La Ricerca

“Il problema femminile è sempre stato un problema dell’uomo” di A. Falci

7/03/25
Bozza automatica 81

Parole chiave: Aggressività, cure parentali, femminile, maschile, materno, natura/cultura, paterno, preoccupazione materna primaria, sessualità.

La sessione dedicata a Psicoanalisi e Neuroscienze ospiterà interventi finalizzati al dialogo con le neuroscienze, con le neuroscienze affettive, con le scienze della mente, attraverso aggiornamenti, interviste, dibattiti, revisioni sistematiche di argomenti convergenti, e con collegamenti tematici alle altre sezioni di SPIWEB. Tutti gli psicoanalisti interessati sono invitati a partecipare inviando interventi, segnalazioni, richieste, commenti.    

Amedeo Falci (aafalci@gmail.com)

                                        

Amedeo Falci

“Il problema femminile è sempre stato un problema dell’uomo”

Una citazione di Simone de Beauvoir, tratta da Il secondo sesso, sembra la più adatta per introdurre una delle questioni più problematiche della storia umana. La questione maschile.

Come nella tettonica a zolle, con la deriva delle placche continentali, i generi si stanno spostando, stanno scivolando l’uno verso l’altro, vanno cambiando, confluendo, acquisendo fluidamente ruoli, funzioni, caratterizzazioni simboliche che prima erano collocate e segregate separatamente. Certo, non mi riferisco ai generi in senso biologico-anatomico. Ma al fatto che i ‘maschi’ stanno cambiando. Accentuando un tratto molto più presente nella cultura maschile occidentale dell’ultimo secolo: padri che giocano con i figli.  Certo il gioco è collaterale alle cure continuative primarie che rimangono in gran parte femminili. Ma si vedono sempre più padri attenti che accudiscono i bambini in carrozzella, che li portano in braccio, che sanno cambiare i pannolini, che si svegliano di notte per accudirli, che li nutriscono, che li accompagnano a scuola. Non è una discussione di costume quella che intendo fare. Ma una discussione evolutiva e neurobiologica, che riguarda quella questione dell’entanglement natura/cultura che incalza la psicoanalisi e che merita un’aggiornata attenzione.

Gli ‘uomini’ naturaliter non hanno quella complessa organizzazione biologico-ormonale che permette alle ‘donne’ di prepararsi alla gravidanza, e di essere sensibili all’attenzione, all’interazione, e alla cura dei loro bambini. Tuttavia non tutto è iscrizione biologica. In alcuni studi in gruppi di donne in attesa, è stato osservato come in gravidanza non esista una correlazione tra gli ormoni materni e lo sviluppo di legami emozionali verso il feto. Mentre nel post-partum tale correlazione è evidente. I cambiamenti nell’attitudine materna durante la gravidanza possono dunque essere spiegati dai cambiamenti nel funzionamento emozionale e cognitivo, più che dalle trasformazioni ormonali. Ed in effetti è stato riscontrato un aumento dei sentimenti positivi materni verso il feto durante il secondo trimestre della gravidanza, quando le madri iniziano a percepire i primi movimenti fetali (Fleming et al., 1997, in Ammaniti, Gallese, 2014). Questi dati sottolineano una differenza tra la crescita della responsività materna negli esseri umani rispetto a quella di altri animali, che appare invece fortemente condizionata dalla componente ormonale (Corter, Fleming, 1995, in Ammaniti, Gallese, 2014).   

Ciò non può non richiamare l’instaurarsi di quella “preoccupazione materna primaria” descritta da Winnicott (1956), quell’attivazione, preparata sin dalla gravidanza, di una spiccata sensibilità verso il bambino, dalla nascita fino ai primi mesi, quell’ansia di leggerne in tempo i segnali, così intensa da rasentare un’ossessione, ma organizzatore così decisivo per la regolazione delle abilità materne e per la sintonizzazione con i bisogni del bambino.

Per confermare empiricamente il concetto di “preoccupazione materna primaria”, sono stati esplorati gli stati mentali genitoriali e le preoccupazioni rispetto al bambino, il suo accudimento, la costruzione della relazione, i pensieri intrusivi, l’evitamento dei comportamenti che potrebbero nuocergli, e la quantità di tempo assorbita da queste preoccupazioni (Leckman, Mayes, 1999, in Ammaniti, Gallese, 2014). Il rilievo di alti livelli di preoccupazione, con un picco a due o tre settimane dalla nascita, era presente nel 95% delle madri, ma anche nell’80% dei padri! I pensieri positivi di reciprocità e unità con il figlio erano rilevabili nel 73% delle madri, ma anche nel 66% dei padri!

In realtà, appunto, l’ingranamento natura/cultura è molto più complesso di quanto se ne possa pensare. Sappiamo che l’ossitocina è un peptide che contribuisce alla sensazione di sicurezza, benessere e vicinanza tra i partner in una relazione affettivamente intima. Quello che è interessante è che i livelli di ossitocina aumentino anche negli uomini quando impegnati in contatti sentimentali, amorosi, sessuali, favorendo ed incrementando il senso di intimità tra partner. L’incremento dell’ossitocina materna dopo il parto, correlato con il contatto fisico affettuoso con il neonato, si eleva molto più intensamente nelle madri che nei padri, se testato non solo durante l’accudimento, ma anche quando esse/essi guardano video in cui interagiscono con i propri figli. Però è degno di interesse che, nel giro di sei mesi dalla nascita, i livelli di ossitocina aumentino nei padri fino a raggiungere livelli quasi uguali a quelli della madre (Abraham e Feldman 2017), soprattutto in coincidenza dei loro momenti di gioco con i figli.

Bene. Ma che cosa succede nei padri che si occupano dei loro figli senza la presenza di madri?  Studiando famiglie omogenitoriali maschili, dove uno degli uomini era il padre biologico e l’altro quello adottante, gli stessi autori hanno trovato che la responsabilità di cura primaria era condivisa da entrambi, con nessuna significativa differenza tra le due paternità. Ma a rendere le osservazioni più interessanti era il fatto che quando genitori e bambini erano in ambienti più familiari, emergesse quanto i padri fossero sensibili ai segnali lanciati dai piccoli, reagendo e modulando la voce in risposta alle reazioni dei figli usando quell’acuto e ritmato ‘maternese’[1] caratteristico delle donne che parlano ai bambini piccoli. Questo ha aiutato a valutare quanto le risposte dei padri fossero non solo in sintonia con quelle dei propri figli a livello biologico ed emozionale, ma anche quanto gli uomini attingessero ad una competenza innata neurobiologica non diversa da quella delle madri. Una competenza, se ne deve dedurre, che appare, prima di tutto modalità emergente della mente umana, prima ancora che ‘femminile’ o ‘maschile’!

Successivamente, analizzando le reazioni cerebrali (Abraham et al. 2014; Feldman, Braun, Champagne, 2019), si è visto come nel caso degli uomini che rivestivano il ruolo di figura di cura secondaria, sia in contesti familiari tradizionali che in coppie omogenitoriali, si accendessero le reti  per la discriminazione sociale e per la capacità decisionale, quelle reti neuronali non legate all’accudimento diretto, ma che registrano i segnali lanciati dal bambino e dall’ambiente sociale, permettendo alla figura di cura di elaborare cognitivamente come reagire in modo appropriato e di decidere cosa fare

Ma, sorprendentemente, sempre nel caso di coppie omogenitoriali (Abraham, 2016) nei padri con compiti di cura continuativa primaria, quando la sicurezza e il benessere dei bambini diventavano la principale preoccupazione, si accendevano cerebralmente le reti di elaborazione delle emozioni, tra cui l’amigdala e l’ipotalamo, le stesse reti che per 200 milioni di anni hanno aiutato le madri mammifero, sempre all’erta, a tenere i loro piccoli al sicuro (Hrdy, 2024).

Dobbiamo dedurne che forse che il ‘maschile’ si possa ‘femminilizzare’? Evidentemente non è questo il punto. I termini sono altamente fuorvianti per le pregiudizievoli stratificazioni culturali e simboliche sui concetti di ‘maschile’ e ‘femminile’. Rispetto alle evidenze sopradescritte, allora, la c.d. ‘femminilizzazione’ nelle capacità di cura dei bambini da parte dei ‘maschi’ sarebbe un guadagno o una perdita rispetto al ‘maschile’? Se mettiamo in campo questi stereotipi, allora dovremmo pensare che il ‘femminile’ si mascolinizzi se non da la priorità assoluta alla famiglia e ai figli, se è interessato alla propria autovalorizzazione intellettuale, se acquisisce competenze specifiche, se persegue il successo economico e mete di visibilità e responsabilità sociale?

Perché non accettare invece che le nostre strutture neurobiologiche siano plastiche ed adattive, e che la comune attitudine alla CURA (Panksepp, Biven, 2012) e all’accudimento testimoni di una matrice unificata tra ‘maschi’ e ‘femmine’ proprio riguardo alla potenzialità di apprensività primaria e di cure continuative sensibili verso i piccoli?

È proprio la cooperazione di padri e madri nei sistemi di cura verso i bambini, da qualche centinaio di migliaia di anni, resasi necessaria per il lungo periodo di inermità e dipendenza infantile e per la grande complessità dello sviluppo psichico e sociale umano, che ha permesso il disinnesco dell’aggressività maschile intraspecie: i combattimenti contro i rivali, la competizione per la femmina, la difesa del territorio, il predominio sul gruppo, e, in molti mammiferi fino ai gorilla, l’assoluto possesso sulla compagna e sulla propria prole che si spinge fino all’eliminazione fisica della cuccioli precedenti.

Questo tema della ‘femminilizzazione’ dei maschi è un tema certamente definito in modo inappropriato ed infelice, ma molto insidioso e controverso, che non ha mancato di stimolare interessanti campi di ricerca. Ed in aggiunta, chi lo dice ai maschi del crollo dei livelli di testosterone tra gli uomini sposati? Che cosa resterà della supremazia del maschio alfa (anche nei più raffinati gruppi umani, pare), della leggendaria virilità attiva (contro la passività femminile), della competitività, della forza, del coraggio, dell’audacia, della spericolatezza e dell’ostentato uso della violenza?

In una ricerca molto interessante (Muller, Marlowe, Bugumba, Ellison, 2009) sono stati confrontati campioni di saliva da uomini appartenenti a due diverse società della Tanzania: da un lato pastori che trascorrono molto tempo nella savana, lontani dalle donne e dei bambini piccoli, dall’altro cacciatori raccoglitori che trascorrono molto tempo nel villaggio. Per i primi non si riscontravano significative differenze di testosterone tra uomini sposati e non sposati, Mentre per i secondi — quelli che stanno in comunità — i livelli di testosterone negli uomini con figli erano del 50% più bassi rispetto a quelli degli uomini senza figli. Si tratta di un’evidenza indiscutibile, ma che spiegazione darne? Ovviamente potrebbero essere fornite molte letture, alcune certamente legate ai mutamenti biologici maschili, alla obsolescenza del desiderio sessuale nelle coppie consolidate, et alia. Ma una elegante spiegazione psico-etologica potrebbe essere quella per cui una volta che il ‘maschio’ ha stabilito il suo controllo sul territorio, ha preso possesso della sua ‘femmina’, ha meno pressioni competitive con i rivali, è coinvolto cooperativamente con la compagna nella cura della prole, ecco che si crea un compromesso etologico tra aggressività e cure parentali, un fondamentale passaggio culturale alle basi dell’evoluzione del genere umano.

Questo campo di ricerche e questo tipo di spiegazione potrebbero essere molto interessanti per la psicoanalisi, che ha sempre messo insieme aggressività e sessualità come pulsioni originarie concomitanti. In realtà la lettura etologica potrebbe offrirci ipotesi diverse. Le limitazioni e costrizioni pulsionali alla base della Kultur (Freud, 1929) non sarebbero tanto frutto delle necessarie rimozioni imposti dalla civiltà, quanto del fatto che i livelli di aggressività testosteronica maschile siano venuti evoluzionisticamente a patti con il grande potere trasformativo dei neonati, della cooperazione con le loro madri e delle cure parentali congiunte ad essi rivolte, un passaggio mutativo e catastrofico — mi riferisco ai fenomeni discontinui e divergenti di un sistema — che deve esser emerso ad certo livello delle prime aggregazioni umane.

Riposizionare il maschile, quindi, non significa rileggerlo ‘più buono’, o in fondo ‘collaborativo’ con il ‘femminile che cura’. Così tutto si salva. Si offre il condono al ‘maschile’ dispotico e patriarcale, adesso passato alla cura dei bambini, e si riabilita anche l’oscuro ‘femminile’ a cui concediamo almeno l’onore dell’ancestrale competenza materna, di fronte alla sua millenaria devalorizzazione e desimbolizzazione.

In realtà, malgrado l’illuminante intuizione del concetto di bisessualità (Freud, 1905), vi è sempre una difficoltà della psicoanalisi — e non solo di essa — nel definire che cosa si intenda per ‘maschile’ e ‘femminile’ sul piano psicologico, personologico, antropologico e culturale. Quell’insieme di enigmatiche caratteristiche e categorie elusive ed ingannevoli – ‘mascolinità’ e ‘femminilità’ – che costituirebbero le invarianti di ’essere uomo’ o ‘essere donna’. Così messe, si tratta di questioni ontologiche di immensa portata filosofica, religiosa, sociale e antropologico-culturale che è difficile affrontare nella loro complessità, e che vengono consegnate ai loro rispettivi onnicomprensivi ‘nomina’ universali: ‘Maschile’ e ‘Femminile’, definiti secondo le divulgazioni più convenzionali, di cui anche la psicoanalisi ha fatto fin’ora uso.

Per gli psicoanalisti, invece, il compito dovrebbe essere quello di decostruire (Glocer Fiorini, 2024) la rigida logica binaria, come costruzione storico-sociale, antropologica, culturale, simbolica che ha alimentato contrapposizioni inconciliabili come quelle del ‘maschile’ e ‘femminile’. Con l’iscrizione del primo nell’ordine egemone di agente sessuale generativo attivo, aggressivo, procreativo, l’unico fornito di ‘libido’[2], dotato di pensiero simbolico, elevato ed astratto, e della seconda nell’ordine recettivo passivo, materno, nutrice della prole, dotata di pensiero (?) contingente e concreto.

Certo, è esattamente così che i due ordini hanno funzionato sempre e funzionano tuttora, in un rimando di reciproca opposizione circolare che si autoalimenta e che non permette vie di uscita. La prospettiva solutoria non è né nel ribadire perentorio che i generi sono questi due e non si discute, né, all’opposto, nell’attendere una confluenza progressiva e fluida tra generi diversi. La direzione è, semmai, nel considerare, da parte degli psicoanalisti, che è la comparsa nella storia umana del ‘bambino’ — mi riferisco qui al ‘bambino’ della cultura, non più al cucciolo — e delle sue necessarie cure parentali che ha radicalmente cambiato la mente delle ‘femmine’ e dei ‘maschi’, disinnescando forse (per fortuna o per disgrazia) aggressività e sessualità predatorie, e fornendo nuove opportunità di rinegoziare identità sessuali e desideri.

  • Abraham E. (2016). Fathers’ active caring of infants changes their brains to be more like mothers’. Fatherhood Global, 12 nov. https://fatherhood.global/fathers-brains-mothers/
  • Abraham E., Feldman R. (2017). Oxytocin and fathering, Fatherhood Global, 4 jan. https://fatherhood.global/oxytocin-fathering/
  • Abraham E. et al. (2014), Father’s brain is sensitive to childcare experiences, PNAS III, 9792-97.
  • Ammaniti M., Gallese V. (2014). La nascita dell’intersoggettività. Cortina, Milano.
  • Corter C., Fleming A.S. (1995). Fathers’ and mothers’ responsiveness to new-borns: The role of attitudes, experience and infant odors. In Bornstein M. (ed.), Handbook of Parenting, volume 2: Biology and Ecology of Parenting. Erlbaum, Hillsdale (NJ), 87-116.
  • de Beauvoir S. (1949). Il secondo sesso. Il Saggiatore, Milano, 1961.
  • Feldman R., Braun K., Champagne F.A. (2019). The neural mechanisms and consequences of paternal caregiving. Nature Reviews Neuroscience, 20, 205-24.
  • Fleming A.S., Ruble D., Krieger H., Wong P.Y. (1997). Hormonal and experiential correlates of maternal responsiveness during pregnancy and the puerperium in mothers. Hormones and Behavior, 31, 145-158.
  • Freud S. (1905). Tre saggi sulla teoria sessuale. OSF, IV, Bollati Boringhieri, Torino.
  • Freud S. (1929). Il disagio della civiltà. OSF, XI. Bollati Boringhieri, Torino.
  • Freud S. (1932). Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni). Lez. 33. La femminilità. OSF, XI, Bollati Boringhieri. Torino.
  • Glocer Fiorini L. (2024). Deconstructing the Feminine. Subjectivities in Transition. (2nd Ed.) Routledge, Oxon, New York.
  • Hrdy S.B. (2024). Il tempo dei padri. Bttvsgggrvttjollati Boringhieri, Torino, 2024.
  • Leckman J.F., Mayes L.C. (1999). Preoccupations and behaviors associated with romantic and parental love: Perspectives on the origin of obsessive-compulsive disorder. Child and Adolescent Psychiatry Clinics of North America, 8, 635-665.
  • Muller, M.N., Marlowe F. W., Bugumba R., Ellison P.T. (2009). Testosterone and paternal care in East African foragers and pastoralists. Proceedings of the Royal Society B, 276, 347-54.
  • Panksepp J., Biven L. (2012). Archeologia della mente. Origini neuroevolutive delle emozioni umane. Cortina, Milano, 2014.
  • Winnicott D.W. (1956). La preoccupazione materna primaria.  In: Dalla pediatria alla psicoanalisi. Martinelli Firenze, 1975, 357-363.

https://www.neuroscienze.net/madri-preistoriche-origine-del-linguaggio/

https://www.fondazionehume.it/societa/le-diverse-forme-della-primitiva-dominanza-maschile-sulle-donne-linterazione-tra-natura-e-cultura/

https://cordis.europa.eu/article/id/430411-neolithic-mothers-and-the-survival-of-the-human-species/it

https://www.lescienze.it/news/2018/08/21/news/lingua_madre_influenza_padri_genetica-4082405/?refresh_ce

https://www.stateofmind.it/2017/07/identita-sessuale-natura-cultura/

                                 


[1] Motherese o baby talk. Si riferisce alle modalità linguistiche naturali, spontanee, procedurali ed inconsapevoli utilizzate universalmente dagli adulti verso i bambini molto piccoli. I primi tendono a parlare ai piccoli più lentamente, con toni più chiari, pronunciati ed acuti, con poche e semplici parole concrete, con frasi molto ridotte, riferite alle esperienze in atto, con prosodia musicale e cantilenante, con rinforzo mimico, e con espressione facciale sorridente.

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[2]   “[…] preferiamo chiamarla [la libido] ‘maschile’ […] e d’ altra parte qualificare la libido come ‘femminile’ mancherebbe di qualsiasi giustificazione. È nostra impressione che alla libido sia stata fatta maggior violenza allorché la si è costretta al servizio della funzione femminile, e che […] la natura tenga meno conto delle esigenze di quest’ ultima funzione che non di quelle della virilità.” (Freud S.,dj 1932, XI, 237)

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