intende oggi il personaggio come il prodotto della funzione alfa del campo e della capacità di questo di operare sequenze di trasformazioni oniriche promuovendo lo sviluppo delle funzioni per sentire, pensare e sognare.
Presupposti teorici
L’utilizzo del personaggio come concetto avente una specificità psicoanalitica ha origini più recenti rispetto agli inizi della psicoanalisi e presuppone a monte una teorizzazione sul funzionamento della mente. A questo proposito Bion (1962) ipotizza l’esistenza di un apparato per pensare dotato di funzioni che consentono di poter sognare le emozioni grezze, in gergo elementi beta, che dall’esterno e dall’interno bombardano la nostra mente e trasformarle in personaggi e narrazioni. Lo sviluppo di queste funzioni si costituisce come fattore terapeutico in psicoanalisi, (Ferro 2002).
Modello di riferimento
Il modello all’interno del quale viene utilizzato oggi il concetto di personaggio è quello di Campo con una forte accentuazione sulle sue potenzialità narratologiche e trasformative all’interno del quale i personaggi sono intesi tutti come sue funzioni. Questo presuppone che l’analista escluda dal suo vertice la dimensione Storica e Reale del personaggio, dimensione che dovrà collassare dando spazio a quella onirica. Per intenderci, in questo modello ogni persona (quel suo collega…) attraverso un processo di deconcretizzazione é trasformata in personaggio e ogni fatto (…è stato molto comprensivo con mia sorella.) é trasformato in una narrazione che attraverso processi di decostruzione ne porterà di nuove e imprevedibili, capaci di contenere diversi livelli rappresentabili come luoghi del campo, le Storie, i mondi interni, il transfert, la relazione analista/paziente, la meteorologia del campo. L’interesse dell’analista orientato a questo modello a questo punto sarà quello di conoscere il personaggio (collega) della seduta, di favorire lo sviluppo del suo racconto la dove trova ostacolo, di cogliere quali emozioni prima silenti veicola e quali informazioni ci darà sulla qualità della nostra interazione e del campo in cui analista e paziente sono immersi. Il campo assume così la funzione di una sorta di sala d’attesa per consentire da una parte la graduale e sostenibile trasformazione del personaggio attraverso ulteriori narrazioni emotivo-affettive sempre meno costose per il sé e, dall’altra, lo sviluppo delle funzioni per pensare, sentire e sognare, vero scopo dell’analisi.
Sintesi storica e sviluppi attuali
Sappiamo che la dimensione narrativa è costitutiva delle origini della psicoanalisi in quanto legate al mito di Edipo. In psicoanalisi troviamo il termine, non il concetto, personaggio già in Freud, basti ricordare Personaggi psicopatici sulla scena (1905), dove è comunque evidente la finalità metapsicologica dell’interesse per il teatro. Freud, mosso dalla ricerca di una verità ricostruttiva, assegna al Personaggio uno statuto Storico, Referenziale esterno e Simbolico. Accade quindi che il testo finzionale del teatro psicoanalitico (Petrella 2011) arrivi a trasformarsi in un fatto accertato e il personaggio in una persona reale. Ad esempio la madre respingente riattualizzatasi nel transfert diventa, dopo l’interpretazione, la madre reale incapace di aver fatto posto alle richieste affettive del bambino che il paziente era. Non c’è ancora spazio per un analista che nell’hic et nunc della seduta si è fatto convesso alle richieste del paziente, tanto meno per una ipotesi di impermeabilizzazione del campo alle identificazioni proiettive crociate tra analista e paziente che rimangono non accolte. Del resto Freud non poteva ancora avere accesso a questi sviluppi teorici.
Nel modello kleiniano il personaggio è inteso come l’esplicitazione di rapporti tra oggetti interni i cui ruoli sono però definiti a priori e fanno capo alle fantasie inconsce del paziente. Dal punto di vista dell’utilizzo del personaggio è evidente ancora l’ottica unipersonale. Il personaggio qui è lontano dal poter essere considerato una co-costruzione della coppia analista paziente che può ambire ad una sorta di vita indipendente in quel motore di trasformazioni che è il campo. Merita tuttavia di essere segnalato il contributo che la Klein ha dato allo sviluppo del concetto di personaggio attraverso l’importante lavoro del 1929 La personificazione nel gioco infantile. L’apparizione in scena della “mamma fata” è considerata in questa teorizzazione una modificazione del rapporto del paziente con il suo Super-io, inteso come il personaggio a cui la Klein guarda, nel verso di una minore persecutorietà.
Lo studio da parte di alcuni psicoanalisti italiani delle teorizzazioni e dei concetti che la Narratologia e la Semeiotica hanno sviluppato intorno al testo e al personaggio letterari ha consentito l’applicazione di questi anche al dialogo tra analista e paziente in seduta. Questo ha prodotto in buona parte, dopo la rivoluzione introdotta dal pensiero bioniano, la svolta verso una concezione del testo e dei personaggi della seduta come opera aperta (Eco1962) in continua costruzione attraverso una costante cooperazione narrativa della coppia fino ad una indistinguibilità di appartenenza del testo all’uno o all’altro.
Corrao (1987, 1991) nel suo scritto Il narrativo come categoria psicoanalitica utilizza il termine narrativo come concetto astratto che partecipa della composizione di un campo tridimensionale costituito dalle dimensioni del Fantastico (Immaginario), del Semiotico (Simbolico) e del Narrativo (Reale) riscontrando in ciò la similitudine col sogno e con altri scritti freudiani come le note Storie cliniche, attribuendo a tutte la ricchezza di una struttura narratologica. In particolare del Caso di Dora (Freud 1901) afferma trattasi di una “trasformazione narratologica” ponendo così il suo accento sul modello trasformazionale del pensiero (Bion 1965). Corrao segnala in oltre l’interesse di C. Segre (1984) alla dimensione del narrativo in psicoanalisi come esempio di un ponte disciplinare tra campo semeiotico, letterario e narratologico e letteratura psicoanalitica.
Nel 1992 Ferro nel suo primo libro dal titolo La tecnica nella psicoanalisi infantile tratta già in modo chiaro questo tema, collegandolo in modo forte ai presupposti narratologici. Diversamente da Corrao, seppure in forte consonanza, Ferro (1996) parla di “narrazioni trasformative” ponendo l’accento più sulla potenzialità che le narrazioni hanno in sé di operare trasformazioni. Bezoari e Ferro (1992, 1997) danno un ulteriore apporto all’uso del personaggio in seduta introducendo i concetti di “aggregati funzionali” e di “ologramma affettivo”. Per “aggregati funzionali” essi intendono gli elementi protosimbolici frutto dei processi trasformativi della coppia analitica, che permettono una visione condivisa di aspetti del campo emotivo non altrimenti rappresentabili; per ologramma intendono la trasformazione dell’immagine onirica in immagini tridimensionali che prendono corpo nello spazio intersoggettivo. Civitarese (2008) espande questo concetto affermando che in una realtà virtuale le immagini olografiche diventano dinamiche e integrano la quarta dimensione della temporalità.
Troviamo in Ferro (2014) la più recente definizione di personaggi intesi come funzione del campo dei quali viene fatto il casting allo scopo di narrare quanto questo ha necessità di essere espresso in quel momento e oscurando ogni corrispondenza con una realtà esterna alla seduta o storica.
Casting, Derivati Narrativi e Invariante
I concetti di Casting (Ferro 2014; Collovà 2011) e di Derivati Narrativi (Ferro 2014) sono con evidenza legati a quello di personaggio (Ferro 2010). Meno evidente potrebbe essere il legame col concetto di Invariante.
Il concetto di Invariante derivante dal modello trasformazionale di Bion (1965) assume una sua utilità nel rapporto col personaggio in quanto consente di poter identificare, attraverso il riconoscimento di un elemento costante, come il personaggio o una singola narrazione si sono trasformati nel corso di una seduta e dell’analisi.
Primo incontro con un paziente: «Un suo collega mi ha detto che di stoffa ce n’è, ma è come se fosse formata da tante isole».
Termine dell’analisi: «Ho visitato la Croazia, una marea di isole collegate da un continuo via vai tra loro e la terra ferma». Una estrema sintesi di una trasformazione democratica della mente. L’invariante presa in considerazione in questo caso è isole, assunte come aspetti di sé prima non collegati o aspetti del campo che possono adesso dialogare.
L’arruolamento dei personaggi definito per l’appunto casting si compie attraverso il dialogare inconscio delle menti dell’analista e del paziente ed è in rapporto alla loro condizione mentale di maggiore o minore permeabilità.Da questo vertice è possibile affermare che la costituzione e lo sviluppo della funzione di casting é uno degli scopi dell’analisi. Se volessimo pensare a un precursore di tale funzione potremmo pensare a ciò che Ferro, in una accezione fuori campo, ha chiamato la costituzione di un narratore interno (1996).
Il Derivato Narrativo (DN) é la risposta ad un movimento emotivo nel campo che trova una sua formula espressiva a partire da una sequenza di elementi alfa. La tipologia dei DN può essere quella ludica, grafica, verbale, motoria e somatica. Queste tipologie possono avere in oltre una variabilità tematica, ossia essere espresse attraverso un racconto d’infanzia, sessuale, filmico, del romanzo familiare ecc… . Ovviamente la voce narrante sarà quella del personaggio di turno. Un esempio potrebbe essere quello di un racconto western che può essere giocato, disegnato o espresso verbalmente. Spesso nella terapia con bambini queste diverse modalità espressive s’intrecciano pur mantenendo un loro filo narrativo. E’ il caso dello sviluppo del DN secondo un asse delle varietà tematiche che si susseguono nel corso della seduta. All’opposto può accadere che lo sviluppo del DN sia monotematico per l’intera seduta, come il passare da un racconto del romanzo familiare ad un altro.
La funzione del DN è quella di raccogliere ansie e angosce di vario genere e gravità, vissute su un piano sintomatologico, in narrazioni capaci di dare loro un contenimento. Il nostro inconscio, afferma Grotstein (2010), porta in se una tendenza innata alla ricerca di narrazioni che convertano gli eventi in entrata, sia dal mondo interno che dal mondo esterno, in esperienze personali.
La capacità di produrre personaggi e DN in quantità e varietà, si traduce dunque in una minore espressione evacuativa delle emozioni con conseguente riduzione della dimensione sintomatologica.
Bibliografia del testo
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Fotografia tratta da: Gottshall J. (2012), L’istinto di narrare. Come le storie ci hanno reso umani, Bollati Boringhieri, Torino 2014.
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Settembre 2015