Incontro con Allan Schore, Roma, 20 e 21 Ottobre 2012
Società Psicoanalitica Italiana
Centro di Psicoanalisi Romano, Centro Psicoanalitico di Roma, Istituto G. Bollea di Neuropsichiatria Infantile
Queste note sono “empaticamente” focalizzate sul testo di Allan Schore e sulla sua messa in questione, a partire dall’incontro con il punto di vista che egli propone. Le mie riflessioni muovono, almeno mi piacerebbe che fosse così, dall’ “ascolto analitico” derivato dalla lettura dei suoi libri e dallo spontaneo dispiegarsi di due linee di forza: la prima che muove dall’attivazione (arousal) di miei processi di soggettualizzazione (nel senso di qualcosa che si fa soggettuale attraverso processi), avviatisi grazie al naturale interesse e ad un certo grado di identificazione immediata con la ricchezza del suo lavoro, la seconda che si sviluppa, in après-coup, in direzione della riflessione, del ripensamento e che tende a costruire la maggiore comunicazione possibile tra due menti differenziate.
Ritengo che tutto ciò possa essere descritto, nel linguaggio di Allan Schore, come disposizione all’ascolto empatico del fluire degli stati affettivi e del pensiero dell’altro, come disposizione ad affidarsi al proprio funzionamento preconscio, per disporre appieno dell’attenzione liberamente fluttuante. Segnalo che, per Schore, ambedue questi funzionamenti sono di competenza del cervello destro. Infatti solo in seguito, anche in considerazione dei tempi della maturazione neurale, entrerebbe in funzione il cervello sinistro deputato a costruire il pensiero riflessivo e a consolidare i processi di simbolizzazione.
Nel mio intervento sviluppo questi punti:
a) Il tema del cambiamento di paradigma (paradigm shift), e cioè “dall’emisfero sinistro, esplicito, analitico, conscio e verbale all’emisfero destro implicito, emotivo, inconscio e non verbale”, muove dai concetti di attaccamento e di trauma dell’attaccamento, così come sono stati concettualizzati da Bowlby.
Mi focalizzo sull’uso del termine attaccamento e su quella che è descritta come teoria dell’attaccamento, che vorrei piuttosto ricondurre sotto l’egida del concetto freudiano di Anlehnung, reso in italiano con appoggio, che in inglese è stato per lo più tradotto con anaclisis. Tale opzione nel tradurre il termine tedesco Anlehnung potrebbe dar conto di un certo tipo di elaborazioni teoriche successive, che non potevano che prendere le mosse da questa scelta terminologica. Scelta che ritengo, in sostanza, abbia orientato la psicoanalisi di lingua inglese verso una progressiva semplificazione del pieno significato del termine tedesco Anlehnung.
In realtà sul Pepweb troviamo quale traduzione di appoggio, da parte di Strachey, anche l’espressione according to the attachment [anaclitic] type. Penso che anche questa seconda scelta di traduzione possa aver avuto il suo peso sul linguaggio successivo (primato quindi, per dirla con Schore, del cervello sinistro su quello destro). Va da sé che anche la suddetta soluzione finisca per arricchire la riflessione. Pertanto suggerisco che il termine attaccamento avrebbe fatto la sua comparsa proprio a partire dal tentativo di tradurre in inglese il termine di Freud Anlehnung (appoggio).
Tutto ciò mi porta ad ipotizzare che il concetto freudiano non solo fosse ben noto ma che costituisse persino un riferimento per Bowlby, il quale però non poteva che declinarlo e utilizzarlo secondo il diverso peso specifico che quel tipo di traduzione portava con sé. La profondità e la ricchezza insite nel concetto freudiano di Anlehnung (intuizione della possibile esistenza di un inconscio non rimosso e del pulsionale) hanno finito per ridursi fino ad essere perse di vista. D’altra parte l’apporto del pensiero di Bowlby è fondamentale nella storia e nella formazione di tutti coloro che si occupano di età evolutiva, naturalmente sensibili all’osservazione del comportamento del bambino (segnalo quanto scrive Winnicott in Sviluppo affettivo e ambiente, e precisamente in Sul contributo dell’osservazione diretta del bambino in psicoanalisi (1957): “Attraverso una costante cooperazione psicoanalisti e osservatori diretti potranno riuscire a correlare ciò che è profondo in psicoanalisi con ciò che è precoce nello sviluppo”). Sappiamo bene come l’osservazione contenga la qualità della teoria dell’osservatore.
Ricordo poi che Allan Schore è stato denominato The American Bowlby. Tale sua nominazione se può avergli fatto “piacere” per un certo periodo di tempo, ora direi che inizia a stargli stretta. Infatti, a mio modo di vedere, in realtà Schore si differenzia nettamente dai teorici dell’attaccamento, in quanto afferma il superamento della teoria dell’attaccamento proprio tracciando la teoria della regolazione degli affetti. I termini attaccamento e trauma dell’attaccamento mi sembrano superati dalla teorizzazione della regolazione affettiva, teoria, quest’ultima, che meno si presta alle reificazioni, agli automatismi e al rischio di sollecitare una visione lineare dello sviluppo.
Direi che Schore, dunque, si è “attaccato” sui concetti “impoveriti” di attaccamento e di trauma dell’attaccamento, ha virtuosamente dialogato con essi e ha finito per arricchirli, fino “quasi” a riscoprire il concetto freudiano di appoggio con tutto il suo peso specifico. In sintesi il “paradigma” non sarebbe poi così cambiato ma piuttosto “riscoperto”.
b) L’altro tema è quello del trauma che è strettamente legato a quello di attaccamento, in quanto in questo lavoro Schore parla molto di trauma dell’attaccamento, quale origine della disregolazione affettiva, esperienza che sarebbe alla base del costituirsi dei Disturbi della Personalità. Qui l’attenzione al corpo è notevolmente arricchita dalla considerazione di come “il corpo tenga il conto” del trauma, dal più eclatante al più silenzioso, dal più originario al più attuale. Tutto ciò risulta di grande rilevanza, per ogni discorso di prevenzione, in quanto tale “conto” si incarna nel corpo, orienta e condiziona tutte le acquisizioni successive e il rapporto con l’ambiente esterno e l’altro da sé.
Propongo quindi che anche in questo caso la questione non stia nel fatto di pensare il paziente “attaccato” ai suoi traumi, siano essi originari/arcaici, infantili, adolescenziali o di adulto e costretto alla ripetizione ma piuttosto nell’esistenza di impedimenti originari/arcaici alla riscoperta, in après-coup, di quel conto che non può che far sentire la sua presenza, ogni volta anche attraverso qualche differenza, in aggiunta. Come dire, nel linguaggio economico, che quel conto naturalmente “matura qualche interesse” con il passare del tempo.
c) Il terzo tema riguarda la centralità del concetto di preconscio, topica psichica che mi sembra essere essenziale nel lavoro analitico, per lo psicoanalista e per il paziente. Il preconscio ben funzionante è alla base dell’intuizione dell’analista e della sua autenticità nella comunicazione affettiva implicita. La competenza dell’analista, aspetto ampiamente trattato da Allan Schore, a mio avviso, non può che esprimere il buon funzionamento del preconscio. Quali allora le forme di manutenzione del buon funzionamento preconscio dell’analista, delle sue “funzioni cognitive superiori” implicate nella produzione creativa di idee? Quali sul versante del paziente i segnali del progressivo buon uso del suo funzionamento preconscio?
È qui in primo piano la formazione dell’analista e la necessità per lui di attingere a variegate fonti e adeguati referenti per mantenere viva la sua curiosità e quella del paziente. Su questi aspetti, oggi particolarmente dibattuti all’interno della psicoanalisi, vorrei sollecitare il punto di vista di Allan Schore, con l’intento di “farlo lavorare” a partire dai suoi studi e dalla sua vastissima conoscenza della letteratura psicoanalitica. Come già segnalato da Allan Schore, nella bella conversazione con Roberto Speziale-Bagliacca (2003; 2008), il preconscio sarebbe “il livello più sofisticato del Sé implicito localizzato nelle aree prefrontali orbitali del cervello destro” (p. 379).
d) Infine la questione della temporalità va posta sia per quanto riguarda la “maturazione” del cervello che a proposito dei momenti fondamentali dello sviluppo, l’infanzia e l’adolescenza. Nuove esperienze sensoriali, nuove connessioni neurali, nuovi apporti da parte dell’ambiente esterno facilitante e da parte di possibili “referenti adeguati” tra i quali lo psicoanalista sono in gioco.
Un punto di criticità è rappresentato da una lettura, da parte di Allan Schore, talvolta “riduzionistica” della ricchezza del pensiero psicoanalitico e della sua natura, direi della sua fisiologia, che è quella della “riscoperta della psicoanalisi” che ora è più ampiamente teorizzata, senza dubbio almeno negli ultimi venti anni, anche grazie, come ho sottolineato, agli apporti della psicoanalisi del bambino e soprattutto della psicoanalisi dell’adolescente. È inevitabile chiedersi, allora, con chi abbia “dovuto” e potuto soprattutto dialogare Schore, per aver sentito o essere incappato nella necessità di sintetizzare così, in queste forme e di tanto in tanto, il pensiero psicoanalitico (in sintesi manca, ad esempio, il “far lavorare Freud”, manca Bion, manca la questione dell’arcaico).
Tutto ciò nulla toglie, anzi forse finisce per essere un suo merito aggiuntivo, il risultato che egli ci offre; “leggendolo creativamente” (Ogden, 2012), è possibile sentire il fluire del suo libero funzionamento preconscio.
Rimando infine coloro che siano interessati ad alcune mie riflessioni in tema di neuroscienze al testo scritto con il collega Lauro Quadrana, Neuroscienze e mente adolescente (2010) e alle note che su di esso, proposte da Amedeo Falci sulla Rivista di Psicoanalisi (2012).
Bibliografia
Falci A. (2012, Una prospettiva delle neuroscienze sui mutamenti adolescenziali. Rivista di Psicoanalisi, LVIII, 2, 519-526.
Monniello G., Quadrana L. (2010), Neuroscienze e mente adolescente. Roma: MaGi editore.
Ogden T.H. (2009), Riscoprire la psicoanalisi. Milano: CIS Editore.
Ogden T.H. (2012), Il leggere creativo. Milano: CIS Editore.
Speziale-Bagliacca R. (2010), Come vi stavo dicendo. Roma: Casa Editrice Astrolabio.