La Ricerca

Falci A. & Pirrongelli C. (2015). Lo stato attuale delle implicazioni delle neuroscienze sulle teorie, sui modelli e sulla clinica della psicoanalisi. Resoconto del seminario. XLI Convegno a Seminari Multipli della S.P.I. (Bologna 23 Maggio 2015).

26/06/15

Lo stato attuale delle implicazioni delle neuroscienze sulle teorie, sui modelli e sulla clinica della psicoanalisi. Resoconto del seminario. XLI Convegno a Seminari Multipli della S.P.I. (Bologna 23 Maggio 2015).

 

Il 23 Maggio 2015 si è svolto a Bologna il XLI Convegno a Seminari Multipli della Società Psicoanalitica Italiana.

Uno dei seminari è stato presentato dal Gruppo di Ricerca della S.P.I. su psicoanalisi e neuroscienze, coordinato da Amedeo Falci.

 

Il resoconto del seminario, delle relazioni (di R.Spagnolo, A.Falci, T.Giacolini, C.Pirrongelli e A.Salone) e del dibattito successivo, è stato curato da A.Falci e C. Pirrongelli.

 

 

 

Rosa Spagnolo – Introduzione al seminario: Neuroscience and psychoanalysis: what’s going on.

 

Questa  nostra riflessione sulla costruzione di modelli della mente, implicanti tanto la ricerca neuroscientifica quanto la concettualizzazione filosofica, avviene tenendo sullo sfondo quella semplice visione olistica che ci concede di non perdere di vista l’intero  e  di non sacrificare le singole parti che lo costituiscono, mentre ci addentriamo nella conoscenza dei meccanismi di funzionamento della mente. In altre parole la premessa che singole ricerche e/o scoperte non confermano, né disconfermano,  un intero apparato teorico come quello psicoanalitico, ci consente  di  guardare con serenità a tutte le novità che giungono dalle neuroscienze, di cui di seguito ne elencheremo solo alcune.

Questa apertura è per anticipare come, nel dialogo con le neuroscienze, è sempre all’opera un riduzionismo scientifico legato al funzionamento delle strutture, e quindi alla ricerca empirica, che ci lascia spesso alquanto insoddisfatti. Questo  riduzionismo appartiene anche, in una certa misura, al cervello stesso, il quale opera continue riduzioni dei dati percettivi per ricostituirli e ripresentarli in nuove combinazioni da cui fa emergere il globale partendo dal dato empirico parziale e selettivo.  In tal modo il recupero di una visione olistica permette di  riconsiderare, a mio modo di vedere,  l’interazione fra sistemi  “entangled” attraverso le proprietà emergenti non appartenenti alla singola componente del sistema. Dire cioè che un sistema è “entagled” significa non poter sempre identificare le proprietà del singolo sistema. Di questi “intrecci” o “entanglement” la psicoanalisi si occupa da molto tempo ed a buon diritto può oscillare fra riduzionismo e olismo come già fatto da Freud nelle sue varie proposizioni fra monismo e dualismo.

Prima di addentrarci nella discussione accenniamo a due grandi assenti dal campo teorico della psicoanalisi che meriterebbero più ampio dibattito: la coscienza e le emozioni.

Due differenti visioni della coscienza vengono descritte da A. Vannini (Un modello sintropico della coscienza, Syntropy 2009, 1, pag. 1-75): “ Le teorie sulla coscienza proposte negli ultimi decenni vanno dai modelli fondati sulla fisica classica (ad esempio i modelli avanzati da Paul Churchland, Antonio Damasio, Daniel Dennett, Gerald Edelman, Francisco Varela e John Searle) ai modelli fondati sui principi della Meccanica Quantistica (MQ), come il dualismo onda-particella, il collasso della funzione d’onda, la retrocausalità, la non località e il campo unificato (ad esempio i modelli proposti da John Eccles, Stuart Hameroff, Roger Penrose e Chris King)”.

Non entreremo nel merito di quest’ultimo modello (MQ) sviluppato da pochi e che meriterebbe una maggiore attenzione, ma aggiungo solamente che senz’altro la prima visione, concordemente con quanto rilevato dall’autrice, è quella solitamente oggetto di riferimento degli psicoanalisti; infatti i tre modelli maggiormente studiati (Damasio, Edelman e Varela)  sono tutti legati ad un certo localizzazionismo a gradiente variabile, sostenuto anche da molte ricerche empiriche tendenti a dare una dimostrazione topologica della coscienza. Questa visione della coscienza ovviamente non esaurisce il campo dell’estensione della psiche, ma neanche quello del funzionamento mentale.

Se le riflessioni intorno alla coscienza vedono implicati moltissimi modelli, non meno variegato è il panorama legato ai modelli sui sistemi emozionali  in cui il dibattito odierno non è più  centrato intorno al riconoscimento del ruolo del sistema cerebrale  subcorticale nello sviluppo e promozione delle emozioni, ma intorno alla dicotomia subcorticale-corticale, controllo o integrazione? Due domande riguardano l’attualità scientifica:  Quale ruolo giocano le emozioni nella costruzione del Sé, diretto o indiretto attraverso  l’espressione dei sentimenti (ed i processi cognitivi superiori)? E analoga domanda rispetto al ruolo dell’azione nello sviluppo della conoscenza (emozionale e cognitiva).

Introducendo  Damasio potremmo innanzitutto dire che il suo merito è stato quello di aver posto il corpo (e con esso  la mente), nel sistema ambientale in cui vive e di averne studiato i reciproci influenzamenti. Di fatto da “L’errore di Cartesio” in poi Damasio si è occupato del corpo soggetto di esperienza e quindi del corpo restituito agli studi sulla coscienza, dando a questa quello spessore biologico che ne permette lo studio scientifico. In tal senso lo studio del cervello, nell’ottica di Damasio,  non può essere effettuato senza tener conto dell’organismo a cui appartiene e lo studio dei circuiti cerebrali di fatto è lo studio delle reciproche interazioni del sistema mente – cervello – corpo- che producono mappe interattive costantemente aggiornate (all’unisono) .

Ne “L’errore di Cartesio” ( Adelphi edizioni, Milano 1995), Damasio  esaminava  la  possibilità di esistenza della mente al di fuori della struttura biologica di cui fa parte. Ogni mente è legata ad un cervello e questo ad un solo corpo. “One person perspective” significa: una sola mente per ogni persona e la non esistenza del cervello (quindi della mente) fuori dal corpo (the brain in the vat).  Quindi Damasio parte dallo studio del cervello nell’organismo in cui si trova e nel rapporto con l’ambiente, e sviluppa, in momenti successivi tre importanti topiche: il marcatore somatico, la coscienza/Sé, il sistema di convergenza /divergenza.

Del lessico di Damasio (1998-2014) bisogna cogliere quanto segue (Vannini 2009):

–                Le Emozioni:  collezioni complicate di risposte chimiche e neurali, che formano una configurazione (programmi di azioni complesse in larga misura automatici).

–                I  Sentimenti delle emozioni: sono percezioni composite di quello che accade nel nostro corpo e nella nostra mente quando ha luogo un’emozione. Egli distingue fra i sentimenti delle emozioni e i sentimenti di fondo. Con il termine sentimenti di fondo, l’autore indica una varietà di sentimenti che ha preceduto le altre nell’evoluzione, e che ha origine da “stati corporei” di fondo anziché da emozioni. E’ il sentimento della vita stessa, il senso di essere.

–                Il processo decisionale: è  il frutto di  una continua   analogia  fra esperienze passate  che a livello non conscio hanno lasciato una traccia  ed esperienze attuali; queste tracce sono i   marcatori somatici (somatic marker).

Il processo  decisionale  e’ condizionato dalle risposte  somatiche emotive e soggettive (attivate tramite i marcatori somatici) , dove soggettive sta ad indicare la qualità di ciò che si percepisce (riattivazione sulla base di esperienze precedenti). Ogni scelta è quindi condizionata dalle risposte somatiche emotive, avvertite a livello soggettivo, che vengono utilizzate, non necessariamente in maniera consapevole. Dire non consapevole implica che gran parte del processo decisionale non è cognitivo, ma avviene con  il coinvolgimento del sistema emozionale (in gran parte automatico ed inconscio –cioè non consapevole).

Questa ipotesi è stata l’affermazione più forte di Damasio che ha permesso di spostare l’asse della ricerca scientifica dal cognitivo (cognizione, volizione, controllo  decisionale corticale) all’affettivo (emozionale,ampiamente  sottocorticale, inconsapevole), dell’affective consciousness.

Le esperienze depositate hanno lasciato tracce che riattivano circuiti somatici (cioè risposte emozionali) che segnalano la positività o negatività di una scelta: in tal senso le risposte somatiche, percepite come i sentimenti delle emozioni  accompagnano l’esito di una scelta e quindi influenzano il comportamento.

In “Emozioni e Coscienza” (Damasio, 1999) la coscienza è descritta come il “sapere di sentire”:

La coscienza si sente come un sentimento e, quindi, se arriva a noi con le qualità del sentimento può ben essere un sentimento. La coscienza non è percepita come un’immagine o come una configurazione visiva o uditiva o con altre caratteristiche percettive in quanto non si vede, non si ascolta, non ha odore e né sapore. La coscienza è, per Damasio, una configurazione costruita con i segni non verbali degli stati del corpo.

Damasio individua tre livelli della coscienza: il proto-sé, il sé nucleare e il sé autobiografico (Damasio 1999, Vannini 2009).

  • il proto-sé : ”è una collezione coerente di configurazioni neurali che formano istante per istante le mappe dello stato della struttura fisica dell’organismo nelle sue numerose dimensioni”. Questa collezione costantemente aggiornata di configurazioni neurali si trova in molti siti cerebrali e a molteplici livelli, dal tronco encefalico alla corteccia cerebrale, in strutture interconnesse da vie neurali. Il proto-sé, del quale non siamo coscienti, coincide con la regolazione di base della vita-
  • Mentre il proto-sé è uno stato ancora non consapevole della coscienza, il sé nucleare è il primo livello di coscienza consapevole e coincide con il sapere di sentire quell’emozione. L’essenza biologica del sé  nucleare è la rappresentazione di una mappa del proto-sé che viene modificata dall’interazione con l’oggetto. La coscienza nucleare è il genere più semplice di coscienzae fornisce all’organismo un senso di sé in un dato momento e in un dato luogo (“qui ed ora”). Non è una caratteristica esclusiva degli esseri umani e non dipende dalla memoria convenzionale, dalla memoria operativa, dal ragionamento o dal linguaggio.
  • Il sé autobiografico, o coscienza estesa, coincide con il livello superiore della coscienza. Ilautobiografico è basato sulla capacità della persona di tener traccia della propria storia. Il sé autobiografico si basa sulla memoria autobiografica che è costituta da ricordi impliciti di un gran numero di esperienze individuali del passato e del futuro previsto. Ogni ricordo riattivato funziona come un “qualcosa da conoscere” e genera il proprio impulso di coscienza nucleare. Il risultato è il sé autobiografico del quale siamo coscienti. Il sé autobiografico si basa su registrazioni permanenti, ma disposizionali delle esperienze del sé nucleare. Queste registrazioni possono essere attivate e trasformate in immagini esplicite.

La Coscienza del Sé, nel modello di Damasio, è sempre studiata in funzione dell’organismo e dell’oggetto, cioè delle reciproche influenze che causano cambiamenti nell’organismo registrati nelle zone di convergenza divergenza.

Memoria : Convergence-divergence zones.

Come avviene quindi il processo di memorizzazione  (creazione di mappe)? Attraverso varie sequenze così sintetizzabili:

  • ricevere attraverso vie assoniche segnali provenienti da siti coinvolti nella rappresentazione del proto-sé e da siti che potenzialmente possono rappresentare un oggetto;
  • generare una configurazione neurale che “descriva”, con un qualche ordine temporale, gli eventi rappresentati nelle mappe del primo ordine
  •  introdurre, direttamente o indirettamente, l’immagine derivante dalla configurazione neurale nel flusso generale di immagini chiamato pensiero;
  • rimandare segnali, direttamente o indirettamente, alle strutture che elaborano l’oggetto in modo che l’immagine dell’oggetto possa essere messa in risalto.

Questi elementi critici scaturiscono da una rete continuamente riattivata che si basa su zone di convergenza situate nelle cortecce di ordine superiore temporali e frontali, oltre che in nuclei subcorticali quali quelli dell’amigdala. A dare il passo all’attivazione coordinata di questa rete composta di molteplici siti sono i nuclei del talamo, mentre il mantenimento dei componenti reiterati per lunghi intervalli di tempo richiede il sostegno delle cortecce prefrontali che partecipano all’attività della memoria operativa.

Alcuni chiarimenti :

  • Le regioni di convergenza divergenza sono costituite da numerose  zone di convergenza divergenza  localizzate  all’interno delle cortecce associative di ordine superiore, ma non all’interno delle cortecce sensoriali che creano immagini
  • Le zone di convergenza divergenza coincidenti con i neuroni specchio non colgono il significato di un’azione, questo avviene nelle zone e regioni di convergenza-divergenza delle cortecce associative che non producono immagini, il cosiddetto  spazio disposizionale.

E’ importante a mio giudizio comprendere che si tratta di due spazi cerebrali separati: uno costruisce mappe degli oggetti, l’altro non  conserva mappe ma disposizioni: cioe’ formule implicite per ricostruire  le mappe nello spazio delle immagini.

Introducendo Jaak Panksepp,  possiamo partire da un suo concetto cardine. I circuiti cerebrali sottocorticali regolano l’espressione di specifiche disposizioni emozionali. I sentimenti delle emozioni non sono dislocati altrove rispetto alla sede che li produce e ne permette l’espressione, quindi l ’affective consciousness (cioè la percezione e l’espressione delle emozioni) è legata ai circuiti cerebrali sottocorticali. Egli distingue sette  emozioni primarie che chiama sistemi emozionali : Fear, Rage, Panic Distress, Play, Care, Lust And Seeking.  Questi sono regolati attraverso varie sostanze (neuro modulatori, peptidi, ammine ecc.) e afferiscono a circuiti differenti. Nell’evoluzione del suo pensiero egli ha man mano prestato una maggiore  attenzione al Seeking System, il Sistema di Ricerca, che sembra essere quello determinante nel condizionare le risposte dell’organismo attraverso la sua interazione con gli altri sistemi. In altre parole gli altri sistemi emozionali provocando l’apertura e la chiusura del Seeking System determinerebbero gran parte dei comportamenti sociali. Cos’è quindi il Seeking System? E’ un sistema emozionale di ricerca di tutto ciò che è necessario alla sopravvivenza dell’organismo. E’ un dispositivo istintivo di apertura al mondo. E’ oggetto diretto, nel senso che spinge l’organismo a cercare l’oggetto, ma non è oggetto mediato. Negli animali si manifesta attraverso  quei comportamenti di investigazione sensoriale dell’ambiente, nell’uomo con eccitamento, entusiasmo, desiderio, senso di urgenza a… cercare fuori, nel mondo, qualcosa che soddisfi un bisogno o un desiderio. In termini freudiani è un concetto molto vicino a quello della libido, o quantomeno al concetto di object catexis. Il Seeking System non garantisce il legame con l’oggetto (affidato ad altri sistemi, quali il Care System), ma ne permette la ricerca attraverso il suo investimento.

Gli altri sistemi, quali  quello della paura, della rabbia e del panico, quando disregolati, possono indurre la chiusura del Seeking System e generare sentimenti depressivi o di disarticolazione del legame con l’oggetto. Questo legame, in termini di legame sociale è garantito dal Care System. Il Care System, come descritto anche dalla teoria dell’attaccamento e, per altri aspetti, da Allan Shore (sintonizzazione madre bambino  dell’emisfero destro del  cervello), attraverso  l’ossitocina (ma non solo), permette la messa in sintonia del sistema di cura infante-madre e promuove l’attaccamento alla prole. L’ossitocina gioca un ruolo importante anche nel comportamento sessuale differenziato, maschio femmina, nonché nella promozione dei legami sociali (fra cui anche l’empatia) e nel loro mantenimento. Fra i sistemi che interagiscono positivamente con il Seeking System e la promozione del legame sociale l’autore situa anche il Play System (come non ricordare Winnicott!).

I sistemi emozionali citati sono comuni a tutti i mammiferi. Nella scala evolutiva (hierarchy nested) potremmo semplicemente evidenziare le differenti  espressioni dei sistemi che nell’essere umano sono maggiormente riconoscibili per via dei processi terziari mediati dal linguaggio. I processi secondari e terziari sono largamente appresi;  i processi primari, emozionali , sono istintivi, non appresi e non condizionati. Possono essere trasformati? Solo ciò che è secondario (apprendimento e memoria) e terziario (cognitivo superiore) può essere trasformato. Nella visione dell’autore la psicoanalisi opera a questi ultimi due livelli.

Il sistema del Default Mode Network (DMN). Era il 1997, quando si rese evidente che un particolare insieme di regioni cerebrali si disattivavano durante esperimenti orientati al compito (Shulman et al., 1997). Mentre i ricercatori si aspettavano il contrario, si ritrovarono invece a descrivere l’attività a riposo di alcune strutture della linea mediana che venivano disattivate in compiti di focalizzazione (Raitchle et al 2000 e succ.). Le regioni coinvolte sono, in gran parte, strutture corticali della linea mediana, e nella fattispecie la corteccia prefrontale ventromediale e dorsomediale e il cingolo posteriore/precuneo. Venne dato il nome di default mode network (DMN) a questa rete neuronale associata al “lavoro” del cervello a riposo, mentre vaga fantasticando, durante il sonno o in anestesia. Successivamente  la DMN venne da Northoff e coll. (2004 e succ.) associata agli stati di introspezione e a quelle funzioni correlate alla realizzazione della dimensione del Sé (selfhood). La DMN può anche essere considerata associata al «pensiero indipendente dallo stimolo»  o, come  la condizione opposta, a quella caratteristica del pensiero riscontrato nei pazienti traumatizzati che manifestano un «intrappolamento dello stimolo». Tanto più alta  è la richiesta di attenzione dall’ambiente esterno, tanto maggiore sarà la disattivazione della DMN (McKiernan et al., 2006; Singh e Fawcett, 2008). Mentre la disattivazione della DMN si riduce quando il compito da svolgere è autoreferenziale (Van Buren et al., 2010).

Dato che la rete associata al compito e la DMN sono collegate nel tempo in maniera anticorrelata, è stato proposto che siano manifestazioni diverse di un unico sistema, che si attiva o disattiva in funzione del compito, poiché sembra che i consumi energetici comuni ai due funzionamenti cerebrali (a riposo e focalizzato) siano di poco differenti. Tre ampie reti (o sistemi) neuronali sarebbero quindi alla base del funzionamento cerebrale : il centrale esecutivo, il sistema della salienza e quello della default. I primi due agirebbero modulando il terzo. In particolare un nodo del sistema esecutivo centrale controllerebbe, per via inibitoria,  il sistema automatico della default. Interessanti sono gli studi sul funzionamento default ed alcuni ampie dimensioni psicopatologiche.

Il sistema dei neuroni specchio. Come inizia? Un gruppo di ricercatori di Parma  (Rizzolatti, Gallese, Iacoboni e al.)   agli inizi degli anni 90 si rese conto che alcuni neuroni della corteccia premotoria delle scimmie macaco scaricavano non solo mentre eseguivano direttamente alcune azioni, ma anche mentre osservavano la stessa azione effettuata da qualcun altro. Si trattava proprio dello stesso gruppo neuronale che possedeva la caratteristica di attivarsi sia in esecuzione che in osservazione. A questi neuroni fu dato il nome di neuroni specchio (NS). Doveva esserci anche una qualche connessione con il sistema percettivo, pensarono i ricercatori originariamente , visto che l’osservazione dell’azione giocava un ruolo importante, e così trovarono NS anche in alcune parti della corteccia parietale.

 In sintesi: la visione (ma anche altre modalità percettive) di un’azione o la sua effettuazione inducono una risposta neuronale circoscritta ad alcune sedi delle cortecce premotorie frontali e parietali. La risposta neuronale può essere evocata solo se lo stimolo osservato è costituito da una mano o una bocca che interagisce in modo finalistico con un oggetto (ad es. per prenderlo, tenerlo, o romperlo,ecc). Una serie di esperimenti di controllo ha dimostrato che né la visione isolata dell’agente né quella dell’oggetto riescono ad evocare una risposta. Similmente inefficace, o molto meno efficace, è l’osservazione di un atto motorio mimato senza oggetto. Parte dei neuroni specchio sono specifici per l’esecuzione/osservazione di atti motori singoli, altri invece sono meno specifici, rispondendo all’esecuzione e all’osservazione di due o più atti motori.

La congruenza tra risposta visiva e risposta motoria è importante perché suggerisce come lo stesso neurone sia in grado di operare un  confronto fra ciò che si fa e ciò che si vede fare. in termini più generali quindi i neuroni specchio costituiscono un sistema neuronale che mette in relazione le azioni esterne eseguite da altri con il repertorio interno di azioni dell’osservatore e si configurano come un meccanismo che consente una comprensione implicita di ciò che viene osservato.

Quando un individuo inizia un movimento per raggiungere uno scopo, come prendere in mano una penna, ha chiaro in mente quello che sta per fare, per esempio scrivere una nota su un pezzo di carta. In questa semplice sequenza di atti motori lo scopo finale dell’intera azione è presente nella mente dell’agente ed è riflesso in qualche modo fin dall’inizio in ogni atto della sequenza. La specificazione dell’intenzione di un’azione precede quindi l’inizio dei movimenti, e questo significa che quando stiamo per eseguire una determinata azione noi possiamo predirne le conseguenze. Ma una determinata azione può essere originata da intenzioni molto diverse. Supponiamo che qualcuno veda un altro afferrare una tazza: i neuroni specchio per l’azione di afferramento verranno probabilmente attivati nel cervello dell’osservatore, ma il collegamento diretto tra l’azione osservata e la sua rappresentazione motoria nel cervello dell’osservatore può dirci solamente cosa è l’azione (afferrare) e non quale sia l’intenzione che ha spinto l’agente ad afferrare la tazza. Ciò ha indotto taluni a sollevare obiezioni circa la rilevanza dei neuroni specchio nell’intelligenza sociale e, in particolare, nella determinazione delle intenzioni altrui (vedi Jacob & Jeannerod, 2004; Csibra, 2004).

Ma cos’è l’intenzione di un’azione? Determinare perché un’azione (ad esempio afferrare una tazza) sia stata iniziata, cioè determinarne la intenzione, può essere equivalente a scoprire lo scopo dell’azione seguente non ancora eseguita (ad esempio bere dalla tazza). Siccome non possiamo impiantare elettrodi negli esseri umani, se non in condizioni particolari, sono state utilizzate tecniche diverse indirette (EEG, MEEG, fMRI,TMS) che hanno confermato la presenza di neuroni specchio negli esseri umani. Tale sistema  è coinvolto non solo nell’esecuzione osservazione di atti motori, ma anche in processi cognitivi più elevati come il linguaggio, imitazione e l’apprendimento imitativo, empatia , anche se a livello più complesso del funzionamento mentale non è possibile semplificare (o ridurre) questo al sistema dei neuroni specchio. Sicuramente al momento possiamo dire che il sistema dei neuroni specchio è implicato nella comprensione dell’intenzione attraverso il legame fra azione e predizione. Infatti  esperimenti, sui NS studiati in contesti diversi ,  hanno fatto vedere come  a parità di azione svolta con scopo differente, si attiva un gruppo diverso di neuroni specchio. Possiamo anche fare il discorso inverso e dire  a seconda di quale catena motoria sarà attivata nell’osservatore alla vista dell’azione questi attiverà lo schema motorio di ciò che probabilmente l’agente farà (predizione dell’intenzione).

Questi neuroni cioè programmano uno stesso atto motorio in modo diverso a seconda dello scopo distale dell’azione in cui tale atto motorio è inserito. I singoli atti motori sono legati gli uni gli altri in quanto occupano stadi diversi all’interno dell’azione globale di cui fanno parte, costituendo così catene intenzionali predeterminate nelle quali ogni atto motorio seguente è facilitato da quelli precedenti (Gallese 2000 et succ.). Un risultato interessante di questi  studi è che essere o non essere istruito a determinare esplicitamente l’intenzione delle azioni osservate di altri non fa differenza in termini dell’attivazione dei neuroni specchio. Questo vuole dire che – almeno per semplici azioni come quelle oggetto di questo studio – l’attribuzione di intenzioni si verifica automaticamente ed è messa in moto dall’attivazione obbligatoria di un meccanismo di simulazione incarnata.

Secondo questa prospettiva, la comprensione di azioni e l’attribuzione di intenzioni sarebbero fenomeni collegati, sostenuti dallo stesso meccanismo funzionale, la simulazione incarnata.In contrasto con quanto affermato dalla scienza cognitiva classica, la comprensione di un’azione e l’attribuzione di intenzioni – almeno di intenzioni semplici – non sembrano appartenere a domini cognitivi diversi, ma entrambi concernono meccanismi di simulazione incarnata sostenuti dall’attivazione di catene di neuroni specchio logicamente collegate (Gallese 2000 et succ.).

Per lanciare il dibattito:

Molte ricerche sono sul tappeto in molti campi delle neuroscienze  e riguardano sia l’interrelazione fra  psicopatologie di grande portata (quali depressione, autismo, schizofrenia,), che  in generale lo sviluppo dell’attività mentale nelle sue fasi evolutive, dalle acquisizioni basali al  funzionamento proposizionale, in funzione dello sviluppo del Sé e della soggettivazione.

Alcuni  nodi da sciogliere riguardano lo sviluppo, il controllo, la corrispondenza, la genetica  dei vari modelli presentati ma, soprattutto, a mio parere, le dimensioni da tenere costantemente dentro al nostro sapere più squisitamente  psicoanalitico sono le seguenti:

  • acquisizione dei dati riguardanti la plasticità del sistema nervoso ed il suo legame con il sistema emozionale e soprattutto con la memoria.
  • dibattito intorno  alle  interazioni con il  sistema cognitivo superiore (dimensione terziaria) capace di inibire o facilitare i circuiti sottostanti (controllo e integrazione fra dimensione conscia e inconscia)
  •  la dimensione della coscienza e quindi della soggettivazione (selfhood, e quale ruolo svolge l’azione  nella loro costituzione ed evoluzione? Mera funzione esecutiva o schema primordiale di conoscenza implicita che organizza e promuove il Sé e la differenziazione dall’altro?
  •  Quale il ruolo delle emozioni e sentimenti: intrasformabilità dei sistemi (quindi non  trasformabilità della coazione a ripetere) o possibile attivazione di nuove forme di controllo che ovviano al meccanismo dell’intrasformabilità?

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Amedeo Falci –  Verso una naturalizzazione della psicoanalisi? Le implicazioni dei “sistema mirror”  e   della “simulazione incarnata” sulla metapsicologia e sulle teorie psicoanalitiche contemporanee.  – vai alle diapositive

   

Malgrado i riconoscimenti abbastanza diffusi della scoperta dei sistemi mirror [SM] da parte della cultura psicoanalitica internazionale, ed  italiana, l’accettazione e il plauso non sono stati  accompagnati da adeguate riflessioni circa la loro effettiva portata sullo stato delle  principali teorie psicoanalitiche. Anche quindi per le ricerche sui SM è possibile che si assista a quella sovrapposizione co-abitativa dei molti modelli epistemici in PSA, che forse poteva essere stata una volta una ricchezza, ma che adesso aggrava quella condizione eclettica, o di scienza di sintesi, che caratterizza ed impedisce la potatura e lo snellimento e la verifica dei modelli psicoanalitici.

Individuerei almeno sette punti critici sulle ‘frizioni’ tra le implicazioni teoriche delle ricerche sui mirror neurons [MN], sulle teorie e sulle concezioni della mente espresse dalla psicoanalisi. Riassumendo da  un lavoro più articolato tali punti sono:

1  Rapporti tra metodologia empirico-sperimentale e metapsicologia. Scienza naturalizzata contro scienza metafisica.

Il Progetto di una psicologia (1895)  rappresenta un apice incompiuto ed un congedo rispetto ad una concezione di una ‘Psicologia della Natura’. Freud si dirige verso una nuova psicologia, oltre-la-natura, basata sulla «costruzione di una realtà soprasensibile, che la scienza deve ritrasformare in psicologia dell’inconscio»  (Freud S.lettera a Wilhelm Fliess del 2 aprile 1896, p. 138).

2  Il ruolo della senso-motricità nella neurobiologia della embodied simulation ed i modelli psichici della psicoanalisi.

Un approccio alla cognizione legato alla corporeità e alla sensomotricità (embodied representation) e ai contesti ambientali dei soggetti (embedded representation ), rimanda ad un altro  modello rappresentazionale, non ‘alto’  e simbolico, ma ‘basso’, subsimbolico, e non proposizionale, come dimostrato dalla ricca ricerca sui mirror neurons (vedi Rizzolatti e coll. 1996, 2006).

Le acquisizioni sui SM rilanciano, all’opposto, l’importanza del percettivismo motorio,  dimostrando che tali livelli percettivo-motori, non sono alla periferia marginale del sistema inc, ma sono essi stessi già funzionamenti mentali inconsci integrati, prima della mediazione di strutture inconsce ‘alte’ o centralizzate.

3  Implicazioni neuro funzionali tra modello percettivistico-motorio e modello centrale-cognitivo. Inconscio dislocato contro inconscio centralizzato.

  1. Il modello metapsicologico ha uno scorrimento top-down, dal centro, vera sede delle rappresentazioni inconsce, alla periferia, per cui le percezioni emozionali dell’ altro sono elaborate e decodificate da centri corticali in alto, e quindi smistate di nuovo in efferenze sensoriali, emozionali, motorie.
  2. Nell’altro modello, con orientamento bottom-up, le periferie senso-motorie sono le basi delle consonanza emozionale, e quindi le zone delle prime regolazioni inconsce; per cui le percezioni emozionali altrui, attivano una simulazione incarnata attraverso le proprie aree senso-motorie emozionali, che sarà alla base di successivi consolidamenti delle consonanze affettive verso le aree corticali superiori.

4  Come cambia radicalmente il concetto di rappresentazione. Modelli psicoanalitici e  modelli neurofunzionali.

Il freudiano Vorstellungen, nasce  come termine filosofico,  siognifica ‘rappresentazioni ideative’ o, in breve, ‘idee’. La rappresentazione percettivo-motoria delle embodied simulation, è rappresentazione interna della sequenza intenzionale presente nell’ attivazione dei mirror neurons. Non va intesa nel senso empirico di imago dell’ oggetto, né come rappresentazione proposizionale, ma come uno schema funzionale, di  una  struttura d’informazione, che è preformata per rispondere, secondo una certa codifica, all’esperienza.

5  Base naturalizzata delle emozioni e delle regolazioni emozionali. Emozioni come attivazione di stati corporei a valenza comunicativa. Falsificazione degli  affetti come quantità e come scariche.

Il nodo degli affetti in psicoanalisi – Freud usa Affekt  (scarica, eccitazione), che differenzia da Gefühl  (emozione) – rende difficili i confronti con le attuali concezioni delle emozioni, oggi intese come flussi di stati somatici soggettivi a valore comunicativo intersoggettivo, e non come scariche.

Oggi consideriamo le emozioni come mutamenti o flussi o attivazioni di stati corporei, quindi di stati della mente. Stati soggettivi, a carattere diffuso, non verbali, non rappresentazionali-simbolici, non discreti, non categoriali. Regolazioni omeostatiche neurobiologiche, fisiologiche, esperienziali, comportamentali ed espressive. Regolazioni interne relative a eventi di disequilibrio intra o extraorganismico. Ma anche mezzo atto a favorire una più  rapida trasmissione dei bisogni in condizioni di emergenza o di natura ambientale o di natura interna, una più rapida valutazione della propria condizione interna, una più rapida risposta adattiva, ed una più rapida   comunicazione tra i membri della stessa specie.

6  L’opzione forte verso una matrice sociale ed intersoggettiva della mente.

L’ipotesi è che i MS siano sistemi integrati tra la sintonizzazione con le intenzioni altrui ed un nascente senso di sé. Le consonanze con gli altri non vengono lasciate alle improvvisazioni, ma vengono memorizzate secondo livelli rappresentazionali sempre più complessi, secondo mappe di intenzioni, neurali, con livelli di complessità sempre maggiori, che costituiscono la nostra rete di rappresentazioni del mondo relazionale e personale.

7 Se e come le  ricerche neurobiologiche rimodellano le epistemologie scientifiche della psicoanalisi.

Gli avanzamenti delle NSC, e delle scienze della mente in generale, possono essere integrate al corpus teorico e clinico della PSA? Oppure i riferimenti alle scienze della mente servono come modelli epistemici con cui confrontare le concezioni epistemiche della PSA?

 

 

 

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Cristiana PirrongelliUna relazione analitica nell’ottica neuro-psicoanalitica

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Viene riportato un caso clinico  reinterpretato alla luce delle suggestioni e dei dati delle “Affective Neuroscience” di  Jaak Panksepp, le cui ricerche più note sono relative alla localizzazione, alla funzione e alle conseguenze relative all’esistenza di sette emozioni di base localizzate nelle zone più profonde e filogeneticamente più antiche del cervello e che condividiamo, a suo parere, con tutti i mammiferi e con parte delle altre specie animali. Secondo Panksepp si sono selezionate nel corso di milioni d’anni per permettere all’uomo e agli animali di sopravvivere. Questa “mente” affettiva o emozionale è stata studiata sull’uomo attraverso esperimenti su animali e sulle loro emozioni. L’aspetto più rivoluzionario di questo studio delle emozioni di base è che in questa parte più antica e primitiva del cervello, alberghino non solo  le emozioni di base ma anche i feelings,i sentimenti emozionali, cioè le emozioni soggettive. Tali emozioni sono sette: Seeking, Rage, Fear, Lust, Panic-Separation, Play e infine il Care, il sistema dell’accudimento primario, mediato da vari ormoni come l’ossitocina e gli oppioidi endogeni e su cui verterà la descrizione del caso, con particolare riferimento al concetto di “finestra di legame”.

 

 

 

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Anatolia SaloneIl Default Mode Network: Correlato Neurale o Predisposizione Neurale?Vai alle diapositive

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La neuropsicoanalisi, focalizzata soprattutto sul link tra concetti psicoanalitici e specifici meccanismi neurali, sta andando verso una riconciliazione tra biologico e psicologico generatasi dopo l’abbandono da parte di Freud del Progetto ( 1895), in favore di una metapsicologia. Ricorda che le neuroscienze  sono andate oltre i tradizionali confini dei campi delle scienze cognitive (linguaggio, memoria, attenzione, percezione) per arrivare ad  uno studio più approfondito di specifici disturbi psichici e l’analisi dei substrati neurali sottostanti al cambiamento in risposta ad una psicoterapia. Molti studi sono stati compiuti in quelle aree di ricerca neuroscientifica che dialogano meglio con la metapsicologia psicoanalitica (Fotopoulou, 2013. «From the couch to the lab»)

Viene riportata quindi la fondamentale affermazione di Panksepp e Solms (2012) a proposito del ruolo della neuropsicoanalisi che deve porsi come obiettivo principale l’introduzione dell’esperienza in prima persona nell’approccio allo studio della mente umana, al fine di comprendere meglio il livello emotivo soggettivo e promuovere, dunque, interventi terapeutici più personalizzati.

Tutte le evidenze neuro scientifiche vanno nella direzione di un superamento dell’ approccio topografico e basato sulla funzione, in favore dello studio dei vari network neurali e delle loro interazioni. Tale approccio sembra  attualmente rappresentare il modo migliore per studiare il complesso funzionamento cerebrale alla base delle  funzioni psichiche.

Riguardo alla nuiova frontiera della connettività, ne sono stati identificati tre diversi tipi di: 1)  Anatomica, tra popolazioni neuronali o regioni cerebrali natomicamente definite. 2) Funzionale, cioè l’insieme delle correlazioni statistiche tra aree cerebrali distinte, attivatesi durante un compito o a riposo.3) “Effective Connectivity”, definita come l’interazione causale tra specifici gruppi di neuroni.

Sono stati presentati due tra i principali  network neurali: il DMN (Default Mode Network) e le CMS (Cortical Midline structures).

Il DMN  è un network che mostra maggiore attività BOLD (Blood Oxygen Level Dependent) durante lo stato di riposo ed è anticorrelato, cioè si spegne, davanti ad un compito attivo finalizzato, ad opera dei Task Positive Networks. Il DMN formerebbe parte del substrato neurale alla base della memoria autobiografica e della cognizione sociale. Un’alterata connettività tra DMN e sistema limbico, e un’alterato funzionamento del DMN, sembrano essere collegati con sintomi psicotici e schizofrenia.

Le CMS sono invece un network caratterizzato da un’attivitàBOLDnegativa di fronte ad alcuni compiti emotivo-cognitivi, sono considerate insieme ad altre aree corticali, come parte del DMN.Northoff (2012) ha suggerito che le CMS possano rappresentare il correlato neurale del “core self”, definito da Damasio come la continua interazione tra stimoli entero e esterocettivi. Il funzionamento opposto del DMN e del Control Executive Network (CEN) può essere considerato il correlato neurale dell’interazione tra contenuti mentali interni ed esterni.

La confusione tra interno ed esterno, proprio e altrui, tipica delle psicosi, può essere collegata allo sbilanciamento dell’interazione tra il DMN e il CEN. Diversi studi hanno dimostrato un’alta attività nel resting state ed un’elevata connettività funzionale nella corteccia uditiva durante le allucinazioni uditive, oltre ad un aumento di sincronizzazione in banda alfa.

Un’alterata connettività tra aree limbiche e DMN può condurre ai sintomi psicotici caratterizzati da un pensiero aderente al processo primario.

Nella schizofrenia la connettività funzionale a riposo tra CMS e DMN aumenta,  mentre quella del CEN diminuisce.

E’ stato  quindi da lei introdotto, un nuovo concetto principalmente legato a Northoff, il quale ritiene superata la nozione di Neural Correlates of  Psychodynamics  (NCP) a favore di una Neural Predisposition of Psychodynamic(NPP). Quest’ultima si riferisce all’attività cerebrale a riposo e alla sua struttura spaziotemporale, una struttura virtuale che è il risultato delle due attività principali del cervello a riposo: 1) Le  fluttuazioni a bassa frequenza. 2) La connettività funzionale tra le diverse aree. Gli stimoli interni ed esterni e la loro distribuzione nello spazio e nel tempo vengono continuamente elaborati ed integrati nello stato di riposo, con una continua interazione tra cervello, corpo ed ambiente esterno. Può essere comparato al concetto freudiano dinamico di “struttura psicologica dell’apparato psichico”, nel senso che la visione freudiana di struttura e organizzazione psicologica rende possibile e predispone specifiche funzioni psichiche.

  • In patologie come la depressione c’è un’anomalo aumento dell’attività delle CMS durante il rest e un aumento del self-focus e il disinvestivento sul mondo esterno. Quanto queste alterazioni della struttura spaziotemporale corrispondono a cambiamenti delle caratteristiche spaziali e temporali della percezione di sé e del mondo esterno?
  • Nelle psicosi, dove è dimostrato uno sbilanciamento dell’interazione tra CMS e altri network sottostanti ad attività attentive e cognitive, quanto la struttura spaziotemporale incide su tutto ciò? Parlando in termini di Neural Predisposition, è ipotizzabile che l’alterazione della struttura spaziotemporale rappresenti una «predisposizione» che si genera precocemente e precede di molto la comparsa dei sintomi. La neural  predisposition descrive la condizione del cervello che prepara, dispone, alle varie funzioni psicologiche. Si ipotizza che un’alterazione della struttura spazio-temporalerappresenti una propensione o condizione favorente generatasi precocemente  e che può precedere anche di molto la comparsa di sintomi. A tale scopo è necessario mettere a punto lo studio dei fenotipi intermediper una pronta individuazione delle patologie a rischio di futura comparsa.

Si invita infine con forza la PSA ad inserirsi sugli studi riduzionistici delle neuroscienze pena la scomparsa della psicoanalisi  a favore della sopravvivenza delle neuroscienze  e del cognitivismo.

 

 

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Teodosio Giacolini La neurobiologia comportamentale della aggressività.

Vengono illustrati due apporti  significativi alla psicoanalisi derivanti dal lavoro di Darwin, e divenute pietre angolari della costruzione freudiana: la attenzione alla dimensione evolutiva, ontogenesi, che ripropone nei vari stadi evolutivi le acquisizioni successive della storia della specie umana, filogenesi. L’altro  pilastro di derivazione darwiniana, la presenza motivazionale nella teoria psicoanalitica di due istinti, quello di autoconservazione e quello sessuale. Il lavoro ha quindi evidenziato come la aggressività, pulsione che nella Prima teoria pulsionale Freud aveva collocato darwinianamente tra le pulsioni di autoconservazione, venne poi collocata a se stante nella seconda teoria pulsionale, denominata Istinto di morte. Questa teorizzazione della aggressività, decontestualizzata da ogni matrice biologica, ha contribuito a potenziare il distacco della psicoanalisi dalle scienze biologiche. 

Il lavoro ha quindi preso in considerazione gli attuali studi sulla aggressività in ambito biologico. Un autore di riferimento è A. Siegel, con il suo libro The Neurobiology of Aggression and Rage, e J. Panksepp con Affective Neuroscience. Il primo ha contribuito in modo sostanziale ad individuare e circoscrivere  due tipi di aggressività presenti in tutti i vertebrati, compresa la specie umana,  la Aggressività difensiva, con circuiti specifici e che si attiva in ogni situazione di frustrazione e minaccia, e la Aggressività predatoria, caratterizzata da una mancanza di attivazione dell’asse dello stress e da una significativa embricazione con il sistema dopaminergico, quello che Panksepp denomina Seeking System. 

E’ stata, quindi, portata l’attenzione su un terzo tipo di aggressività, anch’essa presente in tutti i vertebrati e dunque nell’uomo:  l’aggressività deputata alla regolazione delle interazioni tra individui sessualmente maturi, e che ha la funzione di regolare l’accesso alle risorse alimentari e sessuali.  Già individuata da Darwin come una componente fondamentale della selezione sessuale, questo istinto è stato studiato soprattutto dagli etologi e quindi dai neuroetologi. Essa è stata denominata, a seconda delle specie in cui è stata studiata, agonismo territoriale, agonismo per la dominanza di rango, sistema motivazionale agonistico. Essa fa parte dei sistemi istintuali che regolano la vita di relazione, insieme al sistema motivazionale dell’attaccamento, dell’accudimento ed a quello sessuale. Il sistema motivazione agonistico  è caratterizzato da una alta componente di ritualità, dunque di segnalazione protosimbolica, attraverso cui si esprimono sia la componente aggressiva vera e propria, responsabile della sfida agonistica, sia quello della paura, responsabile della segnalazione al contendente della sua supremazia. Tale segnalazione blocca l’aggressività del vincitore, mentre nel perdente il prezzo di tale sconfitta è una potente attivazione dell’asse dello stress, ed una deplezione di sostanze quali soprattutto la dopamina e la serotonina. Il lavoro ha dunque illustrato lavori di ricerca su come il Social defeat, ovvero l’esperienza ed il sentimento di sconfitta, siano, soprattutto in adolescenza, fattori di rischio sia per la vulnerabilità all’uso di sostanze che per i breakdown psicotici.

 v. anche, di T.Giacolini, il testo della relazione presentata nel 2010 al CdpR

 

 

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Discussione mattutina

 

 

Amedeo Falci: Penserei a due opzioni su cui dirigere la nostra riflessione: due direzioni emerse, penso, dalla giornata di oggi. Intanto una  premessa, la seguente: tutto questo raggruppamento di altre scienze, mi riferisco non sono soltanto alle neuroscienze ma anche alle scienze della mente, alle filosofie della mente, alle altre psicologie, cognitive, sociali, e alla neurobiologia, una serie di discipline prossimali, confinarie della PSA, produce pacchetti di competenze che non sono le nostre, a cui non possiamo accedere direttamente, ma che possono solo essere oggetto di divulgazione ed informazione  da parte di un gruppo di lavoro interno alla nostra Società. Penserei ad un gruppo informativo che faccia una sintesi annuale di alcuni degli avanzamenti in tali campi, un po’come le selezioni dei migliori articoli  psicoanalitici internazionali.

Da questa premessa emergono le opzioni. La prima: utilizzeremo questi pacchetti di informazioni per inserirli  nel corpo della PSA secondo  quel modello di scienza di sintesi di cui, in fondo, Freud fu grande maestro? Una capacità di sostenere la validità delle teorie psicoanalitiche con una enorme quantità di dati, da campi disparati, spesso raccolti con eccessiva disinvoltura, sovente con poco rigore, e con una evidente piegatura ideologica ai fini di coonestare le sue congetture. Scienza di sintesi, appunto,  nel senso di un utilizzo di una vasta eterogenea estensione di materiali, dall’antropologia, dall’archeologia, dalla letteratura, dalla biologia naturalistica del momento, per farne un corpus giustificativo della sua scienza. È in questa stessa direzione, quindi, di un appoggio giustificativo esterno alla PSA,  che ci dovremmo muovere con gli avanzamenti nelle NSC e nelle scienze della mente? Oppure – ed è la seconda opzione –  queste ricerche costituiscono degli inevitabili termini di verifica di alcune formulazioni  teoriche della psicoanalisi. Ad esempio, per utilizzare il seminario odierno, le acquisizioni in tema di aggressività umana proposte dall’intervento di Giacolini,  sono aggiungere al corpus delle concezioni sugli istinti aggressivi della PSA, ovvero entrano  in conflitto con esse e le falsificano in parte o in toto?  Le stesse considerazioni si possono fare sugli avanzamenti sul tema dei  neuroni specchio. Questi avanzamenti modificano le concezioni epistemiche alla base della PSA? O, semplicemente, si vanno ad aggregare al corpus classico delle concezioni della psiche del 1899? Voi capite che la seconda opzione è molto più complessa, e non è un’operazione di un piccolo gruppo di lavoro. Mi parrebbe, piuttosto, un’operazione che, ove condivisa dalla comunità degli psicoanalisti, richiede tempi di mutamenti culturali e scientifici per almeno una o due generazioni di nuovi psicoanalisti. Ma si può comprendere come, inaugurando questi tavoli di confronto con i dati delle moderne scienze della mente, si aprano confronti e verifiche su tutti i concetti cardinali, teorici e clinici, della PSA. Citerei, per la sua popolarità, l’area dell’identificazione, e soprattutto l’area dell’identificazione proiettiva  [IP], che ha costituito certamente uno dei grandi punti di svolta teorico-clinica per la PSA. Mi parrebbe una palese crisi dello junctim freudiano, che non mi risulta mai essere stato segnalata da nessuno, che pur utilizzando ad abundantiam  il concetto di IP, la PSA stessa non sia mai riuscita a spiegarne il funzionamento, relegandolo in quella zona tra il magico e la ‘trasmissione del pensiero’, di marca esplicativa assolutamente prescientifica. Ma questi meccanismi identificativi a distanza, mi pare persino banale dirlo,  hanno trovato collocazioni esplicative più chiare nel momento in cui si è compreso – attraverso altri modelli psicologici e comunicazionali – che la mente non ‘trasmette’ proprio nulla (e come potrebbe?),  semplicemente perché siamo noi che ‘leggiamo’ (incosciamente) i segnali corporei dell’altro. Questa acquisizione  semplice,  fa crollare tutta l’impalcatura mistico-parapsicologica del mandare segnali a distanza, rivoluziona la prospettiva relazionale in PSA,  e reinveste tutta l’area delle relazioni dei bambini e caregivers, perché distrugge l’ipotesi romantica di madri sognanti in favore di madri ben attente ed in grado di ‘tenere, sostenere e leggere’ il proprio bambino.  L’ IP, così riconsiderata, sarebbe un grande ombrello concettuale sotto cui sarebbero rintracciabili  vari e differenti fenomenologie di tipo empatico, di sintonizzazione e regolazione emozionale reciproca. Quindi voi capite che alcuni strumenti della psicoanalisi rimangono clinicamente utilizzabili, come i fenomeni identificativi; è tuttavia la loro spiegazione scientifica che muta, o almeno è la loro spiegazione che esce dall’oscuro ed assume, attraverso l’apporto di altri studi,  veste scientifica. Nulla si trasmette perché i pensieri non si trasmettono (fino a prova contraria!), sono le emozioni ad essere strumenti comunicativi sociali, che siamo specializzati a leggere (e a fraintendere). Il punto è come inserire questi cambiamenti epistemici nel corpo della psicoanalisi, visto che non siano sperimentalisti, ma solo terapeuti clinici, e come effettuate questi inserimenti in una prospettiva di revisioni teoriche accettabili dalla nostra comunità scientifica.

 

Alessandro Bruni: L’amicizia che condivido con Falci mi permette di contestare questa sicurezza che non ci sarebbe una trasmissione o l’identificazione non sarebbe come Bion propone: l’identificazione è un’azione. I pensieri si trasmettono. Noi dobbiamo fare attenzione a non essere troppo precipitosi. Pensiamo ad un campo futuro, campo unificato della mente, che possa comprendere ogni disciplina. Penso alle cose che ha argomentato Carla de Toffoli, penso a quei dati dei fisici quantici di Stanford che hanno studiato come il cuore di due persone che vicine sono in grado di influenzare il cervello. Il cuore ha un minicervello di 40.000 neuroni che permette al feto di far battere il cuore prima ancora che il sistema simpatico e parasimpatico siano in grado di organizzare il battito. Il cuore ha attorno un campo magnetico molto ampio e mi chiedo come possa influenzare i neuroni specchio. Esiste un tipo di tachicardia parossistica legata alla persistenza nel sistema di conduzione cardiaca di un fascio di condizione occulto, di Kent, residuo embrionale [nota del curatore: si tratta della Sindrome di Wolff-Parkinson-White ]. C’è chi dice che il battito del nostro cuore continui anni dopo la nostra morte. Freud scrive il Progetto sotto cocaina e 15 giorni dopo prega Fliess di buttare tutto essendo caduto in crisi depressiva. Abbandonò i Neurotica perché capì che non poteva avere una visione binoculare.

 

Giorgio Mattana: Mi chiedo perché la psicoanalisi faccia fatica ad integrare le acquisizioni delle NSC? Credo sia perché gli psicoanalisti non hanno una teoria della mente, una teoria della relazione tra mente e cervello. Hanno invece un’idea della mente come qualcosa che nasca dal cervello, ma che non sia più qualcosa di fisico. In breve credo che anziché nutrire una concezione monista, la PSA sia marcata da una forma di dualismo un po’ mascherato. Quindi anche i passaggi  psicosomatico-somatopsichico mi sembrano  implicare, piuttosto che una concezione continuista, un salto fra ordini diversi. Sull’altro versante delle NSC  c’è il riduzionismo che di per sé non è cosa negativa se vero, sostenibile, plausibile, argomentabile. Le due forme di riduzionismo dominanti che ci sono oggi in filosofia della mente, che tra l’altro è spesso la grande assente in questi discorsi, sono 1) la teoria dell’identità e 2) il materialismo eliminativo. Ad entrambe sono state mosse grandi obiezioni. La filosofia della mente contemporanea, che è un campo disciplinare che coinvolge psicologi, cognitivisti, neuro scienziati e filosofi, oltre che a fornire delle categorie che servono a pensare a questi rapporti complessi fra mente-corpo, mente-cervello, offre anche qualche soluzione per descrivere il mentale. Il cosiddetto funzionalismo, cioè equiparare la mente ad un software che gira nell’hardware generale, permette di salvaguardare un’autonomia descrittiva ed esplicativa del mentale senza ricadere nel postulato “la mente come una sorta di spirito disincarnato, realtà immateriale, indipendente dal punto di vista ontologico del corpo”. Muovendosi in questa direzione, anche se Damasio e Edelman criticano molto l’analogia mente-computer, software nell’hardware, questo tipo di ontologia mentale anche senza equiparazione mente-computer, secondo me è la chiave di volta di questo problema. Su questa base la PSA può percepire i risultati delle neuroscienze come degli stimoli utili, da tradurre nel suo linguaggio “mentalistico” e da mettere alla prova clinicamente. L’inconscio neuroscientifico e quello cognitivo a  mio avviso, non coincidono con quello psicoanalitico. Come dicono alcuni filosofi della mente tipo Dennett, l’inconscio cognitivo è un inconscio sub o pre-personale. A livello cerebrale non c’è Sé, ci sono i presupposti materiali del Sé.

 

Amedeo Falci: La distinzione tra livelli di rappresentazione personale e livelli di rappresentazione sub-personale, a cui accenna Mattana è molto importante. Noi psicoanalisti, ci riferiamo sempre a pensieri (anche inconsci) espressi in un’organizzazione  linguistica di noi come ‘persone’, come “io odio mia madre”. In realtà i formati logici delle rappresentazioni, non sono enunciati personali, perché trascritti in un linguaggio sub-personale, come procedure di calcolo. La psicoanalisi è una tecnica sofisticata per trattare racconti umani, anche inconsci. Offre  ricostruzioni narrative di ordine personale. Qui c’è evidentemente un salto, tra le proposte narrative ed i linguaggi sub-personali, che appartengono alle codificazioni biologiche. A questi livelli basici, procedure come regolazioni  molecolari o enzimatiche non possono più essere competenza della PSA. Se qualcuno mi chiedesse come stanno le mie transaminasi, non potrei ‘raccontare’ proprio nulla di esse, perché il livello delle loro regolazioni mi è inaccessibile (tranne che attraverso saltuari dosaggi ematici). Le transaminasi non sono un oggetto mentale perché non sono delle idee. Le  procedure subpersonali non sono leggibili nei termini della narrativa umana.  E questa però è una nuova frontiera: a quale livello di ‘profondità’ opera la PSA?

 

Alessandro Bruni: D’accordo con quanto detto. Ma, citando Damasio, che scrive “L’errore di Cartesio”, ci ricaschiamo sempre. La Dickinson nella sua poesia  “il cervello è più grande del cielo”, dice che  la mente interferisce con una dimensiona altra. Edelman dice: alcuni sistemi neurali che sottendono la scelta cosciente sono in grado di agire su altri sistemi neurali. E questo Freud l’aveva già detto nel Progetto della psicologia. Alcune zone dell’apparato nervoso sostengono una certa attività. Difficile abbandonare questa visione cartesiana. Tutte le produzioni della mente sono prodotti della mente e sono sostenuti da reti neurali che si influenzano reciprocamente. L’informazione è diffusa in modo olografico e non è così facilmente rintracciabile.

 

Anna Maria Nicolò: vorrei rientrare sull’ultima affermazione fatta riguardante il fatto che la psicoanalisi nella realtà, si occupi di narrative. Nei molti incontri è venuto fuori che c’è molto di più dell’interpretazione, che è sempre utile ma che nessuno di noi crede sia l’unico strumento che abbiamo. Andare anche al di là delle narrative è molto importante e tocca anche queste nuove ricerche.

 

Arrigo Bigi: oggi sono qui perché volevo sentire da chi si interessa di psicoanalisi e neuroscienze cosa avevano da dire. Il mio modo di percepire, costruire un modello di lavoro non dimentica mai che noi lavoriamo con gli umani. Contento di vedere che parte degli esperimenti che vengono fatti a livello neuroscientifico non si occupino solo di animali ma anche, ad esempio, di adolescenti. Ultimamente uno di voi (Giacolini) parlava  del livello di dopamina che cala in una situazione di dipendenza. Bisogna dire: “è nato prima l’uovo o la gallina?”. C’è qualcosa che negli adolescenti va a ricercare una situazione di rapporto di dipendenza che ci porta a una diminuzione di dopamina, o invece, in maniera riduzionistica, c’è una riduzione di dopamina quindi io divento dipendente? La mia curiosità sta in ciò che Falci ha detto a proposito del fatto che  bisogna andar piano a parlare di IP. Io l’ IP la ricerco sempre quando c’è un setting e un lavoro col mio paziente, non la vado a ricercare nei salotti. Andrebbe fatta questa distinzione. Chiunque ne abbia parlato lo ha sempre fatto a livello del setting.

 

Amedeo Falci: Segnalavo l’ IP come esempio di separazione tra gli usi clinici e le ipotesi sul suo funzionamento. E’un concetto cardine nella clinica ed il suo  uso clinico non cambia; cambierebbe il modello con cui spiegarla. Ho anche espresso l’idea che sia un concetto ombrello sotto cui sono varie sottospecificazioni relative ai fenomeni di comunicazione empatica, che non hanno a che fare con la trasmissione ‘a distanza’ giacché il pensare non ‘esce’ dal ns corpo (sempre fino a prova contraria!) Siamo semplicemente animali mentali altamente specializzati nella lettura dei segnali emozionali corporei e linguistici. Per fare un esempio apparentemente paradossale, alcuni pazienti mi possono ‘leggere’ subliminarmente  come distratto, perché troppo immobile, anche nei casi in cui io riterrei di essere  mediamente ‘presente’. Un eccesso di immobilità può venire processato in maniera subliminale come elemento di preoccupante eccessiva immobilità dell’analista, perché il paziente non avverte quei fruscii minimi che fanno parte del ‘rumore di fondo’ minimale che emette ogni corpo umano ‘emozionalmente vivo’. Quest’attento monitoraggio inconscio alla  semiotica emozionale del corpo è l’elemento specializzato che viene attivato nel setting analitico, e diciamo che è parte della c.d. IP.

 

Teodosio Giacolini: Infatti come presso nei primati il grooming (la pulizia reciproca del pelo) è un segno di un interessamento e di una cura reciproci,  il silenzio e l’immobilità  possono essere fraintesi e decodificati, nella situazione analitica, come essere distaccati. Devo anche aggiungere rispetto agli interventi di Alessandro (Bruni), come la sua impostazione possa creare problemi con  la dimensione neuroscientifica. Cioè, usare come esempi singole situazioni isolate, ai margini della scienza, mi pare crei conflitti con alcune discipline di accreditata tradizione scientifica, che datano ormai da un secolo, come l’etologia; scienze che hanno un patrimonio di osservazioni coerenti, non singolarità disperse, come quelle che mi  pare tu citi. In breve, dobbiamo affidarci a discipline che hanno una solida tradizione di studi e ricerche e conferme e disconferme, esattamente come è per le scienze mediche. Poi c’è tutta la problematica dell’istinto. Sicuramente la psicoanalisi ha a che fare con l’assunto di attaccamento-accudimento, è “specializzata”, avrebbe  detto Bion, sulla dimensione, direi, dell’accoppiamento, ma fondamentalmente anche sulla dimensione della dipendenza. Il complesso di Edipo della tradizione psicoanalitica è legato al sistema motivazionale etologico della dominanza di rango: cioè l’aggressività viene recuperata nel transfert perché fu sperimentata illo tempore nelle relazioni primarie di avversività verso i genitori di sesso opposto, detto con estrema sintesi. Altro ancora è la teoria del sistema motivazionale agonistico; Lorenz dice che è il regolatore delle  nostre possibilità di vertebrati di stare in gruppo, cioè il riconoscimento dell’avversario, cosa che ci permette di stare insieme e di dividere risorse; ma questo che vuol dire? Clinicamente come si fa a lavorare su questa cosa? Vi si possono leggere tracce del transfert? Ed ancora, l’antinomia tra accudimento ed agonismo è micidiale.  Se i genitori, se i care-giver sono fatti per il sistema del Care, l’aggressività dove si colloca? La si può concepire, ma non si tratta della stessa aggressività che va maturazione con l’organizzazione sessuale e che è determinante nella selezione sessuale. È un’ altra componente della filogenesi. Qui si aprono degli interrogativi importanti, ma l’importante è fare riferimenti  a fenomeni su cui c’è una tradizione di osservazione olistica ,  come nella clinica,  se si vanno a citare spot anche interessante ma isolati, allora vaghiamo nell’ aneddotica.

 

Giampaolo Sasso: Volevo innanzitutto ringraziare la dr.ssa Pirrongelli per il suo lavoro a cui vorrei  riagganciarmi. Mentre parlava, io riflettevo ad alcuni usi linguistici come: “quella cosa mi ha toccato”. Io credo che le cose che lei ha descritto dipendano da quella grande potenzialità della “sinestesia” tra i vari canali sensoriali che noi conosciamo nello sviluppo del bambino. Anche se riteniamo che una delle caratteristiche della maturazione sia la capacità di arrivare ad operazioni di distinzione, dimentichiamo che in realtà, anche a maturità raggiunta, questi processi sinestesici di base funzionano, sono continuamente presenti, sostenendo aspetti relazionali molto distribuiti in tutti i campi della comunicazione sia verbale sia non verbale, mentre non ce ne accorgiamo semplicemente perché siamo educati  ad esprimerci attraverso pensieri. Detto questo però, volevo riagganciarmi al problema della comunicazione fra persone e soprattutto per spiegare perché io tenga a dare come risposta la seconda opzione rispetto a quelle proposte da Falci. Ritengo sia necessario, senza introdurre modalità troppo critiche, far capire come sia più conveniente una potenziale modificazione di certi assunti diciamo così definitori-teorici, per circoscrivere il rischio che oggi corre la psicoanalisi di trovarsi in uno stato di arretratezza scientifica  rispetto  alle neuroscienze, senza poter mantenere un tavolo di dialogo, di questioni e risposte, con le NSC. Faccio un esempio proprio partendo dall’IP. Quando mi sono avvicinato a questi problemi più di 15 anni fa, avevo come scopo proprio di tradurre l’ IP in un modello neurofisiologicamente attendibile che fosse però sufficientemente ricco da spiegare tutti i processi che osserviamo nella clinica. Questo modello neurofisiologico si aggancia ai problemi della rappresentazione. Nella mia Società (SIPP), queste problematiche di interesse neuroscientifico dieci anni fa forse erano ritenute interessanti, per esempio avevo invitato Gallese in un seminario proprio nella nostra Società. Successivamente c’è stato un decadere progressivo delle aspettative  di un contributo da parte delle NSC, che poi a loro volta si sono radicate in questo trend di ricerca dei neuroni specchio, che tuttavia corre il rischio di essere riduttivo. Quindi, nel lavoro clinico con i miei colleghi ho rinunziato a parlare delle NSC. Però nella mia mente i temi neuroscientifici  mi sono di grande vantaggio perché mi hanno creato un filtro particolare su alcuni processi su cui riconosco l’interesse di altri colleghi. Ad esempio il tema della fusionalità nello sviluppo primario. Io ritengo che la fusionalità sia una struttura ipercomplessa di comunicazioni che si formano tra il bambino e la madre, e, detto questo, la mia mente è stata pian piano fecondata dalle cose che sapevo delle NSC ma senza che le trasferissi immediatamente, come se avessi due campi di lavoro mentale, e lascio che essi comunichino anche quando non capisco. Si potrebbe  tradurre questo in quello che si chiama attività onirica, ma in realtà no, si tratta di sostare in uno stato di sospensione, di saturazione provvisoria. Tornando alle comunità scientifiche, ci sono degli steps che vanno rispettati. Nessuna società psicoanalitica potrà mai accettare che le neuroscienze siano fecondanti se la PSA non affrontano, prima, anche il modo di integrare così tanti modelli psicoanalitici. Per esempio il Default Mode Network di cui abbiamo sentito parlare oggi, è la cosa che più in questo momento mi interessa, perché in qualche modo mi sembra che ci debba essere nel feto un’oscillazione tra sistema frontale e occipitale. Poi , la possibilità che tra adulti venga trasmesso non tanto il pensiero, ma tutta quella serie di segnali cui Falci accennava, tra cui i segnali interni alla comunicazione linguistica,  dipende dal fatto che la struttura nervosa integrandosi sin dall’inizio (ma integrandosi male perché alla nascita il sistema nervoso è molto fluido), pian piano raggiunga dei centri più stabili e certamente le parole lo sono. È ovvio che bisogna avere una struttura rappresentazionale che metta insieme la maturazione sin dall’inizio. Fornisco un esempio che mi ha sempre sconcertato anche dal punto di vista delle immagini delle neuroscienze: forse per mia ignoranza, non vedo mai, tranne ora con le reti di network, che i neuro scienziati siano interessati a mostrare come si abbiano attivazioni basali. Ci sono quelle corticali. Questa è una cosa che possiamo segnalare con grande chiarezza perché questo è il fondamento del modello psicoanalitico. E io lo ritengo un fondamento essenziale. Cioè non è tanto l’ipotesi filogenetica posta da Freud, ma tutto quello che ho sentito prima sui sistemi motivazionali che sono sottocorticali. Sono ancorati nel tronco e nel lobo limbico ed entrano in funzione molto rapidamente. Il transfert senza dubbio attinge ai sistemi rappresentazionali non nel senso delle immagini ma nel senso di relazioni senso motorie primarie,come nel modello di Damasio, che si attivano subito e che rimangono permanentemente attive.  Le attivazioni del tronco sono presenti sempre; gli stati onirici  non sono un’invenzione psicoanalitica, si riscontrano appena si fanno degli studi. Nella maturazione di un bambino abbiamo dei sistemi rappresentazionali di carattere primario, si ancorano su quei sistemi che abbiamo appena visto. Nella maturazione, le attivazioni sottocorticali si sfrangiano in una quantità di processi superiori che noi traduciamo nelle relazioni complesse che realizziamo nell’adulto. Il transfert certamente è un sistema ipercomplesso, si può radicare in un sistema sessuale  in alcune famiglie, in altre si radica in un sistema gerarchico. Ma può radicarsi anche in altro modo.  Ci sono dei capisaldi della storia psicoanalitica che non sono opzioni ma sono fondamentali, ma che se non sono inquadrati in una teoria più generale non possono stimolare i neuroscienziati a capire che cosa accade, né se possono servire a noi per vedere cosa va conservato  e cosa va modificato. Come va modificato? Lessicalmente, concettualmente? Ascoltando oggi tutte queste dichiarazioni, ho tante idee che fluttuano nella mente. Devo modificare dentro di me le mie idee dopo aver ascoltato la relazione che Giacolini ha enunciato fra il sistema della paura e il sistema gerarchico. Mi sono più chiare alcune cose, ma non saprei dove collocarle esattamente. Comprendo la collocazione etologica, però io vorrei comprendere  che cosa accade quando i segnali trasmigrano ai livelli delle reti nervose superiori. Secondo me, se acquisissimo alcune delle conoscenze dei neuroscienziati,  fra 20/30 anni non è che avremo un’altra teoria psicoanalitica, ma idee più elastiche, duttili, adattabili ai singoli pazienti. Ci sarà una pratica clinica più accurata e meno fantasie onnipotenti, dal momento che la scarsità di conoscenza può alimentare l’onnipotenza.

 

Teodosio Giacolini: Io tenterei di rispondere sugli effetti del sistema della paura nella dimensione umana. Per esempio possiamo avere effetti depressivi per deficit nel sistema dell’attaccamento, per panico da separazione, ma anche per esiti di sconfitta sociale,  che si attiva quando qualcuno può giudicarci negativamente. Ritengo che la clinica dell’età evolutiva, e soprattutto dell’adolescenza, sia molto dimostrativa  di quest’ultimo tema, e la scuola è una prova tristemente straordinaria. La paura che hanno gli adolescenti nell’esporsi al giudizio dell’altro intensifica l’inibizione intellettuale, anche per effetti dell’ansia anticipatoria: non faccio i compiti perché faccio altro e il giorno dopo mi prende la paura triplicata. Ma mi ritraggo dai compiti perché il Fear System mi fa retrocedere. Poi anche la paura da ansia di sottomissione (io non mi faccio avanti, non posso sfidare il dominante, professore). Su questo c’è una letteratura ormai molto importante di psichiatri dell’età evolutiva e psichiatri evoluzionistici.

 

Carla Busato Barbaglio   Faccio una domanda alla dr.ssa Salone che ringrazio per il fascino degli argomenti che ha esposto. Quando lei parlava di queste linee mediane corticali mi veniva in mente tutta la ricerca sull’empatia e sull’autismo di Baron Cohen (nel libro “La scienza del male”) attraverso le neuro immagini, che pensavo si possa estendere a tante altre situazioni, anche al disturbo alimentare. Lui parla dell’empatia come quella capacità in cui si tiene in mente sé e l’altro. Cioè l’empatia è in fondo questa struttura, non so come dire, che permette di poter avere compresenti sé e l’altro. Allora mi chiedevo quanto queste strutture mediane abbiano rapporto con il crollo e il ristabilirsi dell’empatia cui continuamente assistiamo nella nostra pratica clinica, e rapidamente, anche nella stessa ora di analisi. Pensavo alle situazioni traumatiche. Bromberg parla, nell’impossibilità di stare nell’empatia, e di questo rifugiarsi nel luogo della paura rispetto al quale è molto difficile uscire. Quindi, è come se l’analista dovesse lavorare su un’iperattivazione affettiva, col rischio che essa possa evocare una situazione di catastrofe (“L’ombra dello Tsunami”) di già vissuta. Allora mi chiedevo come può essere declinata questa regolazione dell’empatia, questa compresenza nella mente di ognuno dei due nella stanza di analisi. Cito quell’esperimento fatto in USA con ragazzini con problemi di autismo grave ai quali hanno somministrato ossitocina attraverso uno spray; quindi si è assistito al fatto che tali soggetti hanno potuto focalizzare lo sguardo sui caregivers. Io lo pensavo ai nostri pazienti. Non possiamo certo spruzzare l’ossitocina nel naso. Però laddove ci sono situazioni di ritiro così  forti, quali possibilità abbiamo con i nostri strumenti di analisti, di trascinarli fuori dal luogo della paura e di lavorare sull’attivazione affettiva? Io sento che lo star qui mi spinge a pensare ulteriormente al nostro modo di stare con i pazienti, lavorare e trovare delle strade per loro e per noi. Schore dice che bisogna stare attentissimi al contagio emozionale, che aree morte del paziente non coincidano con aree morte nostre prima e dell’identificazione proiettiva. Senza l’IP non si va da nessuna parte nell’analisi, però essa può comportare una perenne ripetizione del mantenersi sempre  tutti nei luoghi della paura. Vi ringrazio tantissimo

 

Angelo Battistini: Sono venuto qua perché sono molto curioso e penso che la curiosità sia molto importante nel nostro lavoro. Vorrei esprimere una definizione che si fa usualmente di psicoanalisi. Psicoanalisi è scienza del soggetto. Credo che ciò che latita in questo discorso delle NSC forse è il soggetto. Penso che tutti i portati delle NSC siano molto interessanti, e che possano far luce, dire cose estremamente importanti soprattutto su ciò che è l’animale uomo. I primati compaiono nella storia evolutiva 80 milioni di anni fa, il linguaggio compare  verso  3/4 milioni di anni fa. Mi sembra che le neuroscienze si collochino soprattutto in questo enorme arco temporale, in cui si vede poco alla volta, l’arrivo, l’emergere della coscienza. Il linguaggio, penso, comporti con sé la coscienza, cioè la possibilità autoriflessiva dell’essere umano. Che cosa è il lavoro psicoanalitico? Credo che in realtà, al di là di questi fattori fondamentali, basici di cui si occupano le NSC, sia la dimensione del significato, la ricerca delle determinanti che portano alla soggettivazione, i processi di identificazione, controidentificazione, trasmissioni trans-generazionali, l’analisi dei sintomi attraverso tutti i processi della loro sovraeterminazione. Penso che in questo specifico analitico, le neuroscienze non ci possano dire molto almeno per ora.

 

Carla Busato:Ma possiamo fare tutto questo senza prendere in considerazione i processi di attaccamento?

 

Angelo Battistini: Non voglio dire che una cosa escluda l’altra. Mentre penso all’analisi come una particolarmente affascinante scienza del soggetto, credo esista poi una dimensione più basica, più animale, meno individuale che a meno a che fare col soggetto che è quello su cui lavorano le  NSC. Si è fatto prima riferimento alla differenza fra emozione e sentimenti. Sarà una piccola cosa ma il poter fare chiarezza sulla base delle ricerche attuali, su certi concetti che a volte usiamo in modo un po’ approssimativo, anche con enormi differenze da autore ad autore, è una cosa che può essere molto utile. Nella mia mente di analista clinico, quando penso all’accudimento, accoglienza, sostegno, penso ad esempio a fattori aspecifici. Quando penso a fattori più specifici penso a qualcosa più legato al significato, alla soggettivazione.

 

Rosa Spagnolo: Vorrei  rispondere a Battistini. La coscienza è quella cosa che butti dal portone e rientra dalla finestra. Voglio entrare però non nel merito della coscienza ma della soggettivazione sì, perché è un altro dei nostri appuntamenti di psicoanalisi. Sono d’accordo con te che alcuni concetti che noi usiamo da tanto tempo, quelli che ci aiutano nella clinica, sono i nostri strumenti, che , come diceva Sasso, costituirebbero  il nostro contributo alle NSC. Qui, dobbiamo essere noi a dire qualcosa a loro. Ciò implica il non sottometterci ai modelli delle NSC, che sono tanti, ed uno poi si sceglie il suo modello esplicativo. Ma come psicoanalisti, noi abbiamo molto da dire alle NSC perché sappiamo tantissimo del mondo interno e della storia del paziente e questo è un dato di estrema curiosità per i neuroscienziati. Molti degli autori che citiamo sono neuroradiologi, non psicologi né psicoanalisti. Un certo autore di cui non ricordo bene il nome né con chi lavori [Arash Javanbakht and Charles L. Ragan (2008). A Neural Network Model for Transference and Repetition Compulsion Based on Pattern Completion. The Journal of the American Academy of Psychoanalysis and Dynamic Psychiatry: Vol. 36, No. 2, pp. 255-278., (nota del curatore)] si è messo a studiare la coazione a ripetere dal punto di vista del transfert. Cosa si trasmette nel transfert? Cito continuamente un suo articolo perché egli è arrivato a dire cose che noi diciamo da una vita: in breve, laddove c’è un setting tra terapeuta e  paziente,  nello scambio tra paziente e analista, che lui chiama transfert,  gli autori parlano di un  Pattern Completion, con cui l’analista, attraverso il  controtransfert, fornisce al paziente quei pezzi di organizzazione mentale che gli mancano, pezzi poi da quest’ultimo integrati nei suoi circuiti, in modo tale che  inizia a lavorare psichicamente su altri livelli. Quello che è detto col linguaggio della psicoanalisi, potremmo dirlo col linguaggio dei circuiti. Ma esistono anche i circuiti della coazione a ripetere, in strutture neurobiologiche che non si possono interrompere e riplasmare, e lì è in gioco  l’intrasformabilità. Quando constatiamo le diatribe  tra Damasio, Paanksepp ed altri, se per alcuni cablaggi si tratti di un  proto-sé oppure di coscienza nucleare semplice, in realtà lì è in gioco quanta trasformabilità ci sia in quei circuiti, e quanto è importante per le prospettive terapeutiche, dal momento che se alcuni circuiti non sono trasformabili, allora la psicoanalisi non ha chances  di mutamento. Noi già lavoriamo ad altri livelli che per noi sono primari, mentre per le NSC sono invece livelli secondari. Noi non abbiamo altri livelli di intervento, non possiamo cambiare strutture nervose, noi possiamo semmai sperare, e questi articoli lo dimostrano, di produrre le trasformazioni del mondo interno del paziente attraverso l’analisi, come credo il lavoro con i sogni ci mostri. In realtà, in analisi, non riusciamo a decifrare gli eventi mentali in termini di circuiti, ma possiamo constatare dei mutamenti perché cambia il modo di essere del paziente. Se cambia il modo di essere del paziente sono cambiate le mappe. La psicoanalisi aiuta ma non lo posso dimostrare. Questo è il cambiamento, la trasformazione Altro noi non sappiamo fare Questo è quello che vorrei dire in un nuovo livello di dialogo con i neuroscienziati.

 

Giuseppe Bruno: Ringrazio i relatori che in diverso modo hanno toccato l’argomento delle diversità più di quanto le NSC oggi ci offrano. Quando noi riteniamo di assumere dalle NSC delle acquisizioni che poi usiamo superficialmente come aggregati delle nostre teorie (come diceva Falci), in realtà noi facciamo un’operazione non corretta perché noi dovremmo cercare di lavorare piuttosto in un campo di osservazione che si ponga a metà tra i nostri modelli e quelli delle NSC che sono poi molteplici, ma integrabili. Così come possono essere spesso integrabili molti dei nostri modelli. Per far ciò ovviamente non vi deve essere preclusione al contatto, apertura, curiosità. Ad es., riprendo il concetto dell’intrasformabilità, come diceva Spagnolo, perché basterebbe un dato biologico che è sotto gli occhi di tutti ma spesso poco menzionato che è quello dei cambiamenti epigenetici a cui faceva riferimento la Salone. Noi non sappiamo che cosa l’epigenetica induca in termini  trasformativi nella nostra vita. Non lo sappiamo fin dalla vita fetale. Quando immaginiamo che determinate tracce dal punto di vista clinico, come ‘eventi traumatici’, siano tracce non più trasformabili, noi in realtà presupponiamo qualche cosa di cui, dal punto di vista anche neuroscientifico, non possiamo essere certi. Relativamente all’intrasformabilità dovremmo essere molto cauti, e il nostro lavoro ci consente anche di constatare quanto, attraverso piani di intervento molto diversi da quelli strettamente biologici, abbiamo dei gradi di trasformabilità; non faremmo questo lavoro se non credessimo in questo. Un altro punto è relativo all’allucinatorio. Oggi si parlava di default mode network, di mappe neuronali, e mi veniva da pensare che cosa le NSC potrebbero aggiungere nella modellizzaazione dell’allucinatorio negativo, cioè quanto noi mettiamo in atto indipendentemente dalla presenza dell’oggetto per realizzare modelli di funzionamento che sono fondativi per la nostra esistenza, per la nostra mentalizzazione e individuazione.

 

 

Discussione pomeridiana

 

 

Cristiana Pirrongelli: A proposito di elementi  intrasformabili, i sistemi emozionali di base secondo Panksepp sono dei sistemi rigidi ma non intrasformabili. Bisogna trovare nuove tecniche, nuovi modi, e molto è basato sull’affinamento dell’empatia, la capacità di avvertire e solleticare il sensoriale o ad esempio  introducendo da parte dell’analista emozioni di Playing, di gioia o sostenere fortemente il Seeking qualora si attivi in pazienti depressi; questo può realizzare ,alle volte, trasformazioni anche definitive, sia pur minime. Senza parlare poi dei farmaci che Panksepp naturalmente sta cercando di mettere a punto. Voi sapete che pare che la buprenorfina, un oppioide di sintesi, sia il miglior antidepressivo attualmente a disposizione per le depressioni gravi con rischio suicidario e altre molecole, che hanno a che fare  con il sistema del Playng si stanno mettendo a punto, laddove nessuna psicoterapia  riesca ad arrivare.

 

Luciana Zecca:  Ecco uno dei pensieri che mi sono sorti oggi: cosa sia la mente cosa sia il cervello. La mente parla il linguaggio dei significati, il cervello invece un linguaggio di tipo biologico. A noi interessa la mente ma ci può interessare molto  l’interfaccia; cosa facciamo e dove andiamo ad agire quando parliamo con i nostri pazienti.

 

Paolo Fonda: Propongo una catena associativa. Quando i neuroni specchio di un soggetto si attivano,  questo atto può avere un valore conoscitivo. Nell’esempio di un mio litigio con un tassista in Cina, non si erano affatto sintonizzati i  livelli di consonanza emozionale perché il mio comportamento e le mie emozioni, nella sua cultura, corrispondevano ad un vissuto ed a un giudizio di me, completamente diversi da come sarebbero stati letti in Europa. I neuroni specchio non ci  hanno fatto riconoscere reciprocamente, in quel caso. Mi chiedo quanto riconoscere l’altro simile possa aprire dei canali di riconoscimento. Ma cos’altro si apre a livello di comunicazione inconscio-inconscio attraverso i canali, quante altre cose passano,  quali elementi  fa passare l’inconscio, la cultura di gruppo, che  contiene tante cose creando il noi. Mi chiedevo se tutto ciò non sia già predisposto dall’evoluzione per incrementare la gruppalità e la cultura di gruppo. E’ questa specie di wireless che ci collega che  ha fatto grande l’homo sapiens. Tramite quei canali entra anche l’ambiente.

 

Amedeo Falci:  Penso che la teoria dei neuroni specchio riguardi i sistemi basilari della consonanza neurosensomotoria ed emozionale, poi le regolazioni empatiche, compassionevoli ed altruistiche si basano su  livelli secondari e terziari, in cui entrano in gioco  i sistemi delle culture che creano in reti e cablaggi più complessi, costruiti successivamente nel corso della vita. Certamente sembra che i mirror systems siano stati selezionati per valenze pro-sociali. Da poco più di una decina di anni, da dati sperimentali in biologia,  è stato formulato il concetto di “quorum sensing”: un sistema di regolazione della densità di una popolazione cellulare, o di una popolazione di insetti, attraverso interazioni di stimoli e risposte che coordinano l’espressione genica degli organismi stessi. Siamo in presenza di qualcosa di estremamente affascinante ed inquietante, una sorta di ‘intelligenza’ sociale anche in popolazioni di organismi addirittura cellulari, molto prima della comparsa di ‘menti’, per come le intendiamo umanamente. Quindi le stesse regolazioni biologiche di base sembrano funzionanti con una sorta di ‘intelligenza’ sistemica che sembra costituiva dei sistemi viventi, mentre  tre noi ci balocchiamo ancora con il paradigma delle ‘menti isolate’. I sistemi mirror farebbero parte di questa linea evoluizionistica: una sensibilità all’ ambiente circostante,  simulazioni incarnate che servono per la regolazione proto sociale. Potremmo poi formulare delle interessanti domande filosofiche  sul perché, se le dotazioni empatiche e prosociali  fanno parte dei nostri equipaggiamenti evoluzionistici (qualche milione di anni, ed anche più, considerando i progenitori preumani), si sia dovuto attendere – dopo un cammino umano lastricato di crudeltà inenarrabili – il cristianesimo (una religione esordita praticamente l’altro ieri) perché il genere umano arrivasse ad un  riconoscimento della identità empatica con il prossimo come valore etico assoluto. Ma questo in  un’altra puntata.

 

Teodosio Giacolini:  Qualcuno ha messo  in evidenza la transgenerazionalità da genitori a figli studiata nell’ambito delle relazioni oggettuali. Adesso attraverso le NSC, si assiste un fecondissimo cambio di prospettiva: mentre Freud parlava di identificazione, invece il cognitivismo sociale (vedi Bandura) ha chiarito molto su come i bambini “acchiappano” soprattutto dei comportamenti violenti dai contesti sociali (ad es. i cartoons). In breve  apprendimento  ed osservazione sono in grado di spiegare abbastanza delle trasmissioni tra le generazioni, e certamente la base neuronale di tali procedure va cercata nel funzionamento dei neuroni mirror.

 

Rosa Spagnolo: Paolo Fonda ha scritto cose importanti  sulla fusionalità, che forse è il il punto centrale sui confini del Sé. Anche il discorso di  Battistini sulla soggettivazione è pertinente al tema. Gallese ha  oscillato moltissimo sulle concezioni della mimesi e ha scritto molto sulla socialità. In una conferenza a Milano si attestava su posizioni intersoggettive. In realtà il meccanismo dei neuroni mirrors e delle catene intenzionali e di azione predeterminate, è un meccanismo per comprendere l’altro anche in assenza di un sé. La relazione con l’oggetto precede qualsiasi forma soggettivante. Viene prima il riconoscimento dell’ambiente, del noi. Qui i riferimenti ad dibattito tra Thomas Metzinger, Il tunnel dell’io. Scienza della mente e mito del soggetto, Cortina, 2010, e Shaun Gallagher sono d’obbligo. Anche loro hanno fatto studi sulla mente proattiva: l’oggetto, il sé si scoprono solo nell’azione. Gallese  sostiene  che nell’empatia, tra i neuroni  mirror rimane sempre una minima differenziazione tra il sé e l’altro. Nel contagio, contagio sociale o generale,  c’è una dissoluzione dei confini. Neanche tra madre bambino c’è una dissoluzione completa.  Noi siamo equipaggiati a riconoscere il Sé  dall’altro da subito. Il potenziale d’azione di una cellula spara diversamente se si tocca o se si è toccati. Secondo Gallese la socialità viene prima e non è d’accordo con Damasio che mette al primo posto il proto- Sé o un Sé nucleare. Per Gallese, perché ci sia un soggetto non è necessario un proto-Sé, ma occorre che ci sia l’altro. Per esserci soggettività deve esserci coscienza, per esserci coscienza dev’esserci l’oggetto della coscienza. Questo è il punto di vista fenomenologico di Gallese che giustifica una concezione di socialità primaria.           

 

Anatolia Salone:  Gallese è il primo che mette in guardia da un parlare troppo facilmente di empatia, che è un concetto molto più complesso. I neuroni mirror ma soprattutto le strutture corticali mediane sono quasi sicuramente  le strutture predisponenti all’empatia. Nei nostri studi, fatti in prima persona, noi volevamo vedere cosa accadeva nell’insula, area a funzionamento non mirror. Abbiamo utilizzato due soggetti sani e posti sotto risonanza magnetica funzionale. Si attivano i neuroni quando il soggetto viene toccato personalmente e si disattivano totalmente quando a essere toccato  è un altro. Nei pazienti schizofrenici l’insula invece continua ad attivarsi anche se si vede che è un altro ad essere toccato, come se  la differenza tra il Sé e l’altro non fosse netta né precisa. Eppure l’insula non ha un funzionamento mirror. Altre aree o network predispongono i mirror a funzionare, ad esempio  l’area premotoria ventrale. L’alterato funzionamento mirror dipende da una base ancora più sottostante. In altre patologie come la schizofrenia non c’è un sistema mirror alterato. Quello che c’è di alterato è più alla base. L’evidenza maggiore si ha nelle aree non mirror, è questo appare chiaro in patologie come la schizofrenia dove non è così drammaticamente alterato il sistema mirror.  

 

Giampaolo Sasso:  Io vorrei introdurre il concetto di agenzia (agency) che non corrisponde al concetto di io. Quando un bimbo risponde alla madre e mette in moto i neuroni specchio appare evidente chiaro che ci sia una dualità. Quali sono i campi sensoriali che attivano la dualità? Qual è l’agenzia sensoriale interna che mette in moto la dualità? Questa attività evolutiva cerca un oggetto. I neuroni specchio quando si attivano non si attivano perché la soggettività nasce dal noi bensì, ma perché c’è un’agenzia interessata ad avere un noi e utilizza quel che il noi le dà per far crescere la soggettività. È un problema noto e familiare per i neuroscienziati che hanno un interesse a lasciare indefinito il problema della soggettività. Perché dal punto di vista della ricerca sarà il più difficile a risolversi. Come è possibile che all’interno di quella rete neurologica così complessa possa nascere un Sé? All’interno di quella rete network come, segnali che provengono dal corpo fanno nascere un noi ? Tornando indietro alla ricerca di quell’agenzia potremmo restituire quella natività che molto presto viene confusa da altri meccanismi.

 

Amedeo Falci: Credo di averti capito, ma avrei  un’obiezione. Tu non credi che postulando un agenzia che sia un prima-del-sé si ricrei il noto modello esplicativo di  ‘the ghost in the machine’? Non sapendo spiegare il funzionamento ‘autonomo’ della macchina, allora postuliamo  qualcosa nella macchina che fa da starter per il suo funzionamento, che poi diventa un elemento metafisico che rimanda all’aporia della circolarità infinita,  come se dentro il sé ci fosse un altro piccolo sé che muove il sé. Non è più ‘parsimonioso’ pensare che il neurobiologico sia già auto-organizzato e quindi non richiede alcun  ente o ghost che funzioni da motore? Non postulando un ente come principio, è il dispositivo stesso che come proprietà intrinseca ed emergente è proprio programmato per la ricerca e la lettura dell’oggetto.  

   

Giampaolo Sasso: Infatti per agenzia (agency) mi riferivo al gigantesco network e che dobbiamo studiare. Io stavo evocando un fantasma nella macchina che è molto legato al concetto di intenzionalità verso l’oggetto e ha  a che fare con molte cose, primo il movimento verso l’oggetto. E il movimento verso l’oggetto presuppone non solo la direzione che deve prendere ma anche quello che vuole ottenere come ritorno dall’oggetto.  Non posso avere una risposta di mirroring funzionale al mio rapporto con l’oggetto se in qualche modo questo non viene utilizzato contemporaneamente per prevedere tutta una serie di movimenti che si attivano. in piani paralleli. Dovremmo già stabilire quale livello di lavoro del sistema nervoso v iene svolto a i livelli più bassi, quelli imitativi, e differenziarli da utilizzati per quelle altre strategie collaterali di simulazione per prevedere come l’oggetto può risponderci. Questo rilancia la postulazione di  un campo enorme di attivazione neurofunzionale che per  semplificare ho chiamato agenzia. 

 

Paola Viziello:  Per prima cosa vorrei chiedere a Rosa Spagnolo che cosa sia cambiato nella sua pratica da quando lei ha acquisito maggiori conoscenze neuro scientifiche. Io lavoro nella ricerca con pazienti dermatologici, metabolici e sindromici, quindi sono chiamata a riconoscere gli endofenotipi comportamentali in pazienti con malattie del Dna, cioè riconoscere nei soggetti quelle componenti intermedie tra genotipo e fenotipo che non sono segni palesi di malattia, o sono solo segni attenuati. Allora il problema sarebbe comprendere che cosa ci sia oltre la patologia genetica e che determina diverse attenuate espressività fenotipiche. Esistono quindi variabilità e  flessibilità, ma anche una diminuzione dei gradi di libertà perché abbiamo una matrice genetica predeterminata. Esattamente come, su un altro piano, abbiamo un pruning  (potatura neuronale) buono, fisiologico, positivo, che dopo i nove anni aiuta a selezionare e determinare alcune possibilità e non altre, ma c’è anche un pruning negativo, come nei disturbi pervasivi di stampo autistico, che riduce una serie di funzioni limitando le possibilità relazionali e cognitive e sociali dei soggetti. Ecco, tutto questo mi serve per chiedermi e chiederci che cosa avvenga nel processo terapeutico quando anche l’esperienza analitica si trovi di fronte a matrici mentali già determinate in gran parte dalle strutture genetiche;  ma anche noi in fondo procediamo a instaurare nuove opportunità dialogiche che creano nuovi ambienti che regolano forse l’espressione di endofenotipi, e effettuano delle potature neuronali indirizzando ed elicitando nuovi cablaggi neuro funzionali.

 

Amedeo Falci:   Bene, credo che il nostro tempo di discussione sia arrivato a termine. Esprimo sinceri ringraziamenti a tutti gli speaker della giornata per il loro ammirabile sforzo di sintesi, ed a tutti i partecipanti a questo seminario. Seminario che mi sembra abbia funzionato in modo soddisfacente come un gruppo di lavoro interessato ad un vero dialogo, anche tra punti di vista diversi, ed interessato ad un certo medio grado di attendibilità e verificabilità dei dati scientifici. Pensiamo di inviare successivamente a tutti i partecipanti di oggi, ed anche ai componenti del Gruppo di Lavoro su PSA e NSC, una sintesi generale degli argomenti e della discussione della giornata di lavoro. Chiunque sia interessato ad inviare nuovi commenti e contributi agli argomenti topici, sarà benvenuto.

 

Rosa Spagnolo: Stiamo attivando un forum cui vi invito a collaborare anche con  piccoli concetti su cui confrontarci.

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