Mauro Mancia
A cura di Pablo Zuglian
Maestri della Psicoanalisi
“Una leggerezza che non è mai un dono ma un traguardo”
Mancia Mauro (Fiuminata [MC], 1929 – Milano, 2007)
Mauro Mancia, considerato uno dei padri delle neuroscienze in Italia, è stato allievo di Musatti e Fornari e ha effettuato la sua analisi con Senise. Ha dedicato la vita a due discipline, neuroscienze e psicoanalisi, che sembravano allora due parallele destinate a non incontrarsi e che oggi, anche grazie ai suoi studi, stanno iniziando a dialogare in un modo sempre più proficuo. In un’intervista ancora inedita, in cui si raccontava ad una giovane laureanda interessata al sogno e ai suoi studi, spiegava che “la mente è un epifenomeno complesso che epistemologicamente si differenzia dal cervello, ma che ontologicamente è legato al cervello e alle funzioni cerebrali” e sosteneva chiaramente che “la mente non può che essere il risultato di operazioni del cervello” (Senaldi, a.a.2006-2007,) Convinto che le due scienze fossero indispensabili per la conoscenza della mente umana, si è occupato a lungo, in entrambi gli ambiti, di memoria e di sogno, considerandoli come ponti tra le due discipline e verso la conoscenza dell’uomo. Un discorso scientifico, quindi, sempre sviluppato lungo queste due direttrici di fondo, con la forte convinzione, e la determinazione che ne derivava, che avessero un rapporto stretto tra di loro, che l’oggetto dell’una fosse, con tutta probabilità, una proprietà emergente di quello dell’altra.
Il ricordo di Mancia come docente e come maestro, con la sua inesauribile curiosità e la sua forte passione per la
scoperta e l’integrazione dei saperi, è ancora molto vivo nella comunità psicoanalitica. Un ricordo più privato e personale, essenziale per comprenderne l’estrema duttilità e versatilità di scienziato e di analista, riguarda la sua “leggerezza”, vissuta come il frutto di un costante lavorìo affettivo-cognitivo da svolgere quotidianamente. “Una leggerezza che non è mai un dono ma un traguardo”, che ci rimanda alla possibilità di vedere le cose da vertici osservativi differenti, magari proprio a ponte tra due saperi diversi, o di vivere la propria vita all’interno di vari ruoli (padre, professore, psicoanalista, neuroscienziato ..), potendosi spostare facilmente tra l’uno e l’altro. Complementare alla leggerezza, così nella scienza come nella vita, era una forte tendenza ai legami, per cui i suoi collaboratori e colleghi erano, e si vivevano, come parte di una famiglia.
La vita
Mancia nasce a Fiuminata, nelle Marche, un piccolo borgo appenninico di circa quattromila abitanti posto dietro alle colline che scendono verso il mare, cui rimarrà sempre profondamente legato.
Si laurea alla Sapienza di Roma in Medicina e Chirurgia con il massimo dei voti. Durante i primi anni dopo la laurea viaggia molto, ricercando assiduamente validi maestri con cui formarsi e perfezionarsi nello studio della neurologia e della neurofisiologia. Trascorre un periodo presso il Karolinska Institutct di Stoccolma, dove si occupa di studiare le funzioni del midollo spinale con Torsten Wiesel, e nella seconda metà degli anni ’50 inizia il suo training con Moruzzi in Neurofisiologia all’Università di Pisa. Moruzzi è uno dei più importanti ricercatori internazionali nello studio dell’attività elettroencefalografica e del sonno. Nei primi anni ’60, dopo un periodo passato alla University of California – Los Angeles (dove in quegli anni lavorava Greenson), si trasferisce all’Università Statale di Milano, dove può aprire un suo Laboratorio di Neurofisiologia. Qui, con il suo gruppo di ricerca, Mancia si dedica allo studio della funzione del sonno e del sogno, dal correlato neurofisiologico fino alle valutazioni dello stato di coscienza, conduce studi di neuroanatomia delle strutture cerebrali coinvolte nel controllo del sonno (principalmente al livello del proencefalo basale/ipotalamo anteriore), di neurochimica del sonno (ruolo dei sistemi serotoninergici e colinergici nel controllo del sonno) e neuroimmunologia (interazione tra le citochine e i classici neurotrasmettitori).
Nel 1966 sposa la dr.ssa Alessandra Piontelli e nel 1968 nasce il suo unico figlio, Filippo, attualmente docente di Fisiologia e Biofisica cellulare alla Columbia University di New York. Verso la metà degli anni ’70 si separa da sua moglie senza risposarsi in seguito.
Mancia diviene professore ordinario (poi emerito) di Fisiologia Umana all’Università degli Studi di Milano, dove ha diretto l’Istituto di Fisiologia Umana II dal 1983 al 2001. E’ stato presidente dell’ASSORN (Associazione per la Ricerca Neurofisiologica), presidente della SIRS (Società Italiana di Ricerca sul Sonno), di cui nel 1996 è uno dei fondatori, e fonda il Centro Sperimentale di Ricerca sul Sonno “G. Moruzzi”, che dirige per alcuni anni.
Nel 2003, in occasione del cinquantesimo anniversario della scoperta del sonno REM, riceve il premio come Significant Early Contributor alla fondazione della scienza sul sonno.
Così lo ricorda il neurofisiologo McGinty: “Ha dato alla Neurofisiologia del sonno una spinta mostrando le interazioni tra tronco encefalico, talamo e area preottica” (Imeri, 2007).
In questo modo il neurofisiologo Imeri, suo allievo, ne indica le qualità: “Mi sembra che il tratto più caratteristico e importante della figura scientifica di Mancia consista nel suo essere stato un neurofisiologo ed uno psicoanalista che ha praticato entrambe le discipline di prima mano. Mancia, l’attività dei neuroni cerebrali non solo l’ha studiata, ma l’ha registrata direttamente in laboratorio. E, insieme, per anni ha visto pazienti e supervisionato colleghi. Mi sento di dire che non credo siano in molti, non solo a livello italiano, ma internazionale, ad avere (o avere avuto) un percorso professionale così peculiare, che ha fornito a Mancia un punto d’osservazione speciale e prezioso sulla relazione mente-corpo” (Imeri, 2007).
Dal racconto di quegli anni, sembra che Mancia abbia sempre desiderato unire all’attività del ricercatore di laboratorio quella del medico clinico, nutrendo una profonda passione per la conoscenza dell’uomo e delle cause (e quindi possibilità di cura) della sua sofferenza mentale. Prima di avvicinarsi alla psicoanalisi, si era infatti avvicinato alla psichiatria clinica, per poi discostarsene in tempi piuttosto brevi, dopo una non felice frequentazione del reparto di Psichiatria del Policlinico di Milano (allora diretta dal padre della psichiatra italiana, il prof. Aldo Cazzullo).
L’interesse clinico-antropologico per la condizione umana colta nella sua dimensione soggettiva, che coltiva parallelamente alla sua attività di ricercatore, lo porta ad un avvicinamento fecondo con la psicoanalisi. Negli anni settanta fa la sua analisi personale con Senise e si forma come analista con Fornari a Milano e Meltzer a Londra. Nella metà degli anni ’90 assume la qualifica di analista con funzioni di training.
La passione di Mancia per la conoscenza lo conduce anche su strade meno battute, dalla musica e musicalità in psicoanalisi al rapporto con la filosofia. Queste strade sono però inestricabilmente collegate con la ricerca e con la clinica psicoanalitica. La passione per la musica gli ha permesso di cogliere appieno l’importanza della musicalità nella relazione madre-bambino e nella seduta analitica, parlando di dimensione musicale del transfert come ulteriore strumento in grado di aiutare l’analista nel processo di ricostruzione emotiva delle prime esperienze precoci del bambino.
Una sua caratteristica spesso citata era la passionalità che metteva in ciò di cui si occupava. Questa l’ha portato ad occuparsi anche di politica e di religione, portando avanti una sua vivace spinta integrativa al collegamento. Da uomo profondamente di sinistra sentiva la necessità di collegare i bisogni individuali con quelli gruppali e sociali e, rispetto alla religione, da uomo ateo nutriva un atteggiamento di interesse e di rispetto verso la fede altrui, che lo portava spesso ad atteggiamenti di confronto e, a volte, di scontro.
Il contributo alla psicoanalisi
Per Mancia le evidenze sperimentali di derivazione neurofisiologica ed embriologica mostrano come alcune attività mentali (in particolare l’alternanza tra fasi REM e non REM di sonno) siano presenti già prima della nascita. In particolare la presenza di uno stato di sonno attivo prolungato (equivalente del sonno REM) nel feto può essere pensato come una rete organizzante le primitive esperienze mentali, esperienze che si potrebbero definire proto-oniriche. Quest’attività primitiva consiste nel leggere o decodificare i messaggi ritmici provenienti dall’ambiente materno portando allo sviluppo di un nucleo primitivo di attività mentale il cui compito è quello di trasformare, durante il sonno attivo, gli oggetti esterni, le esperienze, in oggetti interni, le rappresentazioni.
Mancia arriva a studiare il sogno partendo dalla sua esperienza nella neurofisiologia del sonno e rifacendosi alle definizioni di Meltzer del modello del sogno kleiniano come teologico e di quello bioniano come epistemologico (1987, 1988). Mancia mette in risalto la necessità del sogno, in quanto la mente ha bisogno di questo tipo di conoscenza per il suo sviluppo. Il sogno diventa quindi una religione della mente, qualcosa che svolge una funzione organizzatrice del mondo interno al fine di rappresentarne, alla stregua di una religione per una società, gli aspetti sacri (identificati dagli oggetti interni che assumono un significato teologico nello sviluppo dell’individuo).
Un altro tema di cui si è occupato a più riprese è il narcisismo (1976, 1990, 2004a, 2010) osservandolo, come gli era congeniale, da più punti di vista, teorico, clinico e sociale, per provare ad identificare un aspetto che collegasse queste differenti dimensioni. Nei vari lavori ha sempre attentamente studiato il pensiero dei differenti autori che se ne erano occupati prima di lui, fornendo anche una ricca bibliografia e un abbondante materiale di studio per chi si accingeva ad occuparsi dell’argomento.
Egli ci dice che “il narcisismo come struttura della personalità va visto in questo contesto relazionale ed evolutivo”. “Un’organizzazione dominata da oggetti interni autarchici, protesici e sostitutivi, di oggetti familiari sentiti come inaffidabili, assenti, impotenti”. Più avanti aggiunge che “queste modalità interessano in una certa misura tutti gli individui che vivono in società come le nostre, altamente competitive e costantemente minacciate dalla depressione” (2010). Riprendendo la Generali, e soprattutto Rosenfeld e Joseph, intende mostrarci dal punto di vista clinico come il meccanismo del furto in analisi sia un aspetto tipico della struttura narcisistica, in grado di assolvere al compito di potersi difendere da aspetti come dipendenza, separazione, ma anche odio, invidia e ambivalenza vissuti molto dolorosamente. In particolare su questo argomento sembra che Mancia tenesse particolarmente alla sua vocazione integrativa sia tra saperi diversi sia tra varie teorie dentro lo stesso sapere, (Freud, Klein, Bion, Kohut, Kernberg, Generali, Grunberger, per rimanere nel tema del narcisismo).
Questa spinta integrativa ha permesso a Mancia di riflettere sulla psicoanalisi partendo dalla scoperta da parte delle neuroscienze dell’esistenza di due sistemi della memoria:
▪ La memoria esplicita: a lungo termine, dichiarativa, autobiografica, relativa alla propria identità e storia personale, e che permette il ricordo.
▪ La memoria implicita: che invece non è passibile di ricordo e non è verbalizzabile.
Da qui si sviluppa l’ipotesi che le tutte esperienze infantili dei primi due anni di vita, prima dello sviluppo del linguaggio, siano depositate nella memoria implicita e che in questo sistema di memoria siano contenute le esperienze più arcaiche, anche traumatiche, relative alle prime relazioni del bambino con la madre.
Svolgendo tale ipotesi egli sviluppa il concetto di inconscio non rimosso. Questo permette la costruzione di un ponte tra le due discipline sul quale far transitare aspetti centrali nella clinica psicoanalitica come transfert e costruzione-ricostruzione delle fantasie ed esperienze infantili precoci.
È possibile mettere in relazione la memoria implicita con un’organizzazione inconscia, cosiddetta “non rimossa”, in quanto la rimozione necessita dell’integrità delle strutture neurofisiologiche (ippocampo, corteccia temporale e orbito-frontale) e della maturazione delle stesse, indispensabili per la memoria esplicita. La rimozione è pertanto collegata espressamente alla memoria esplicita, ma siccome tale memoria non è matura nel bambino prima dei due anni di vita, tutto ciò che avviene prima entra nella memoria implicita e si deposita in una forma d’inconscio che non può essere rimossa. Evidenzia in diversi scritti come le aree deputate alla memoria implicita siano invece già formate nell’infante permettendo appunto il deposito di queste tracce mnestiche in strutture non rievocabili verbalmente e coscientemente.
Le tracce mnestiche depositate nella memoria implicita e nell’inconscio, che non può essere rimosso, costituiscono il marchio, la struttura portante, il carattere e la personalità dell’individuo, e continueranno a condizionare la vita affettiva, emotiva, cognitiva per sempre. L’inconscio non rimosso deriva da prime esperienze infantili che non possono essere ricordate. Nella clinica l’inconscio dinamico si manifesta nel transfert attraverso la dimensione semantica della narrazione, mentre l’inconscio non rimosso si manifesta attraverso la musicalità del transfert e attraverso le funzioni simboliche del sogno.
Queste osservazioni permettono un ampliamento del concetto di inconscio, ridimensionando l’aspetto legato alla rimozione a favore di esperienze non rimosse. L’inconscio è considerato come una funzione della mente indispensabile per conoscere anche la coscienza e per poter comprendere i comportamenti, i sentimenti e le sensazioni dell’individuo. In questo senso, i risultati delle ricerche neuroscientifiche aiutano a conoscere le strutture o a comprendere maggiormente come si organizza la memoria, sia implicita che esplicita, offrendo una misura di come si organizza l’inconscio.
Una questione di particolare interesse affrontata da Mancia è il rapporto tra il concetto di non conscio o non consapevole (unaware) delle Neuroscienze e quello di inconscio (unconscious) della psicoanalisi. Definire chiaramente i due concetti evita confusioni semantiche ed epistemologiche, infatti la non consapevolezza trattata dalle Neuroscienze riguarda eventi esterni al proprio Sé (neglect, prosopoagnosia, anosognosia ecc), in quanto non radicati nella storia affettiva ed emotiva del soggetto né nella sua memoria esplicita o implicita, mentre sono proprio questi ultimi aspetti che riguardano essenzialmente il concetto di inconscio della Psicoanalisi.
Memoria affettiva ed emozionale, viste da Mancia come dimensioni della memoria implicita, implicano la presenza di un nucleo inconscio del sé, un inconscio non rimosso, completamente differente dal “classico” inconscio dinamico rimosso freudiano. L’inconscio non rimosso non è il risultato della rimozione e contiene esperienze presimboliche che non possono essere rievocate ed espresse in parole, in quanto la loro dimensione è “semplicemente” non verbale. Queste memorie influenzano enormemente la nostra vita ed emergono non nella comunicazione verbale, simbolizzata, bensì in quella non verbale, negli agiti transferali (o forse potremmo dire nei pattern transferali-controtransferali) e nel sogno, che attraverso la sua finzione simbolo-poietica permette una trasformazione di questi aspetti preverbali e presimbolici in esperienze dicibili e, quindi, accessibili alla coscienza.
Il sogno ha la capacità simbolo-poietica di trasformare esperienze all’origine pre-simboliche in contenuti verbalizzabili, e l’analisi dei sogni può favorire questo processo ricostruttivo, offrendo immagini pittografiche ed emozioni che permettono di simbolizzare, mentalizzare e quindi rendere pensabile ciò che il bambino non poteva pensare. Mancia tiene molto a sottolineare la tecnica ricostruttiva che nasce da queste sue considerazioni teoriche. Ricostruttiva in senso nuovo, in quanto non serve a rendere conscio l’inconscio dinamicamente rimosso, ma a rendere rappresentabile e dicibile quell’inconscio non rimosso che si esprime in acting-out, agiti al di fuori del setting analitico e nella comunicazione paraverbale ed infraverbale. Definisce questa posizione come essenzialmente “ricostruttiva”, in quanto fondata non tanto sul recupero del passato storico del soggetto ma su quello della sua storia emotiva a partire dall’hic et nunc della seduta e, quindi, su un processo essenzialmente costruttivo basato sul transfert e sul sogno.
Per Mancia, che riprendendo Betty Jospeph (1985) parla di situazione transferale totale, esistono due aspetti semantici del linguaggio, da un lato il contenuto della narrazione e dall’altro la forma della comunicazione, cioè tono, timbro, volume e ritmo della voce, sintassi, tempo e prosodia del linguaggio. Il transfert è visto in una dimensione relazionale totale. La musica è quindi un linguaggio sui generis nel quale la struttura simbolica è isomorfica al mondo emozionale ed affettivo.
La memoria implicita contiene artificialmente al suo interno tre dimensioni, distinte in: priming, che rappresenta l’abilità di un individuo di scegliere un oggetto una volta che vi sia già stato esposto preliminarmente; memoria procedurale, che rappresenta esperienze cognitive e sensomotorie legate ai movimenti (dall’uso della bicicletta al suonare il violino); memoria emotiva ed affettiva, che riguarda le esperienze emotive così come le fantasie e le difese collegate alle prime relazioni del bambino con il suo ambiente. Con “prime relazioni” si intende il periodo che va dall’ultimo trimestre di gravidanza fino ai due anni di vita circa.
Mancia chiarisce che la sua prospettiva differisce da quella del Boston Group, in quanto, ai fini del processo terapeutico, non è sufficiente un’esperienza emozionale correttiva, ma l’inconscio non rimosso dell’infanzia necessita di una “ricostruzione”, ossia di una interpretazione, di una possibilità di rappresentazione e di una “storicizzazione” (2003). Ovviamente, egli specifica che non può essere ricordato, ma ri-esperito, rivissuto, agito nella relazione interpersonale. Può essere rappresentato nel sogno, il teatro per eccellenza della memoria, che apre così al transfert.
La voce materna rappresenta una sorta di imprinting, perché attraverso la voce il bambino riconosce il carattere della madre, gli aspetti affettivo-emozionali del suo modo di porsi. Il bambino risulta, già in epoca molto precoce, sensibile all’intonazione e alla musicalità della voce materna, che rappresenta la radice su cui si fonda la sua prima e fondamentale esperienza relazione e affettiva. “Io ho definito tutto questo come la dimensione musicale del transfert, che costringe l’analista a sviluppare una particolare forma di rêverie, cioè quella che può essere definita una rêverie acustica. L’analista non è più soltanto colui che deve decodificare una narrazione, trasformandola nel suo equivalente metaforico, ma è anche colui che deve poter usare l’aspetto infraverbale e musicale della comunicazione. Tutto questo per potere risalire alle primissime esperienze oggettuali infantili del paziente, e quindi ricondurre a quelle emozioni che la voce materna ha veicolato in lui e che si ricollegano alla voce stessa dell’analista e alla sua intonazione, al suo ritmo e al suo volume quando offre un’interpretazione”. Prosegue chiarendoci che “l’analogia della relazione madre-bambino, si ripropone all’interno della relazione analitica […] E poiché queste esperienze precoci riguardano proprio la memoria implicita (poiché hanno a che fare con i primi mesi di vita) la mia ipotesi è che attraverso l’analisi della comunicazione del paziente e anche dei suoi sogni, si possa risalire a esperienze emozionali, anche traumatiche, molto precoci. L’analista potrà così utilizzare questo materiale per operare una ricostruzione delle esperienze emozionali del paziente” (Senaldi, a.a. 2006-2007).
La voce assume, in maniera complementare, un determinato valore come esperienza di sé e, nello stesso tempo, come espressione di sé nella relazione psicoanalitica.
La passione per la psicoanalisi e il desiderio di conoscenza spingono Mancia a occuparsi del rapporto Wittgenstein-Freud, quindi del problema dello statuto epistemologico della psicoanalisi (2002, 2003)
Mancia sostiene che vi sia “tra Wittgenstein e Freud […] una forte opposizione. Tuttavia alcune obiezioni che Wittgenstein fa a Freud sono ancora quelle che, a distanza di cento anni dalla scoperta dell’inconscio, facciamo in parte anche noi. Ad esempio l’obiezione che il sogno sia sempre una soddisfazione allucinatoria di un desiderio, oppure la distinzione che non sempre in Freud è chiara tra cause e ragioni. C’è anche da ricordare che la personalità di Wittgenstein era molto disturbata e pertanto alcune delle sue obiezioni alla psicoanalisi sono più dettate da una sua difficoltà psicologica che non da una reale profonda valutazione del metodo psicoanalitico che peraltro conosceva solo in parte. Nonostante le differenze, credo tuttavia che il confronto filosofico e psicoanalitico tra Freud e Wittgenstein sia estremamente utile e arricchente la stessa teoria psicoanalitica della mente” (2002).
Da psicoanalista e scienziato, Mancia ha fortemente a cuore il futuro della psicoanalisi. Sembra, come sempre, un precorritore dei tempi quando afferma che “Da quando è nata, la psicoanalisi è sempre stata criticata e attaccata. Una delle ragioni l’aveva già espressa Freud nel dire che l’umanità non ama troppo conoscere se stessa ed attacca dunque qualsiasi metodo che permette tale conoscenza. A questo si aggiunge la religione, che si sente spodestata e che teme di perdere il potere sulle coscienze. Attualmente i più ‘pericolosi alleati’ della psicoanalisi sono i cognitivisti e quei neuroscienziati che non credono nel metodo analitico. Essendo alleati delle neuroscienze, più che non gli psicoanalisti, i cognitivisti si vantano di una maggiore “scientificità” della loro disciplina”.
Per Mancia, la causa maggiore della crisi della psicoanalisi sta forse proprio nella sua artificiale chiusura al mondo delle scienze e in particolare delle neuroscienze. L’autoreferenzialità ha comportato un girare intorno agli stessi temi e concetti, spesso non definiti adeguatamente, ed ha finito dunque per inaridire la stessa disciplina. Molti giovani analisti ripetono le formule prese in prestito da analisti più anziani senza pensare con le loro teste e senza elaborare le loro esperienze direttamente. Questa è una delle cause principali della crisi della psicoanalisi.
L’’opportunità di avviare un dialogo fra psicoanalisi e neuroscienze non si fonda tanto sulla ricerca di una conferma della prima nelle seconde, quanto piuttosto sull’apertura di nuovi orizzonti teorico-clinici e nuove prospettive di ricerca in entrambi gli ambiti. Egli riteneva che solo in questo modo la psicoanalisi potesse continuare a rimanere una disciplina radicata nella nostra società.
Vorrei ringraziare la dr.ssa Alessandra Piontelli, il dr. Filippo Mancia e la sig.ra Laura Matteini per i preziosi racconti e suggerimenti, la dr.ssa Senaldi per la sua intervista al prof. Mancia e il dr. Mattana per il generoso aiuto nella stesura di questo testo.
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