Jeff Koons, Hanging Heart – 1995
A cura di Sarantis Thanopulos
La definizione del desiderio è resa problematica dalla sua confusione semantica con il bisogno. Se la differenziazione tra i due termini è già difficile sul piano concettuale, la loro sovrapposizione nel linguaggio comune è quasi la prassi. Nondimeno, tra desiderio e bisogno esistono tre differenze fondamentali che riguardano: a) il tipo di piacere che procura il loro appagamento; b) il loro rapporto con il funzionamento dell’apparato psicocorporeo; c) la natura della relazione con l’altro che essi tendono a determinare.
L’appagamento del bisogno dà un piacere che è il sollievo derivante dalla diminuzione di una tensione psicocorporea spiacevole. Scarica la tensione in superficie, evita la sua propagazione in profondità. La soddisfazione del desiderio è un’esperienza complessa, profonda, che coinvolge sensualmente l’intera struttura psicocorporea. Produce un piacere che deriva dalla persistenza di una tensione piacevole.
Il bisogno implica il ritorno a uno stato precedente a quello di una tensione, una liquidazione degli stimoli che la provocano. Implica un funzionamento psicocorporeo omeostatico, centrato sulla stabilità e la costanza, che si oppone alle trasformazioni che vengono vissute come fonti di destabilizzazione. Insegue la prevedibilità, non ammette il fallimento, “ragiona” necessariamente in termini di quantità: calcola quantitativi di tensione e scarica.
Il desiderio crea una destabilizzazione, sbilanciamento della struttura psicocorporea, produce una sua trasformazione. Segue una visuale di qualità fondata sull’esperienza “gustativa”: insegue il piacere dei sensi, persiste nelle variazioni di intensità e di ritmo, nell’assaporare il mutare delle proprietà, nei cambiamenti di visuale e di prospettiva. Diffida del calcolo, della prevedibilità e della stabilità, che producono assuefazione, non disdegna l’incertezza e il rischio, tiene conto della possibilità di un suo fallimento. Dischiude la materia della soggettività alla realtà, crea l’interesse per il mondo.
Nel campo del bisogno puro l’altro funziona come protesi, si annette al soggetto bisognoso ed è assimilato alla sua materia. È trattato in modo impersonale: può essere usato come oggetto strumentale di scarica o eliminato se crea tensione. Nel campo del desiderio l’altro si congiunge al soggetto. È riconosciuto e rispettato nel suo modo di essere e di desiderare.
Ne L’interpretazione dei sogni (1899) Freud ha concepito il desiderio, nella sua forma sorgente, nel lattante, come “moto psichico” teso alla riproduzione dell’immagine mnestica associata all’appagamento di un bisogno fisico (nell’esempio che egli ha fatto, la fame). È la riproduzione dell’immagine, che si realizza in modo allucinatorio, a rappresentare la soddisfazione del desiderio e non la reale esperienza di appagamento. Questa visuale di Freud, di cui sarebbe opportuno ricordare la stretta connessione con la definizione del sogno come appagamento allucinatorio di un desiderio infantile, è foriera di problemi. Se da una parte fa una chiara distinzione tra desiderio e bisogno, dall’altra rende il primo subalterno al secondo. Non solo perché l’immagine da riprodurre riguarda il bisogno, ma anche perché senza un tempestivo intervento dell’appagamento reale, l’edificio della riproduzione allucinatoria crollerebbe.
L’intenzione di Freud è quella di accordare il desiderio alla sua concezione di un’iniziale onnipotenza dell’apparato psichico, garantita dalla costanza delle cure materne che impediscono il distacco tra l’appagamento reale e la sua allucinazione. L’onnipotenza iniziale protegge l’apparato psichico da un precoce adattamento alla realtà, che avrebbe minato il suo sviluppo conferendogli un carattere compiacente, reattivo. Nondimeno, Freud limitando il dispiegamento del desiderio nel solo spazio psichico, lo dissocia dal movimento corporeo e dalla reale esperienza di piacere dei sensi verso la quale tale movimento tende. L’apparato psichico che egli configura in questo modo è di natura omeostatica, conservativa: insegue il piacere sulla via dell’appagamento del bisogno, cerca il sollievo.
Ne Il problema economico del masochismo (1924), Freud riafferma con forza la centralità del principio del piacere non solo come “custode della nostra vita psichica, ma della nostra vita in genere”, dopo averla messa in discussione in Al di là del principio di piacere (1920). Costretto ad affrontare il problema del piacere associato al dolore, mette in discussione la sua concezione del piacere e del dispiacere come diminuzione o incremento di una quantità di tensione provocata da uno stimolo. Partendo dall’incontestabile esistenza di rilassamenti spiacevoli e di tensioni piacevoli (in particolare quella sessuale) introduce, come strumento di spiegazione più adeguato della differenza tra dispiacere e piacere, un fattore qualitativo. Della natura di questo fattore, la cui conoscenza permetterebbe di fare “un grande passo avanti in psicologia”, non è certo. “Forse”, dice, è il ritmo: la sequenza temporale degli aumenti e delle diminuzioni della quantità dello stimolo.
Questa promettente trasformazione della visuale di Freud non è stata ulteriormente elaborata ed è rimasta marginale nella sua teorizzazione. Egli ha lasciato in eredità una rigorosa definizione dell’apparato psichico in assetto difensivo, la cui descrizione migliore si trova in Inibizione, sintomo e angoscia (1925). Questo apparato è alla ricerca delle condizioni esterne più prevedibili e meno passibili di trasformazione.
Freud ha disincarnato, di fatto, il desiderio, separandolo dal piacere dei sensi e dal movimento, gesto del corpo che accompagna il movimento psichico al godimento dell’oggetto desiderato. Lacan (1958) ha proseguito ulteriormente sulla strada della disincarnazione, definendo il desiderio come “metonimia della mancanza a essere”, una maniacalità perpetua dell’esistenza. L’infinito scorrere del desiderio da un oggetto all’altro, la fuga permanente dal lutto. Collocando il godimento dei sensi nel registro dell’animalità, dell’annientamento dell’oggetto di cui si gode, Lacan l’ha interpretato, di fatto, come appagamento del bisogno, consumo della cosa goduta. Al desiderio non ha riconosciuto altro destino che l’affannosa ricerca dell’oggetto piccolo a, residuo di carnalità sottratto alla sublimazione, umanizzazione del rapporto con la Cosa, il corpo materno: l’oggetto di un godimento originario supposto senza limiti, assoluto.
Il desiderio non passa da un oggetto all’altro nel tentativo senza fine di sottrarsi a una sua costitutiva mancanza, negandola. Ha una costituzione antinomica: insegue la permanenza del suo oggetto e, al tempo stesso, evita l’assuefazione. Deve ritrovarlo sempre nella sua riconoscibile identità e scoprirlo sempre in forme inconsuete, nuove. Lo allontana dal luogo di un legame assoluto, unico, ma cerca di non disperderlo in mille luoghi. Lo colloca in una moltitudine di oggetti in cui vive e si dispiega, per perderlo e ritrovarlo in una o un’altra forma privilegiata. Abita la mancanza, tra assenza e presenza dell’oggetto, tra lontananza e prossimità, plasmando la distanza come differenza.
Il desiderio è un derivato della pulsione erotica. Quest’ultima non è un istinto che mira all’eliminazione di stimoli sgradevoli, ma la spinta che impegna l’intera struttura psicocorporea nella ricerca di una persistente, intensa tensione gradevole procurata dai sensi. La pulsione in se stessa ignora l’alterità, particolarità dei suoi oggetti rispetto alla sua meta, riconosce solo cose in grado di produrre piacere. Il desiderio nasce dove il soggetto spinto dalla pulsione incontra la differenza del proprio oggetto: il suo idioma nel manifestarsi piacevole secondo le sue intrinseche proprietà, che orientano, dandogli profondità e intensità, il proprio godimento. Differenza è desiderio sono indissociabili: la prima fa esistere il secondo viceversa.
Legato alla differenza del suo oggetto, che subisce, soffre e, al tempo stesso, cerca e crea, il soggetto desiderante è in relazione con essa, anche quando all’inizio della sua esperienza non la concepisce e non la riconosce. Il desiderio si configura originariamente come movimento psicocorporeo di estroversione della soggettività in gestazione verso l’incontro sensuale con il corpo materno. L’ estroversione, apertura dell’essere al mondo è silenziosa e il desiderio è desiderio di sé, movimento incompiuto: paradossale destabilizzazione omeostatica, tensione verso il fuori da sé priva ancora di un oggetto esterno. Il piacere dei sensi trascende i confini psicocorporei del soggetto e li estende a sua insaputa.
Il desiderio assume la sua forma compiuta, di desiderio rivolto all’altro, quando il venir meno dell’iniziale costanza delle cure materne mette il bambino di fronte alla perdita della madre come parte di sé, lo espone a un riconoscimento di separatezza drammatico, vissuto come mutilazione della propria esperienza. La ricerca del piacere incontra il dolore della mancanza: la lontananza che continua a dialogare con la prossimità, con la disponibilità dell’oggetto -la cui appropriazione ripara la mutilazione- che non è preclusa né scontata. Il desiderio esce dal narcisismo e dall’autoreferenzialità, diventa sconvolgimento, terremoto della soggettività. Pathos, sofferenza, ma anche “provare” profondo, che ex-tende la materia del soggetto verso l’alterità, lo sbilancia e lo fa sporgere, inclinare nel suo spazio. Il patire, combinazione della spinta interna di appropriazione dell’oggetto mancante e dell’attrazione che esso esercita dall’esterno, è sperimentazione, configurazione di potenzialità che pre-sente, pregusta l’incontro con l’oggetto desiderato.
Il desiderio ama il lutto perché è il lutto che lo fa nascere, lo costituisce (Thanopulos 2016). La relazione di desiderio insegue la disponibilità dell’oggetto desiderato, vive in compagnia di un’esperienza luttuosa. Il lutto dà la misura del lavoro di trasformazione che il soggetto deve compiere su di sé per ritrovare l’oggetto desiderato accordandosi, su un piano nuovo, esprimente un’altra possibilità, con la sua differenza. L’elaborazione del lutto, che richiede che l’oggetto perduto resti disponibile, sia pure su un piano potenziale, lo restituisce, al tempo stesso, identico -riconoscibile nella sua profondità temporale, nella sua persistenza e nella sua identità, cifra originale- e trasformato -aperto alla sperimentazione e all’esplorazione di modalità d’uso inconsuete.
Le radici del desiderio che è rivolto all’altro riconosciuto nella sua differenza sono passionali. Sotto l’effetto immediato del dolore della separazione e della mancanza, mirano alla realizzazione senza compromessi e mediazioni di un godimento non più scontato e stabile. Frutto dell’apertura sanguinante del narcisismo all’alterità, la passione del desiderio è ancora sotto il suo effetto: porta il soggetto a occupare il luogo dell’altro -sul versante del sadismo, definito da Winnicott “amore spietato”, che non riconosce all’oggetto la sua soggettività- o a farsi occupare nel proprio luogo dall’altro – sul versante del masochismo, del lasciarsi andare, abbandonarsi all’oggetto, abdicando alla propria prospettiva. Queste due correnti passionali del desiderio, nel luogo in cui il narcisismo si apre, in due modi opposti, alla vita, mettono in pericolo la relazione erotica: possono portare il soggetto a “uccidere” il desiderio dell’altro dentro di sé o a farsi “uccidere” nel proprio da lui.
La moderazione del desiderio, la modulazione che l’allontana dai suoi eccessi, non è opera di una regolazione esterna al suo dispiegamento, una repressione a fin di bene che lo rende “ragionevole”. È un’intrinseca necessità del desiderio stesso: se l’oggetto desiderato non è rispettato nella sua soggettività, cessa di essere sufficientemente vivo e desiderabile; se l’abbandonarsi nelle mani dell’altro è eccessivo, la capacità di desiderare è in forte pericolo. Proteggere l’altro dalla propria passione e proteggersi dalla sua, è la condizione necessaria per poter restare desideranti. Il desiderio scopre che è proprio ciò che si oppone al suo eccesso che lo fa persistere, permanere. Il soggetto desiderante impara a prendere cura di sé e dell’altro sviluppando un desiderio responsabile. La passione si responsabilizza attraverso l’accordarsi degli amanti nella loro esperienza intima di amarsi guidata dall’esigenza di mantenersi reciprocamente desiderabili e desideranti. (F.Ciaramelli, S. Thanopulos 2016)
La responsabilizzazione della passione avviene nel segno del riconoscimento della differenza tra le soggettività desideranti che le mantiene libere e vive nel loro impegnarsi. Non è esatto dire che desideriamo il desiderio dell’altro (Hegel, Lacan). Desideriamo che l’altro sia desiderante perché sia davvero desiderabile e questo implica la sua libertà di desiderare altro da noi o di costituirsi come nemico, piuttosto che amico, del nostro desiderio. Inseguendo la differenza, il desiderio ama l’incertezza tra l’essere e non essere desiderati.
La differenza è la forza motrice della sublimazione del desiderio. La sublimazione non è disincarnazione, de-sessualizzazione dell’esperienza, appagamento consolatorio, la simbolizzazione come astrazione dalla carne viva della materia psicocorporea. È l’estensione dell’esperienza sensuale, erotica, sessuale al di là dei confini della contiguità corporea e sensoriale. Amplia all’infinito il gioco delle differenze tra due corpi erotici, la cui congiunzione evoca, anche quando ne è tanto lontana da sostituirla del tutto. (S.Thanopulos 2016).
Bibiografia
F. Ciaramelli, S.Thanopulos Legge e desiderio, Mursia Editore, 2016
S. Freud (1899) L’interpretazione dei sogni, O.S.F. Vol. 3
S. Freud (1920) Al di là del principio di piacere O.S.F. Vol. 9
S. Freud (1924) Il problema economico del masochismo, O.S.F. Vol. 10
S. Freud (1925) Inibizione, sintomo e angoscia, O.S.F. Vol. 10
J. Lacan (1958) La direzione della cura e i principi del suo potere in Scritti, Einaudi, Torino 1974
S Thanopulos Il desiderio che ama il lutto, Quodlibet, Macerata 2016