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Fotopoulou e Tsakiris: Mentalizzando l’Omeostasi – Cristiana Pirrongelli

11/03/19
Fotopoulou e Tsakiris: Mentalizzando l’Omeostasi - Cristiana Pirrongelli

Fotopoulou e Tsakiris: Mentalizzando l’Omeostasi – Cristiana Pirrongelli

Fotopoulou A. & Tsakiris M. (2017). Mentalizing homeostasis: The social origins of interoceptive inference.  Neuropsychoanalysis, Volume 19, 2017 – Issue 1. Published Online: 28 Feb 2017.

L’evoluzione del senso di Sé dal punto di vista della percezione.

Nell’ambito delle riflessioni attualmente in corso sul Sé, ci sembra interessante proporre l’articolo di Fotopoulou A. & Tsakiris M. (2017). Mentalizing homeostasis: The social origins of interoceptive inference.  Neuropsychoanalysis, Volume 19, 2017 – Issue 1. Published Online: 28 Feb 2017. I due studiosi hanno riportato importanti e originali studi sperimentali sulla formazione del Sé dal punto di vista della percezione. In particolare, ci ha attratti l’ipotesi, in linea con recenti teorie neuropsicoanalitiche, che il «Sé minimale» sia già relazionale a partire dalle sue fondamenta corporee. Tali studi, tra l’altro, hanno messo in luce alcune ipotesi psicopatologiche legate ai tratti individuali relativi alle capacità percettive e altre ipotesi relative alle attitudini empatiche e di immedesimazione. La comprensione di tratti soggettivi psico-corporei caratteristici di un paziente, può aiutarci ad affinare metodiche diagnostiche e di trattamento più accurate anche nel percorso terapeutico di un paziente in analisi.

 

Qualcosa sugli autori

Aikaterini Fotopoulou, psicoanalista, ha studiato neuropsicologia cognitiva e teoria della psicoanalisi all’University College of London. Attualmente dirige il centro londinese di neuropsicoanalisi e coordina il gruppo «neuroscienze psicodinamiche e neuropsicologia». Coordina un gruppo di ricercatori che studiano disturbi ai confini tra neurologia e psicologia e sfidano ogni rigida distinzione tra mente e corpo. Il laboratorio è particolarmente interessato a comprendere come il nostro embodiment, compreso il radicarsi della mente nelle nostre interazioni corporee con altre persone, influenzi la funzione del nostro cervello e, in ultima analisi, come comprendiamo noi stessi e gli altri attraverso le nostre nuove esperienze. Le metodiche usate sono di tipo comportamentale, elettrofisiologico, di neuroimaging e farmacologiche.

Manos Tsakiris è uno psicologo sperimentale che lavora presso il Royal Holloway Warburg Institute di Londra e proviene da studi di filosofia oltre che di psicologia. Da tempo si occupa dei processi che sono alla base della percezione e dell’evoluzione del senso di Sé dal punto di vista della percezione. Egli indaga come, a partire dai primi giorni di vita, gli stati corporei di base (enterocettivi, come temperatura, prurito, dolore, segnali cardiaci, respirazione, fame, sete, piacere da tocco sensuale e altre sensazioni fisiche relative all’omeostasi (Craig, 2010), ed esterocettivi – modalità sensoriali di percezione dell’ambiente esterno: visione, udito, propriocezione, sistema vestibolare, input cenestesici che ci informano sui movimenti e posizione del corpo nello spazio (Craig, 2010) e gli atti motori, vengano percepiti come appartenenti e provenienti da se stessi. Il focus della sua ricerca è cercare di identificare empiricamente i principi basilari neurocognitivi che governano il senso di appartenenza del proprio corpo (ownership) e quello di «agentività» (agency), nonché le interazioni tra essi. Il suo approccio al concetto di sé è interdisciplinare e utilizza paradigmi sperimentali e neuroscientifici, così come filosofici.

 

Così inizia l’articolo di Fotopoulou e Tsakiris: «Un bambino cade nel parco giochi e si sbuccia il ginocchio. Qual è la sua prima reazione? Inizia a piangere? Guarda il ginocchio per verificare la situazione esterna e il grado del danno tissutale che presumibilmente sente dall’interno? Entrambe le reazioni sono possibili. Tuttavia, come molti genitori affermano, spesso la prima cosa che i bambini fanno è rivolgersi al genitore e attendere la sua reazione prima di procedere con una reazione proporzionale, comportamentale. Psicologi dello sviluppo, di psicodinamica, o degli stili di attaccamento possono dare una lettura diversa del comportamento del bambino. Tuttavia, tali comportamenti sollevano una domanda più fondamentale. Perché un’esperienza di dolore corporeo, così intimamente connessa con la soggettività e il corpo di un individuo, invita immediatamente all’attenzione e alla reazione sociale?».

 

Enterocezione e esterocezione

Radicando le fondamenta del Sé nel corpo e prendendolo come punto di partenza, superando d’un balzo il cartesianesimo, si potrebbe concepire una «scienza del Sé».

Una dimensione basilare del Sé corporeo è il senso di proprietà (body ownership) che si riferisce allo speciale stato percettivo del proprio corpo, che fa sembrare le sensazioni corporee come appartenenti a noi, ovvero: «il mio corpo» mi appartiene.

Nell’articolo scritto a due mani, di taglio interdisciplinare, i due ricercatori arrivano ad affermare in modo netto e radicale che anche gli aspetti più minimali del Sé siano plasmati, ab initio, da interazioni con i caregivers. Questo porta ad una rivendicazione del corpo come elemento centrale nella formazione del Sé, in interazione con il corpo dell’altro, e che la capacità per una minima coscienza affettiva sia prevista dallo sviluppo filogenetico ma determinata dallo sviluppo ontogenetico.

Contrariamente al costruttivismo sociale che prevede lo sviluppo di una mente perché il caregiver ha «in mente una mente», qui la variabile sociale enfatizzata è la presenza di altri corpi interagenti, piuttosto che altre menti con stati mentali di ordine superiore. Gli autori lamentano negli ultimi decenni una de-somatizzazione graduale del corpo in psicoanalisi, corpo utilizzato per lo più nei suoi aspetti simbolici e che la maggior parte delle prospettive psicoanalitiche abbiano prestato meno attenzione all’idea che la mente, e in particolare il Sé, nascano in una esperienza incorporata. Partendo da Freud, passando attraverso Klein, Bowlby, Winnicott, Anzieu e Turner, si è passati attraverso posizioni intermedie e variegate rispetto all’importanza e al senso dato alla relazione del Sé con l’altro, ma tali posizioni non hanno impedito un progressivo disinvestimento sul e del corpo del bambino in relazione al caregiver. Pur riconoscendo che Bowlby è colui che più ha sottolineato l’importanza della prossimità fisica al caregiver come chiave per lo sviluppo di una crescita psicologica, secondo gli autori la psicoanalisi si è rivolta in genere ad «aspetti simbolici, riflessivi e narrativi del Sé a scapito della sua natura incarnata» (Fonagy e Target). Gli autori propongono che uno degli scopi principali delle interazioni sociali, sia la regolazione dell’omeostasi del bambino a partire dagli aspetti più minimali del Sé, cioè la sensazione di essere «un soggetto incarnato e capace di agire, plasmato dalle interazioni incarnate con i propri caregivers».

 

La mentalizzazione dei segnali enterocettivi

Che tipo di segnali corporei diventano «mentalizzati» per formare la base del Sé minimale? Esperimenti nell’ambito dell’entero e dell’esterocezione, hanno mostrato che sono necessarie interazioni interpersonali per modellare la mentalizzazione dell’interazione e non viceversa. In primo luogo, l’enterocezione stessa, (classicamente la temperatura corporea, il dolore, il bisogno di urinare, fame, sete, segnali cardiaci, respirazione, piacere da tocco sensuale) deriva e dipende dall’esterno e da altri corpi tanto quanto dall’interno del corpo. In secondo luogo e forse più importante, nella prima infanzia, quando il sistema motorio non è ancora sviluppato, la funzione enterocettiva e l’omeostasi dipendono interamente da interazioni incarnate con altri corpi. Un neonato abbandonato a se stesso tende a morire per fame, sete, freddo, mancanza di tocco ecc.

 

Il ruolo del tocco affettivo

A proposito del «tocco affettivo», recenti studi neurofisiologici di neuroimaging e comportamento suggeriscono che alcune esperienze tattili come «piccoli sfioramenti simili a carezze» siano processati almeno da due sistemi neurocognitivi distinti. Il primo, conosciuto da decenni, è quello nel quale gli stimoli tattili sono processati classicamente in modo esterocettivo dai meccanorecettori della pelle attraverso il talamo fino alla corteccia somatosensoriale, arrivando nell’insula mediana e anteriore (vedi insula). Il secondo modello, recentemente dimostrato, ha individuato un sistema specializzato di codici periferici e centrali per le proprietà affettive per lo stesso stimolo tattile che utilizza però un distinto gruppo di meccanorecettori: le fibre tattili C, che rispondono solo a carezze lente e che portano un senso soggettivo di benessere o piacere, afferiscono a una parte distinta del talamo e arrivano alla corteccia posteriore dell’insula. Questo tipo di tocco affettivo e sociale può essere un esempio di un comportamento sociale specifico e incarnato che può regolare l’omeostasi e influenzare gli stati basici del sentimento del bambino. In altre parole, il tocco affettivo e piacevole fornito da un altro individuo sembra essere un forte fattore determinante nel processo di integrazione multisensoriale che determina come una parte del corpo venga soggettivamente vissuta come propria: l’ownership. Panksepp e altri, hanno dimostrato nei primati che la stimolazione tattile prosociale, come il leccamento e strigliamento, attenui la risposta allo stress, con effetti benefici a lungo termine e attivi processi endogeni analgesici mediati dagli oppioidi e meccanismi legati all’ossitocina. Il coinvolgimento di queste vie neurobiologiche implicate nello stress e nella regolazione del dolore, così come nella formazione e mantenimento di legami sociali stretti, dà un supporto indiretto all’idea che il tocco sociale sia critico anche per lo sviluppo del nucleo affettivo del Sé.

Solms si orienta verso un punto di vista simile, che riguarda il cuore “affettivo” della soggettività. In linea con gli studi di Panksepp, esisterebbe, a suo avviso, una coscienza affettiva incorporata che forma il background di tutte le esperienze soggettive consce. Solms fa una netta distinzione tra: 1) bisogni omeostatici di dentro, che salgono dal corpo che monitora tali bisogni e una coscienza che si manifesta come affettiva lungo una dimensione piacere-dispiacere; 2) la coscienza percettiva che egli collega ai classici sensi e la percezione del corpo di fuori animato solo attraverso la sua connessione al corpo di dentro.

 

Il ruolo dell’azione nella mentalizzazione del corpo e del Sé minimale

Gli autori propongono un’ulteriore considerazione necessaria a spiegare il ruolo del sistema motorio nella formazione del Sé minimale. In particolare, sottolineano come l’assenza di un sistema motorio maturo, impedisca al neonato di regolare da solo la propria omeostasi: un bambino piccolo non può posizionarsi e bilanciarsi, nutrirsi, termoregolarsi o proteggersi da danni ai tessuti (ad esempio ustioni della pelle, fratture ossee, ecc.). Nessun movimento da parte del neonato da solo, può modificare certi stati neurofisiologici chiave relativi all’omeostasi. Questo comporta che le azioni dei caregivers determinino necessariamente un’esperienza quantitativa/qualitativa e fondante la relazione perché è proprio per il fatto che un bambino dipende dal caregiver (per regolare la sua omeostasi), che l’interazione con l’altro è intessuta nell’emergenza stessa del Sé.

Sono le azioni e le reazioni dell’adulto, la loro frequenza e le caratteristiche multisensoriali che generano cambiamenti negli stati enterocettivi e quindi contribuiscono alla «mentalizzazione» degli stati fisiologici nel bambino. Nella terminologia del modello di energia libera, le origini dell’inferenza attiva enterocettiva sono sempre, per necessità, sociali e quindi, sentimenti soggettivi fondamentali come fame e sazietà, dolore e sollievo, freddo o calore, hanno in realtà origini sociali. Gli altri corpi e le loro azioni si collocano quindi proprio nel mezzo di tutti i processi di mentalizzazione incarnati (la formazione di modelli basati sull’inferenza percettiva e attiva) del bambino. Ne consegue che la progressiva mentalizzazione del nucleo affettivo dell’Io non avviene attraverso processi che appartengono al bambino come entità a sé stante, bensì è per necessità mediata, nel corso dello sviluppo, dalle azioni dei caregivers che portano cambiamenti fisiologici, e quindi modellano la percezione della soddisfazione corporea, del sollievo dal dolore, del piacere, o della mancanza di essi.

Freud – ormai è cosa nota – aveva erroneamente presupposto che il bisogno di sopravvivenza del neonato in termini di nutrimento fosse la motivazione ultima per i suoi primi rapporti sociali. Da allora, gli studi hanno stabilito che gli esseri umani hanno un innato bisogno di attaccamento sociale, non correlato alla fame o alla termoregolazione e una corrispondente esigenza permanente di connessione sociale.

Gli autori credono tuttavia che il primato della nostra pulsione di attaccamento sociale non debba oscurare l’importante ruolo incarnato dei caregivers nel regolare gli stati enterocettivi del bambino e a sua volta i fondamenti del Sé minimale. L’impulso di stare vicino ai caregivers può essere un’importante predisposizione ereditata ai fini della sopravvivenza. Gli autori suggeriscono quindi che le origini di tutti i processi di mentalizzazione non siano solo incarnate, ma che per necessità coinvolgano i corpi di altre persone, la loro presenza fisica, la prossimità, i contatti e, soprattutto, la loro azione omeostatica.

Naturalmente, le conclusioni sulle origini incarnate e sociali della nostra auto-consapevolezza, non significano negare l’importanza di un successivo ordine superiore e di interazioni «consapevoli» tra i bambini e i loro caregivers. Propongono solo che si tratti di estensioni psicologiche e sociali di processi più fondamentali e biologicamente prescritti di cura incarnata nella prima infanzia.

 

La consapevolezza enterocettiva: IAcc

Il termine «enterocezione» è stato coniato da Sherrington nel 1906 ed è nell’asse di sensazioni dal corpo al cervello, che si originano dall’interno del corpo e dai suoi organi viscerali che segnalano il loro stato fisiologico; ripetiamo: sete, dispnea, fame d’aria, tocco sensuale, prurito, stimolazione peniena, eccitamento sessuale, freddo, caldo, battito cardiaco, distensione della vescica, stomaco e altri organi interni. I segnali enterocettivi arrivano attraverso quattro sistemi: cardiovascolare, respiratorio, gastrointestinale e urogenitale. Di questi il cardiovascolare è emerso come il principale focus di studi dell’interazione tra corpo viscerale e cervello, a causa delle ricche connessioni informazionali e bidirezionali tra questi due importanti organi del corpo: cuore e cervello. A maggior ragione perché in molti processi emotivi l’interazione cuore-cervello e la bilancia tra simpatico e parasimpatico sono molto attive, gli autori si sono focalizzati su questo. È molto difficile fare studi della consapevolezza enterocettiva ed esistono pochi strumenti disponibili. Solo le procedure sul battito cardiaco possono essere misurate con discreta accuratezza, perché solitamente si è in grado di percepire la quantità di battiti cardiaci o la sincronicità o asincronicità tra individui e stimoli esterni. Entrambi i metodi producono misure di accuratezza enterocettiva (IAcc). Ci sono significative differenze interindividuali nelle performance che ci permettono di distinguere tra persone con un alto o basso grado di IAcc. La consapevolezza enterocettiva riflette la nostra capacità di diventare consapevoli degli stati interni.

Differenze di accuratezza nella percezione enterocettiva (IAcc) si sono mostrate utili nel predire disturbi in ambito psicopatologico: un’alta accuratezza IAcc predispone all’ansia, mentre una bassa IAcc si associa a diversi tipi di disturbi di personalità, all’alessitimia, a depersonalizzazione, a disturbi della condotta alimentare e a disturbi psicosomatici. Negli adulti sani, la ricerca sull’accuratezza enterocettiva IAcc ha riguardato quasi esclusivamente le emozioni ed è associata all’intensità dell’esperienza emotiva e alla regolazione delle emozioni. Ad esempio, le persone con IAcc alta sono più capaci di autoregolarsi e tendono a seguire di più la loro intuizione nei compiti decisionali. In breve, secondo gli autori, l’evidenza disponibile suggerisce che la consapevolezza enterocettiva sia importante per la consapevolezza emotiva e il benessere mentale.

Nel neonato, alcune funzioni enterocettive che supportano l’omeostasi, come il tono vagale (VT), sono state ampiamente studiate. Come per gli adulti, il VT è legato alla capacità dei bambini di regolare l’eccitazione e sottende in modo simile le differenze individuali nella regolazione delle emozioni e nel temperamento. È’ importante sottolineare che la frequenza cardiaca e il tono vagale (instabili fino al primo anno), dipendono dalla qualità dell’assistenza che ricevono dal caregiver e sono predittivi delle capacità di autoregolazione nei bambini di tre anni. È stato dimostrato che lo stile di attaccamento modula la risposta dei bambini allo stress e alle sfide ambientali e, come per gli adulti, gli studi hanno replicato l’importanza di un VT elevato per la regolazione emotiva e il benessere dei bambini.

Non c’è motivo di presumere che il bambino abbia una chiara consapevolezza degli stati enterocettivi differenziati fin dall’inizio, né il genitore. Dato il repertorio comportamentale limitato del bambino, dipende dal caregiver dare risposte il più coerenti possibile al comportamento istintivo del bambino (ad es. piangere) e alla fine imparare a rilevare il preciso bisogno enterocettivo (ad es. imparare a che orari è più probabile che il pianto sia associato alla fame piuttosto che alle esigenze di termoregolazione). Contingente, appropriato, «abbastanza buono». Tuttavia, data la mancanza di dati empirici sullo sviluppo della consapevolezza enterocettiva durante i primi anni di vita, l’ipotesi rimane da testare direttamente in studi longitudinali sullo sviluppo.

 

Il tocco come aiuto a stabilire i confini del Sé

Il tocco del caregiver contribuisce direttamente all’integrazione delle esperienze corporee enterocettive ed esterocettive del bambino, probabilmente aiutandolo a sperimentare la pelle come il confine tra il suo corpo e il mondo esterno. Quindi, il contatto sociale, una parte essenziale delle prime interazioni madre-bambino, può avere un ruolo evolutivo unico nello stabilire progressivamente i confini fisici del sé psicologico.

Nel corso dello sviluppo, man mano che le interazioni corporee intersoggettive in atto con il caregiver diventano più complesse, i bambini costruiscono modelli sempre più sofisticati dei loro stati enterocettivi.

Quando si usa il paradigma RHI, (l’illusione della mano di gomma), esperimento di consapevolezza esterocettiva, se realizzato in un certo modo, noi riconosciamo una mano finta come se fosse la nostra mano reale.  Per indurre la RHI è necessario che:

  1. L’oggetto utilizzato per l’illusione sia una mano e non un oggetto neutrale
  2. La mano di gomma deve essere messa in modo plausibile rispetto alla postura del corpo.
  3. Deve essere più simile possibile alla mano vera del soggetto.

 

Per facilitare il tutto, il nostro IAcc deve essere basso.

Tre studi indipendenti hanno ora rilevato che il tocco affettivo lento, simile ad una carezza, con velocità e proprietà ottimali per quel soggetto, migliora le varie misure della RHI (cioè dell’illusione che la mano di gomma sia nostra) più velocemente rispetto a quanto non lo facesse il tocco neutro; dimostrando che il tocco affettivo aumenta il senso di appartenenza al corpo.

Alcuni esperimenti che hanno utilizzato la sincronia cardiovisiva e quella tra respirazione e visione, hanno suggerito che la sincronia percepita tra il proprio atto e quello proveniente da fuori, possano favorire aspetti importanti e diversi della consapevolezza del proprio corpo, come l’ownership: il senso di l’appartenenza del proprio corpo o di quella parte del corpo a noi stessi. Non dimentichiamo che è il livello soggettivo di accuratezza enterocettiva IAcc (percepire con più o meno precisione i segnali omeostatici provenienti dall’interno del corpo) a influenzare la percezione di quello che proviene dal mondo esterno. Tale constatazione ha portato gli autori a pensare che il modello enterocettivo del Sé sembri adibito principalmente a fornire la stabilità del corpo e la sua rappresentazione mentale in risposta a cambiamenti esterni, riflettendo così l’equilibrio biologicamente necessario tra adattabilità e stabilità.

Considerate queste evidenze, che derivano principalmente dallo studio di emozioni e psicopatologia, sembra che la consapevolezza enterocettiva sia importante per la consapevolezza emozionale e un buono stato mentale.

 

Gli effetti del dolore e il supporto sociale

Gli effetti delle interazioni incorporate come il tocco affettivo sul Sé minimale possono essere trattati anche in relazione al dolore, inclusa la stimolazione nociva cutanea generata dall’esterno. Infatti, il tocco affettivo e il dolore cutaneo sono due sotto-modalità di enterocezione con qualità affettive contrastanti (piacevole/spiacevole) e significati sociali (cura/danno). Negli studi sperimentali, compresi quelli sull’empatia, è ben noto che il sostegno sociale può modulare la risposta psicologica e neurofisiologica al dolore, negli adulti e nei bambini.

Inoltre, negli studi sperimentali e di neuroimaging con adulti, si è dimostrato che questa modulazione del dolore dipende da particolari variabili di supporto sociale «incorporate» (ad esempio la presenza di un altro individuo,il  tocco affettivo proveniente da un altro individuo particolarmente gradito e rassicurante ), nonché differenze individuali nella percezione delle relazioni sociali stesse, vale a dire «gli stili di attaccamento». In particolare, gli stili di attaccamento insicuri (caratterizzati da aspettative negative di sostegno sociale), che possono essere collegati a un sistema di ossitocina impoverito, sembrano moderare la relazione tra sostegno sociale e dolore. Un alto livello d’ansia da separazione, (associata ad un alto livello di ricerca di rassicurazione) ha permesso di ridurre il livello di sofferenza in presenza di uno sconosciuto con più o meno capacità empatiche o ridurre il dolore quando si riceveva  un tocco affettivo ottimale, mentre, al contrario, un alto livello di comportamento evitante (associato a distacco dagli altri e preferenza  ad affrontare le cose da solo) ha portato ad un aumento del dolore in presenza di uno sconosciuto o del proprio partner o anche  nel ricevere un tocco affettivo.

Pertanto, nell’età adulta, sembra che le interazioni sociali incorporate influenzino fortemente la nostra esperienza di dolore corporeo, soggetta ai nostri modelli predittivi sulla disponibilità e il supporto degli altri (presumibilmente costruiti su modelli di attaccamento, durante l’infanzia). In altre parole, la nostra percezione del dolore e della minaccia corporea più in generale, può variare non solo in base alla quantità di danno tissutale comunicata dai percorsi nocicettivi, periferici, ma anche in base alla quantità di supporto sociale che prevediamo disponibile per noi in un data situazione, o più in generale.

Se siamo guidati da esperienze precedenti a fidarci degli altri e del loro potenziale aiuto attivo durante la minaccia fisica, possiamo sperimentare e reagire a errori di predizione correlati al dolore in modo diverso rispetto a quando non ci fidiamo della disponibilità o dell’efficacia del sostegno altrui. Questi risultati sembrano fornire una risposta alla domanda riguardo all’osservazione paradossale che un’esperienza di danno fisico nell’infanzia, con il pianto e la richiesta d’aiuto, inviti immediatamente a prestare attenzione al bambino e a una reazione sociale. L’esperienza del dolore, così intimamente connessa con la soggettività e il corpo di un individuo, può essere effettivamente modellata dall’attenzione interpersonale e da altri fattori sociali. Ed è geneticamente determinata per permettere la sopravvivenza (Panksepp 2005).

Presi insieme, gli studi esaminati in questa sezione suggeriscono che anche le sensazioni soggettive di piacere e dolore per quanto riguarda il proprio corpo, che possiamo convenzionalmente pensare come puramente derivanti dall’interno di noi stessi, siano in realtà formate in interazione con altri corpi e menti in via di sviluppo e nell’età adulta. Accettiamo, ovviamente, che l’evoluzione abbia dotato gli esseri umani di sistemi specializzati per il piacere e il dolore corporeo, come mezzo per garantire l’omeostasi.

 

La distinzione Sé – altro

Dicono gli autori: «Le intuizioni psicoanalitiche sono state e sono particolarmente rilevanti per comprendere la transizione dalla confusione tra Sé e l’altro verso una distinzione Sé-altro essenziale per il consolidamento della prospettiva in seconda persona. In effetti, la reattività e il mirroring non sono mai perfetti; sono «abbastanza buoni». La psicoanalisi è stata pioniera nel comprendere il ruolo dei fattori che nell’interazione soggettiva rafforzano progressivamente la distinzione Sé-altro (ad esempio il giusto grado di frustrazione).

La distinzione tra Sé e l’altro, che è cruciale per l’auto-consapevolezza, è altrettanto essenziale per la consapevolezza delle altre persone, poiché il cervello deve monitorare se le sensazioni, gli eventi e gli stati mentali debbano essere attribuiti a se stessi o no. Identificare correttamente l’origine degli stati corporei e mentali è necessario per la relazione sociale. Ad esempio, come posso condividere il dolore di un altro individuo senza dimenticare che non è il mio dolore? Il processo attraverso il quale vengono costruiti i modelli che ci consentono di mentalizzare il nostro corpo hanno chiare implicazioni per la nostra comprensione delle dinamiche dei confini tra noi stessi e della loro dipendenza da segnali multisensoriali, sensomotori e enterocettivi.

I segnali multisensoriali sono stati ampiamente studiati nel contesto della proprietà del corpo, come abbiamo descritto in precedenza. Tsakiris (2008) ha esteso il paradigma dell’integrazione multisensoriale al riconoscimento personale per indagare se il processo che altera l’ownership (il senso di appartenenza del proprio corpo) possa anche alterare la rappresentazione sociale di se stessi. I partecipanti sono stati accarezzati sul viso mentre guardavano il volto di un altro individuo sconosciuto che veniva toccato in sincronia o asincronia, una procedura chiamata stimolazione multisensoriale interpersonale (IMS). Prima e dopo l’IMS, i partecipanti hanno svolto un compito di autoriconoscimento. Non solo i partecipanti hanno giudicato soggettivamente il viso dell’altro fisicamente più simile al proprio ma hanno anche mostrato una diminuzione nella loro capacità di discriminare tra la propria faccia e quella dell’altro in un compito di discriminazione visiva psicofisica. Pertanto, da un punto di vista predittivo di codifica, le inferenze percettive del tipo descritto nella letteratura multisensoriale e nelle illusioni corporee, possono anche creare le condizioni per offuscare i confini tra il sé e l’altro. Paradossalmente, quindi, le prime interazioni caregiver-infant che si basano in gran parte sulla sincronia e sulla contingenza multisensoriale, forniscono le basi su cui il bambino inizia a costruire una rappresentazione del proprio corpo che è ampiamente condivisa con l’altro.

È importante sottolineare che, come sostenuto in questo articolo, dal momento che il proprio corpo non è semplicemente percepito dall’esterno (cioè in modo esterocettivo, come quando guardiamo allo specchio), esso viene percepito anche dall’interno (cioè in modo enterocettivo, come quando si sente la sua corsa cuore) i segnali enterocettivi e la loro consapevolezza possono giocare un ruolo importante nei confini di Sé-altro. A questo proposito Tsakiris et al. hanno dimostrato che le persone con livelli più bassi di consapevolezza enterocettiva hanno evidenziato un cambiamento più forte nel senso di appartenenza del proprio corpo in seguito alla stimolazione esterocettiva, suggerendo che, in assenza di accurate rappresentazioni enterocettive, il proprio modello di Sé è prevalentemente esterocettivo.

Meno sensibili si è agli stati interni, maggiore è l’influenza che la stimolazione esterna sembra avere. È interessante notare che livelli più bassi di consapevolezza enterocettiva sono correlati ad un maggior grado di offuscamento dei confini tra Sé e l’altro nei diversi esperimenti.

Ripetendoci ancora una volta, le inferenze percettive risultanti dalla percezione multisensoriale aggiornano le auto-rappresentazioni confondendo i confini tra Sé e l’altro, specialmente quando la consapevolezza enterocettiva è bassa.

Il senso di “agire” e i confini Sé – altro

La letteratura del passato della psicologia sperimentale ha giustamente evidenziato il ruolo critico che le azioni volontarie motorie e il nostro senso di esserne all’origine giocano per una distinzione Sé-altro. Il senso dell’agire è una dimensione fondamentale dell’esperienza incorporata, che descrive non semplicemente l’esperienza di avere un corpo ma anche di controllare il proprio corpo per provocare effetti desiderati nell’ambiente.

Ci sono due ragioni per cui la consapevolezza enterocettiva può svolgere un ruolo vitale nel senso di «agire». Innanzitutto, gli organismi biologici dipendono dall’omeostasi e molte azioni volontarie hanno lo scopo specifico di garantirla (ad esempio, cercare cibo quando si ha fame). In quanto tale, il sistema di azione e la sua dimensione esperienziale (cioè l’agency) dovrebbero avere chiari collegamenti di input dal sistema enterocettivo. In secondo luogo, le nostre azioni producono effetti esterocettivi nel mondo ma hanno anche conseguenze enterocettive. Ainley, Sel e Tsakiris (in corso di stampa), hanno testato questa ipotesi esaminando la relazione tra i livelli di consapevolezza enterocettiva e una misura ben stabilita di azione, vale a dire l’effetto «legame intenzionale». Nel legame intenzionale, la percezione del tempo delle azioni volontarie e dei loro effetti sono fra loro attratti percettivamente, in modo che le azioni e gli effetti siano percepiti come avvenuti più vicini nel tempo di quanto non facciano realmente. Ainley e Tsakiris hanno dimostrato che i partecipanti con livelli più elevati di consapevolezza enterocettiva hanno mostrato un legame intenzionale più ampio (che riflette un più forte senso di azione). Pertanto, la nostra esperienza di «agire» è fondamentale per la distinzione tra noi stessi e l’altro.

 

Consapevolezza enterocettiva, cognizione sociale, empatia

In termini psicoanalitici, è necessario inibire l’originaria sfocatura di sé e dell’altro che costituiva il Sé al fine di essere in grado di focalizzarsi sull’altro come oggetto di percezione indipendente e separato.

Il contagio emotivo, la mimica, la risonanza del corpo, la presa di prospettiva e la teoria della mente sono diventati argomenti chiave nel campo prolifico delle neuroscienze cognitive sociali e sono stati usati per rendere operativi diversi aspetti dell’empatia, che è uno dei tratti distintivi del rapporto sociale.

Un importante problema ancora irrisolto è la questione della sovrapposizione di «Sé-altro». In poche parole, si pensa che la sovrapposizione di «Sé-altro» sorga quando un osservatore si impegna in uno stato isomorfo (ad esempio la stessa emozione) alla persona osservata. In che misura possiamo distinguere tra noi e gli altri proprio nel momento in cui cerchiamo di capirci?

L’enterocezione può avere un duplice ruolo unico in questo senso. Come delineato nelle sezioni precedenti, le sue origini sono sociali. Tuttavia, quando i bambini sviluppano la consapevolezza enterocettiva del proprio corpo come oggetto della loro percezione attraverso le interazioni con l’altro, la consapevolezza enterocettiva agisce anche come un elemento costitutivo del Sé che salvaguarda l’eccessivo offuscamento di sé con gli altri. Questa visione apre la strada a un approccio radicalmente nuovo alla questione del rapporto Sé-altro. Secondo recenti modelli di cognizione sociale, il modus operandi predefinito del cervello sociale è quello di rappresentare il proprio Sé (ad esempio la propria prospettiva, le emozioni, le credenze, ecc.). Passare da sé ad altri per ottenere una co-rappresentazione parziale di sé e dell’altro è quindi un processo impegnativo che, almeno in una certa misura, richiede l’attenuazione delle rappresentazioni di sé. Dal punto di vista enterocettivo, l’ipotizzata attenuazione delle rappresentazioni di sé in modo che l’altro sia rappresentato meglio, dovrebbe essere esteso ai sentimenti enterocettivi. Secondo questa visione, livelli inferiori di consapevolezza enterocettiva possono fornire un vantaggio nel passaggio da sé ad altri, poiché l’attenuazione degli errori di previsione enterocettivi può essere computazionalmente più semplice. Consideriamo il caso del contagio emotivo, in cui l’esposizione alle emozioni di qualcun altro provoca uno stato affettivo simile nel percettore, ma senza la consapevolezza esplicita che il catalizzatore dello stato sia l’altro individuo. Una mancanza di consapevolezza dell’origine dello stato affettivo può indicare una bassa IAcc. Un’ipotesi alternativa proposta dagli autori, sostiene che la comprensione degli altri richieda una rappresentazione «abbastanza buona» dei propri stati (enterocettivi), perché la nostra rappresentazione degli stati dell’altro si basa sulla consapevolezza di come i loro stati ci influenzano (sulla base di come ci hanno colpito in origine).

Inoltre, questa auto-rappresentazione dovrebbe ora mostrare sufficiente stabilità per prevenire l’offuscamento di sé e dell’altro. Tale sfocatura può effettivamente accadere nell’età adulta, in particolare in certi momenti di tumulto emotivo, che possono sorgere nel tentativo di mantenere l’integrità fisica o l’attaccamento e quindi può essere più comune in alcune psicopatologie come il disturbo borderline di personalità o neuropatologie come la somatoparaphrenia. Nel caso dell’empatia che, a differenza del contagio emotivo, richiede una conoscenza esplicita dell’origine dell’emozione, non è ancora provato empiricamente se necessiti di un senso preciso del proprio corpo, per empatizzare con l’altro come individuo separato. Resta confermata la definizione di empatia come un fenomeno altamente complesso, soggettivo, differenziato e non necessariamente automatico.

 

Vocabolario minimo:

Agency: «agentività» o sensazione di aver causato o generato un’azione.

Body ownership: autoconsapevolezza del proprio corpo.

Embodiement: incarnazione, corporeizzazione.

Embodied mentalization: mentalizzazione incarnata.

Esterocezione: modalità sensoriali di percezione dell’ambiente esterno: visione, udito, propriocezione, sistema vestibolare, input cenestesici che ci informano sui movimenti e posizione del corpo nello spazio.

Enterocezione: percezione dall’interno del proprio corpo di segnali come: temperatura, prurito, dolore segnali cardiaci, respirazione, fame sete, piacere da tocco sensuale e altre sensazioni fisiche relative all’omeostasi.

Ownership: sensazione di appertenenza del nostro corpo indipendentemente dal fatto che le azioni compiute siano volontarie o involontarie.

Selfhood: esperire sé stessi come un sé separato indipendente, individuale, cosciente.

RHI: rubber hand illusion (illusione della mano di gomma).

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