Il pensiero in tempo di guerra
Quali sono le trasformazioni che si realizzano nel pensiero in tempo di guerra? Quali le fratture, i cambiamenti, gli adattamenti?
Maurizio Balsamo, psicoanalista della Società psicoanalitica italiana, Docente di psicopatologia e Direttore di ricerca nell’Università di Parigi 7 ha affrontato un argomento quanto mai attuale nel numero 2 del 2016 della Rivista Psiche, da lui allora diretta.
Riproponiamo di seguito il suo editoriale, dal titolo “Frankenstein a Baghdad”, che nello stile della rivista Psiche fa convergere riflessioni da diversi vertici di osservazione, rintracciabili nei contributi dei numerosi autori citati (consultabili nella sezione della Rivista Psiche al seguente link: https://www.rivisteweb.it/issn/1721-0372/issue/7039 )
Frankenstein a Baghdad
Che cosa accade in un individuo, in una popolazione, in una cultura o in una comunità esposta al dramma della guerra è una questione non certo ovvia, ma non affatto sconosciuta all’esperienza umana, alla riflessione politica, filosofica, etica, psicoanalitica. Il che tuttavia, come sappiamo, non rende quella medesima esperienza capace di difenderci dalla passione per la guerra, dal godimento dell’orrore, dalla partecipazione furiosa alle barbarie, trasformandoci in eventuali colpevoli di sterminio, violazione dei diritti umani, torture. Che cosa accade in quella spesso infinita zona di transizione che definisce il dopo guerra ed in cui oltre che a ricostruire, rimpiangere i morti, fare i conti o meno con il passato recente e delineare nuove organizzazioni di vita, si tenta di riappropriarsi di spazi, gesti e immagini sottratte dal tempo e dalla storia che ci aveva preceduti, mediante la creazione di nuove rappresentazioni, configurazioni corporee, affettività, è altrettanto oggetto di ampia riflessione. In che modo inoltre tutto questo orrore si deposita nello psichico di una generazione, si tramette ad altri che giungeranno, mediante riapparizioni sintomatiche, risorgenze ideologiche o di pensiero che ritenevamo superate, non è, neanch’esso, certo sconosciuto all’indagine psicoanalitica. Ci è sembrato invece che potesse essere un oggetto di indagine meno ovvio quello di riflettere, da differenti vertici, sulla natura, le modalità, le caratteristiche delle trasformazioni che si realizzano nel “pensiero in tempo di guerra”, intendendo con ciò non solo il fanatismo, la dimensione persecutoria, la modalità schizoparanoidea, la tendenza ad agire, l’essere disponibili ad un attraversamento delle forme estreme di distruttività, o la scissione che permettono a masse di uomini di gettarsi felici in un abisso, tutti elementi pur sempre fondamentali nella ricognizione del fenomeno, ma quell’insieme di fratture, di piegature, di modifiche, di incapacità, che accadono al pensiero che deve affrontare la questione della guerra. Quali sono ad esempio gli effetti psichici del terrore o cosa significa, per una generazione, fare il proprio apprendistato “imparando a sognare fra i morti”, come scrive Vargas in questo numero di Psiche, riflettendo sulle vicende colombiane? In che modo, nella stanza d’analisi, la distruzione di un paese o di una comunità entra sulla scena psichica, coinvolge la possibilità medesima dello spazio analitico, lo rende aperto su di un fuori che a quel punto non è più possibile disconoscere, si domanda André? In che modo riusciamo ad istituire una zona protettiva per permettere allo psichico di esercitare le sue funzioni trasformative, quando, intorno a noi, l’insensatezza di una parola, l’impossibilità di sospendere il giudizio, la paura, l’oscillazione improvvisa fra l’angoscia di essere uccisi o di uccidere si impossessa degli esseri umani, rendendoci disorientati, come scrive Freud in Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte di fronte alla guerra del 1915, o sconvolti dalla comparsa della possibilità di una distruzione totale? Come osserva Freud in quel saggio, è la stessa esperienza della morte a mutare radicalmente di segno, dalla sua casualità al suo accadere infinite volte nello stesso giorno sui campi di battaglia, e questa radicalità, questa impossibilità di essere messa da parte, è un esempio rilevante di trasformazione. Forse, non casualmente, i meglio attrezzati per “sopravvivere in tempo di guerra” appaiono sovente i pazienti psicotici, troppo impegnati nelle loro guerre personali, nei loro combattimenti quotidiani, del tutto indifferenti ai morti o alle stragi, interessati piuttosto ad inghiottire la Storia nella propria personale questione. Pazienti già da sempre troppo “in guerra” per poter dare importanza alle guerre degli altri che eventualmente giungono solo per confermare quella che si conduce, in maniera più o meno privata, o che rischiano di farli distogliere da ben altri impegni. Ciò non toglie ovviamente che quel rifiuto, quel diniego, quella indifferenza per la rottura del mondo non si accompagni allo stesso tempo ad una frattura delle frontiere capace di farci vedere, lo scriveva Canetti in Masse e potere, uno Schreber come un anticipatore del tempo e degli orrori del nazismo, pensando la follia di un soggetto come follia-mondo, follia del tempo.
Se ci accostiamo maggiormente al problema, scorgeremo che la parola e il pensiero, colpiti allo stesso modo degli oggetti, si “sospendono”, e questo ritrarsi, il “ritrarsi della tradizione” come scriveva Jalal Toufic, “a seguito di una distruzione smisurata”, è altrettanto profondo e carico di conseguenze di quella materiale. Oppure ci rendiamo conto della necessità di realizzare una qualsivoglia sopravvivenza, nonostante tutto ciò che conoscevamo e amavamo sia stato smarrito, cercando di costruire un qualche rifugio per la mente andata in frantumi o sul punto di esserlo: è la beata indifferenza, la sordità dinanzi a ciò che udiamo o scorgiamo, il trauma che diventa consumo di immagini catastrofiche, la catastrofe stessa che diventa spettacolo o, per esempio, la “strana assenza” dei tedeschi che prendono il tè su di un balcone mentre tutto intorno c’è la rovina assoluta, come nelle celebri descrizioni della Storia naturale della distruzione di Sebald. Oppure è la nozione medesima di soggetto occidentale ( e non solo) a mutare: possiamo ritrovare agevolmente nella voglia di vivere nonostante tutto, nella resistenza “a breve termine”, quella che ti dà l’orizzonte di qualche giorno, di qualche mese, come scrivono alcuni intellettuali mediorientali descrivendo la vita quotidiana di città sottoposte a bombardamenti o attacchi terroristici quotidiani, alla follia di un kamikaze che si fa saltare nel bar dove stai prendendo il caffè o da cui sei appena uscito, mentre i tuoi amici avranno altra sorte, qualcosa di molto vicino alla teorizzazione di vita precaria o di vulnerabilità proposti dalla Butler per definire il nostro tempo presente. Oppure, dinanzi alla guerra non resta che fuggire, migrare, perdendo nella guerra e nella fuga da essa vite, esperienze, racconti, futuro, speranze: è la storia di milioni di profughi ingoiati dalla fornace della storia anche recente. È la necessità, conseguente, di istituire spazi e modi di ascolto per coloro che hanno perso la parola, la possibilità medesima del racconto, di mettere sullo sfondo una lingua totalitaria. Si tratta di osservare come sia stata smarrita la stessa lingua d’origine perché magari non si è che bambini gettati con violenza in un altro lembo di terra e di storia distanti mille miglia dalle proprie patrie. O perché in quella lingua si dovrebbe poter dire una tragedia indicibile, e dunque non resta che il silenzio, con la conseguenza di non riuscire a trovare una lingua d’arrivo, costretti pertanto a restare nel mondo di mezzo dei “senza parola”, senza espressione, trovando forse nella lingua standardizzata ed elementare di una gang, di una banda, di una “devianza”, di una solitudine, di una ricomposizione identitaria di stampo religioso, un modo per poter dire qualcosa o smettere per sempre di dire qualcosa. Si può tentare di fermare gli accadimenti insensati della storia, ad esempio protestando contro l’esilio dei bambini, come fece Winnicott durante la prima evacuazione dei bambini da Londra nel 1939 (827.00 furono quelli mandati via in famiglie d’accoglienza o in centri, con esiti dolorosi se non catastrofici sui bambini medesimi e sulle loro famiglie). Nella lettera al British Medical Journal del 16 dicembre 1939, Winnicott, Bowlby e Miller scriveranno, in maniera preveggente, che se quello che loro proponevano era esatto, l’evacuazione dei bambini senza le loro madri avrebbe determinato un aumento importante della delinquenza giovanile nei futuri dieci anni e protestavano così contro questa evacuazione /deportazione. Non si trattava solo, come è evidente, di una diversa lettura delle forme di sopravvivenza, ma di una necessità di prendere in considerazione, nei momenti di guerra e di catastrofe collettiva, l’esigenza di mantenere un legame, una relazione che permetta di evitare lo sfaldamento dell’essere psichico collettivo. Si può cercare di istituire una dimensione giuridica della guerra, attraverso il suo contenimento, la distinzione di guerra giusta ed ingiusta, o degli attori giuridici che ne possano legittimamente decretarne l’inizio, oppure esorcizzarla sempre e comunque. Si può proporre, come fece Bion, cosa praticamente inaccettabile in un ambiente militare, dei “gruppi senza leader”, tentando di inserire la sofferenza individuale in una presa in carico gruppale per ricostruire un legame sociale andato perduto. Trattare la guerra interna, non potendo fare nulla su quella che si svolge là fuori, (vedi la riflessione sulla Klein e il caso Richard nel testo di Nicasi). O collezionare immagini di guerra, nel silenzio delle parole, nell’afasia che la guerra induce, come hanno fatto Brecht con l’ABC della guerra, o Warburg con Mnemosyne, cercando di demistificare la presunta chiarezza delle immagini, dislocando grazie agli epigrammi e alle didascalie, in Brecht, o grazie alla messa in relazione di ciò che sembra invece lontanissimo, in Warburg, la retorica di ciò che appare dotato di un unico senso (come nello splendido dossier di Centanni). Protestare contro una guerra attuale al posto di una madre e del suo terrore (Erri De Luca), scambiare la glorificazione della guerra e degli opposti eserciti per un temporaneo trionfo della cultura (il soldato pianista nel testo di Bettini). Essere incapaci di comprendere un fenomeno che si conosce solo mosso da altre ragioni (vedi lo stupore degli storici arabi dinanzi alle crociate, come ci mostra Capezzone). Scrivere lettere contro la guerra ad Hitler (il caso Wegner nel testo di Ambrosiano). Analogamente: andare in cerca dei frammenti, dei resti, dei residui di ciò che la guerra produce, per tentare una qualche ricomposizione dell’infranto, del perduto per sempre, non solo per dare “sepoltura” ai morti, ma per mantenere viva una memoria, un’identità, la possibilità medesima della testimonianza, scattando magari una furtiva e sfocata foto dello sterminio in atto nel campo di concentramento, come segnalava Didi-Huberman in Immagini malgrado tutto. Ridare, mediante la letteratura, ( si pensi a L’Uomo che cade di Don DeLillo o al finale di Molto forte, incredibilmente vicino di Safran Foer), dignità ai jumpers, alle persone che si gettarono dalle Torri gemelle per sfuggire al fuoco, oggetto di una sorta di diniego culturale (nel rifiuto del suicidio, nella presenza conflittuale di problemi assicurativi relativi ad una morte “indiretta”, nell’oscenità delle foto non coperte dal fumo e dalla polvere, che permettono di astrarre una figura dall’orrore di massa e renderlo dunque in qualche modo più individuale). Questo esempio è illustrativo però, oltre che di una specifica questione, del problema più generale che appare nella questione di cosa accade al pensiero in tempo di guerra e che potremmo ridefinire come la relazione profonda fra possibilità di pensiero e ed esperienza corporea. Forse, mai come nella guerra moderna questa dimensione ha assunto una rilevanza così assoluta. Lo notava già Adorno nei Minima moralia quando scriveva che l’inadeguatezza dell’organico di fronte all’inorganico della guerra, del corpo dinanzi all’industria della guerra, ai materiali della guerra, rendeva impossibile la stessa esperienza del soldato, spazzato via senza aver avuto nemmeno il tempo di guardare in volto il nemico. Questa inadeguatezza rende forse conto della difficoltà ad esempio dell’arte di raccontare una esperienza che si radica nella distruzione totale del corpo. Probabilmente questa non realizza un vero e proprio “silenzio dei pittori” come scrive Philippe Dagen (Dagen, 2012), quanto una sorta di produzione più rarefatta, o una difficoltà di fronteggiare l’eccesso di visibilità data dalla potenza fotografica e dal cinema, fatta ovviamente eccezione per alcuni, si pensi a Otto Dix e alle sue 50 stampe sulla guerra. Ad ogni modo la rottura delle relazioni, dei gruppi, degli scambi fra artisti in tempo di guerra, o il ritardo con cui si ritorna a narrare/descrivere la guerra rende conto dello choc. Aldilà di tutti questi esempi, che potrebbero essere praticamente infiniti e toccare qualsivoglia attività umana, resta che un ruolo fondamentale è dato dalla tematica del corpo o dei corpi nella dimensione del conflitto globale. Mentre da una parte bombardamenti, droni, mine, attentati kamikaze rendono il corpo un residuo minimale, un frammento senza più identità, senza più valore di reliquia, di sacralità, dall’altra parte si scatena una realtà o un immaginario che mettono paradossalmente il corpo in primo piano, seppur messo a morte, bruciato, torturato, sgozzato. Sono i corpi dei prigionieri dell’Isis, i corpi dei prigionieri fotografati in pose umilianti nella prigione di Guantánamo, i corpi occultati delle donne costrette a seppellirsi nelle vesti nere dei burka. Nel romanzo di Ahmed Saadawi, Frankenstein a Baghdad, (Saadawi, 2015) non a caso la questione è cosa fare dei resti di corpi esplosi, dilaniati, di monconi che non troveranno sepoltura e dunque in qualche modo pace. La realtà è fatta di questa violenza, di un mondo a pezzi, di corpi e dei loro residui che impregnano la realtà quotidiana, lasciando dietro di loro impossibili lutti, impossibili oblii. Ecco che il personaggio del romanzo, Hadi, uno straccivendolo, raccoglie residui di corpi per dare origine ad una strana creatura, composta di tutti questi pezzi, creatura mostruosa che tenterà di vendicare le vittime innocenti ma nel cui corpo, inevitabilmente, entreranno colpevoli e innocenti, criminali e vittime, fino a trasformare il vendicatore in un nuovo orrore, in una commistione tragica di innocenza e di colpa, di vita e di morte. Cosa fare, allo stesso tempo, come è discusso in questo numero di Psiche, del corpo dei jihadisti morti, cosa fare del corpo dell’eroe, come ricostruire un corpo collettivo non eroico (si pensi, ad esempio, all’operazione di decolonizzazione compiuta dal cinema neorealistico italiano del corpo eroico del fascismo)? Probabilmente questa oscillazione fra corpi dilaniati e corpi mostrabili trascina con sé il rapporto fra visibilità e visualità, come ben analizzato nel dialogo fra Luis Raffinot e Nassim Abroudar fra immagine della battaglia e immagine della guerra, fra spazio generale e locale della distruzione, fra immagine della catastrofe e il suo godimento come nella nave che affonda dinanzi alla nostra riva-mi riferisco alla celebre immagine lucreziana del naufragio con spettatore- e la costruzione, sperabile, desiderabile, di un ideale culturale che permetta di sfuggire all’attrazione dell’abisso.
Bibliografia
Saadawi A. (2015), Frankenstein a Baghdad, Roma, Edizioni e/o
Dagen P. (2012), Le silence des peintres, Paris, Hazan