PREMESSA
Le riflessioni che voglio proporvi hanno la forma di materiale grezzo.
Tenterò di affrontare il discorso più strettamente inerente al tema delle esperienze traumatiche e delle modalità di funzionamento della memoria che le caratterizza, cercando di sviluppare il seguente interrogativo: come avviene la registrazione degli eventi nei quali incorre un individuo che si trova in una condizione mentale caratterizzata dalla “dissociazione”?
E per contro, come avviene, eventualmente, la registrazione dello stesso evento in un soggetto caratterizzato da un “Io” maggiormente integrato, ma che funziona in presenza di un’evidente “scissione”?
E, ancora, quale è la possibilità e la modalità di recupero di tali , a mio parere, diversificate registrazioni mnestiche?
Prima però propongo di sostare su alcuni termini di cui facciamo, spesso, un uso così disinvolto da arrivare, in modo automatico, ad attribuire loro un significato di tipo personalistico perdendo di vista la necessità di una loro specificazione che consenta di evitare (o quantomeno ridurre) le possibili incomprensioni ed equivoci che possono nascere quando ci confrontiamo sia sulla clinica che su aspetti più teorici.
I termini in questione sono quelli di “dissociazione”, “scissione” e “coscienza”: l’intento è sempre quello di favorire una riflessione su noi stessi che ci difenda dal rischio che tramonti “la configurazione dell’individuo che conoscevamo o cercavamo di conoscere dall’Ottocento” e che se ne profili “un’altra, che non contempla ed anzi evita il funzionamento ampio del sistema conscio” (Semi, 2008).
La speranza è che questi stessi termini, nel corso del tempo, possano arrivare a favorire ed includere possibilità sempre maggiori di conoscenza di come funzioniamo.
Le riflessioni sul tema della “coscienza”, connotate, in ogni caso, dai limiti e dalle difficoltà tipiche delle indagini che il soggetto compie su di sé avendo se stesso sia come oggetto della ricerca che come strumento del suo ricercare, sono nate all’interno di considerazioni relative alla clinica e sono state sviluppate esclusivamente in relazione a questo ambito di studio.
Esse si sono coagulate intorno a 4 punti:
1- a quale tipo di connessione tra la dimensione neurofisiologica e la sua espressione mentale è collegato il manifestarsi dell’effetto – coscienza sia come difficoltà che come facilitazione per tale manifestazione?
(nell’ambito dell’esperienza clinica sono significativi i momenti di “emergenza” di possibilità mentali di cui siamo testimoni sia relativamente al funzionamento mentale dell’ analizzando che di quello dall’analista).
2- a quale livello di coscienza descritto dalle neuroscienze può corrispondere lo stato mentale dell’analista in assetto di “assenza di memoria e desiderio” e quali sono le funzioni che favoriscono l’emergenza da tale stato e l’acquisizione di nuove possibilità di consapevolezza all’interno di un movimento bi- direzionale tra questi due momenti?
3- quale tipo di influenzamento sul meccanismo della coazione a ripetere può derivare dal fatto che l’esperienza scolpisce (carves) le vie neuronali a partire da un substrato anatomico rozzo, non specializzato, indebolendo e sfrondando quelle non utilizzate?
4- Quale può essere nella clinica il ruolo dello “scarto” inteso come luogo del fraintendimento, dell’incomprensione, ma anche come spazio dove può nascere un pensiero nella misura in cui lo scarto può rappresentare la messa in crisi della possibilità di previsione legata ad una sorta di “coscienza automatica” fondata su meccanismi di feed- back e l’attivazione, invece, di una coscienza che favorisca consapevolezza e creazione di nuovi pensieri?
Lo “scarto” tra un qualcosa di prevedibile collegato a vie sinaptiche già adoperate ed elementi nuovi, appare, così considerato, un punto nodale in cui collocare possibilità di comprensione e cambiamento.
Costituisce un momento in cui al procedere automatico (Pally), succede la messa in forma di un qualcosa che assume una particolare fisionomia: una immagine zoommata, un insight…
Scrive la Pally (Int. J. 2007, vol.88,part 4): “noi operiamo come una sorta di ‘pilota automatico’ la maggior parte del tempo e fintanto che le cose vanno secondo le previsioni, questi processi non- consci sono sufficienti…Il cervello non consapevole predice ciò che verosimilmente avverrà per essere pronti in anticipo”.
Come favorire, allora, diciamo così, nella situazione analitica quei momenti di scarto che possono produrre nuove pensabilità, verosimilmente derivanti da pervietà ripristinate (vie sinaptiche) o da disconnessioni di quelle vecchie utilizzate ? come favorire “associazioni anomale, non scontate, ardite”? (Boncinelli 2008).
Forse i “circuiti sensoriali innestati nel linguaggio possono alla lunga rompere i rigidi circuiti e creare circuiti nuovi”? (Correale 2008).
Forse il “linguaggio incarnato, le parole che toccano”? (Quinodoz 2005).
A proposito dello scarto, Edelman sottolinea che l’organismo non ha alcun bisogno di coscienza quando vi è una perfetta predittività e la coscienza, quindi, non può che evolversi dalla rapida riadattabilità delle discrepanze motorio- percettive: la coscienza si inserirebbe, quindi, nell’interruzione dei meccanismi automatici basati su funzionamenti fisiologici.
Mi sembra utile non ridurre l’attenzione al fenomeno “coscienza” nella sua caratteristica di emergenza dalla dimensione corporea.
Per Freud ” la coscienza è il risultato, pieno di lacune, di un lavoro psichico: e in questo lavoro consiste la nostra vita psichica dinamicamente attiva” (P. L. Rossi, Riv. Psic. 1.2003).
Ma, l ‘Io cosciente è” prima di ogni altra cosa un Io- corpo” ( Freud 1922).
Scrive Semi ( Riv. Psicoanal. 1.2000): “Freud argomenta che il corpo e soprattutto la sua superficie è un luogo dove possono generarsi contemporaneamente percezioni esterne e interne e che questa condizione fa sì che esso sia un oggetto di conoscenza privilegiato….”E ancora: “Ne l’Io e l’Es per contro Freud parla decisamente e unicamente di percezioni, ma conserva la distinzione tra un sistema P- C che solo può essere considerato il nucleo dell’ Io …e il resto dell’Io, che si aggrega man mano e che conserva rapporti incerti, instabili con la coscienza”.
Solms (2004) così scrive: “Egli (Freud) credeva (1938) che proprio come la nostra consapevolezza del mondo esterno deriva dagli oggetti che si situano realmente all’esterno di essa e che sono rappresentati nella nostra percezione, alla stessa maniera anche la consapevolezza che abbiamo delle cose che accadono all’interno del nostro sé sarebbe una mera percezione, che non va confusa con i processi mentali effettivi (inconsci) e i contenuti che questi rappresentano…per Freud la mente stessa è inconscia, e la coscienza è solo la percezione dei processi reali della mente”.
Solms e Damasio sono concordi nell’affermare che “le intuizioni di Freud sulla natura della coscienza sono del tutto in linea con i più recenti progressi delle neuroscienze contemporanee che considerano la coscienza una funzione continua di accoppiamento che congiunge in una costante oscillazione gli stati attuali del Sé con quelli correnti del mondo degli oggetti”.
Coscienza, quindi, come “informazione integrata” risultante da un breve attimo di scarica simultanea di neuroni corticali che rappresentano un’unità di aggregazione (temporale) della coscienza.
La corteccia produce la coscienza, la sottocorteccia produce “l’inconscio fisiologico”. Diverse aree della sottocorteccia inviano continuamente messaggi alla corteccia e quindi influenzano la sequenza degli stati di coscienza, cioè il “flusso di coscienza” costituito da pensieri automatici, ripetitivi, che abbiamo quando siamo soli e che sono legati al nostro senso di Sé e alle nostre emozioni.
La corteccia invia “giù” i suoi messaggi, ma questi possono solo modulare gli stati primordiali generati dalla sottocorteccia.
Il nostro funzionamento conscio è influenzato continuamente da una dinamica che è fuori dal nostro campo di attenzione: la neurofisiologia delle emozioni mostra che ci sono più neuroni che vanno dall’amigdala e dall’ippocampo alla corteccia che viceversa.
Passando a considerare quei due differenti stati di alterazione della coscienza che sono abitualmente indicati con i termini “dissociazione” e “scissione” rinvio alla ricostruzione storica delle loro definizioni e del loro uso per come Riefolo li propone nei suoi scritti su questo tema.
L’ipotesi operativa , che propongo, sicuramente riduttiva e forse anche forzata, è tesa, pur attraverso una semplificazione, a ridimensionare l’uso generico dei due vocaboli e prospetta di fare riferimento alla “dissociazione” considerandola soprattutto un funzionamento fisiologico, organico che opera costantemente, lasciando alla “scissione” la definizione di operazione mentale che richiede un dispendio di energie per essere mantenuta.
Per dare sostegno al mio discorso userò, anche se in modo estremamente sintetico, le parole di alcuni autori che mi sembra rinforzino la mia scelta concettuale.
Bromberg (“Standing in the spaces”1998, tradotto in italiano con il titolo “Clinica del trauma e della dissociazione,Cortina Ed.2007): “….l’essenza della dissociazione consiste nel fatto che la mente per proteggere la propria illusione di un Sé unitario dalla potenziale minaccia di un’esperienza di violazione traumatica non elaborabile sul piano cognitivo, è disconnessa dallo psiche- soma”.
Correale ( “Borderline”, Borla Ed.2001) : “proponiamo il termine ‘dissociazione’ come indicativo di uno ‘stato dissociativo permanente’, modello di base di un funzionamento cerebrale teso a ridurre gli eccessi dei dati da elaborare che a livello mentale produrrebbero confusione e angoscia: tale complessità verrebbe semplificata attraverso meccanismi di mutilazione percettiva del campo…
Siamo tutti immersi in un campo di stimoli eccedenti la possibilità di un loro contenimento”.
Bleiberg (“Il trattamento dei disturbi di personalità nei bambini e negli adolescenti”, G.Fioriti Ed.2004): “la dissociazione (cioè l’isolamento di esperienza all’interno di componenti male integrate o non integrate) contrasta la tendenza normale del cervello a integrare l’informazione…la dissociazione consente agli individui di ‘sottrarsi’ ad orrori altrimenti inevitabili e ottimizza le loro opportunità di lotta o fuga, senza che siano ostacolati da sofferenza o distrazione”.
Falci (“Der geist in the machine. I presupposti della ricerca psicoanalitica e i confronti con la teoria del codice multiplo ” in “Psicoanalisi e neuroscienze” a cura di Moccia e Solano, Angeli Ed. 2008): “Il concetto di dissociazione, che non appartiene a un’esplicita teorizzazione freudiana, si riferisce a stati separati del sé non simbolizzati, non rimossi, che non si trovano in uno stato conflittuale con la coscienza, ma sono “non- me”, in una condizione alter- ego. E’ un processo di regolazione strutturale e neurofunzionale, una dis-connessione referenziale utilizzata dai sistemi neurofunzionali come protezione contro eventi traumatici” e ancora: “Dissociazione non è un procedimento di barriera fra inc e c, ma è una dis- funzione centrata sulla non- integrazione informazionale tra i vari settori operativi della mente….i processi dissociativi sono stategie adattative, non solo difese patologiche, che rimandano a stati soggettivi, a plurimi stati del Sé, a plurimi stati di coscienza, a una pluralità di stati inconsci”.
Ho lasciato per ultime le citazioni relative alle concettualizzazioni della Bucci per soffermarmi un po’ su alcuni elementi base della sua teorizzazione: i riferimenti bibliografici che vi propongo sono: “Dissocioation from the perspective of multiple code theory” ( part I, part II) in “Contemporary Psychoanalysis vol.43,N.2-3,2007) ed il lavoro “Teoria del codice multiplo e funzionamento mentale inconscio”presente nel libro già citato ,curato da Moccia e Solano.
La Bucci parte, nella sua teorizzazione, dalla considerazione che ” Noi tutti siamo più dissociati anziché no. La dissociazione tra sistemi è la base della nostra possibilità di negoziare con il mondo” (traduzione mia).
Questa autrice considera la dissociazione come un elemento costantemente presente nella dimensione psichica essendo essa legata a come funzioniamo a livello neurofisiologico (senza che ciò significhi il “collasso” dell’elemento psichico su una realtà materiale).
Come ormai è un’evidenza, siamo impegnati, come individui , a tenere “fuori” input eccedenti la nostra (per come siamo fatti) possibilità di accoglimento di stimoli.
Scrive la Bucci: l’organismo umano è una creatura con un funzionamento che prevede diversi stati e diversi sistemi che presentano un’integrazione solo parziale tra di loro…
Esistono due principali sottosistemi di funzionamento psichico: il sub- simbolico e il simbolico. Il simbolico è ulteriormente diviso in una forma verbale, le parole e il linguaggio e una forma non- verbale nota come attività immaginativa e che può essere rappresentata in qualunque modalità sensoriale….
Il processo referenziale è la funzione integrativa del sistema a codice multiplo che connette tutte le componenti”, in questa integrazione il ruolo maggiore è svolto dall'”imagery”, simbolico non-verbale con incorporate tutte le modalità sensoriali che forniscono il legame necessario tra i codici sub-simbolici non verbali e i codici simbolici verbali.
I simboli (nel senso usato dalla Bucci) sono parole, immagini, quindi entità discrete rappresentazionali che rimandano ad altre entità.
I processi subsimbolici sono processi continui ed analogici (il fenomeno dell’armonizzazione affettiva descritta da Stern è soprattutto un tipo di comunicazione analogica e continua).
I processi subsimbolici sono presenti nelle forme motorie, viscerali, sensitive.
La DISGIUNZIONE tra modalità di funzionamento subsimbolico e simbolico è caratteristica del funzionamento umano e non è presente solo nella patologia.
“Nella prospettiva della teoria del codice multiplo, lo scopo del trattamento psicoanalitico non viene definito come rendere verbale il non verbale, o rendere conscio l’inconscio, o avere l’Io laddove era l’Es, ma come consentire una nuova connessione dell’esperienza sub- simbolica e simbolica all’interno degli schemi emozionali che sono stati dissociati e distorti” (Bucci, 2008,pag .44).
Lo stato dissociato, nelle situazioni cliniche, viene riportato con le seguenti espressioni: “è uno stato di trance”, “una nebulosa operativa”, “solo ogni tanto posso acchiappare un’idea”, “non mi è possibile dire ‘ora mi occupo di questo, ora mi occupo di quello'”…
Il concetto di scissione, a mio parere, sembra prestarsi meno ad ambiguità concettuali: è un processo intrasistemico, riguarda una entità – sistema (quella dell’Io) compatibile con una possibilità di maggiore “integrazione” (anche se appare una contraddizione nei termini) di quella esistente nel processo dissociativo caratterizzato da elementi sparsi: unità sub- simboliche “disgiunte” (secondo la teorizzazione della Bucci) e rappresentazioni di cosa (per usare un termine proposto da Freud che “sta ad indicare qualcosa – uno stato- che va oltre lo psichico nel senso classico, pre- psicoanalitico del termine. Qualcosa che in ultima analisi è nel corpo, nella carne, e che è il vero psichico” Semi,2000).
Il concetto di scissione per Freud è il risultato di un conflitto relativo alla (cito dall’Enciclopedia della Psicoanalisi di Laplanche – Pontalis) “coesistenza in seno all’Io di due atteggiamenti psichici nei confronti della realtà esterna che si oppone a un’esigenza pulsionale: l’una tiene conto della realtà, l’altra la nega e la sostituisce con un prodotto del desiderio. Questi due atteggiamenti persistono l’uno accanto all’altro senza influenzarsi reciprocamente “e ancora “….descrivendo una scissione dell’Io (intrasistematica) e non una scissione tra istanze (tra l’Io e l’Es), Freud vuole porre in evidenza un processo nuovo rispetto al modello della rimozione e del ritorno del rimosso. Infatti, una delle particolarità di questo processo è di non giungere alla formazione di un compromesso tra i due atteggiamenti in presenza, bensì di mantenerli simultaneamente senza che si stabilisca tra loro una relazione dialettica”.
Freud parla della scissione, a proposito del feticismo e della psicosi, come di un fenomeno psichico caratterizzante la relazione dell’ Io con la realtà.
Vorrei ora passare a considerare l’interrogativo di partenza relativo alla possibilità di ricordo delle esperienze traumatiche, proponendo il testo costituito da frammenti di materiale clinico facendolo precedere da una considerazione che tenta di giustificare il carattere non ben strutturato di queste note: l’anno trascorso dal nostro precedente appuntamento come gruppo di Ricerca, mi è servito soprattutto per l’individuazione di nodi tematici che ritengo passibili di approfondimenti futuri. Approfondimenti che rappresentano una sfida nella misura in cui riguardano anche processi mentali ancora non chiariti a livello del substrato neurofisiologico: ancora non è completa, per esempio, la comprensione del modo in cui “fotoni, onde sonore, molecole odorose e pressione sulla pelle sono tradotti in ricordi durevoli”( Gary Stix, 2009).
Quanto finora esposto vorrebbe avere la pretesa di costituire una sorta di common ground nel quale collocare il materiale clinico relativo ad un paziente caratterizzato, per come mi ritrovo a pensarlo, da una particolare forma di alessitimia (l’alessitimia, cito dal lavoro di Solano contenuto nel volume Psicoanalisi e Neuroscienze, pag. 128 e nota, è un’ ‘incapacità a trovare parole per l’emozione’, per cui l’emozione rimane a un livello ‘fisiologico’, non trovando una connessione con un livello simbolico, verbale…..Una situazione alessitimica viene riscontrata…nelle persone affette da ‘attacchi di panico’, come viene oggi chiamata la nevrosi d’angoscia di cui parlava Freud”.
M., il paziente in questione, a fronte di un’incapacità ad usare parole per descrivere emozioni, porta in terapia il suo trovarsi immerso in una dimensione sensoriale con la possibilità di cogliere e riferire differenze e sfumature percettive.
Lo introduco con il racconto di un suo sogno.
“Ero al ristorante
ordino una rana. Non ne ho mai mangiate
a questo punto il sogno diventa cruento
la rana è viva
la mettono in una grande pentola di acqua bollente
la testa della rana viene tagliata via
il corpo nell’acqua è un grande corpo
sembra il corpo di un bambino
senza pelle
senza testa
ma sente il dolore
si sente un grido: ‘l’acqua è calda
l’acqua è calda’
penso che l’unica soluzione a quella sofferenza sia la morte
mi meraviglio che senza testa si possa soffrire”.
M. ha circa 40 anni: ha chiesto aiuto per uno stato di ansia che gli impedisce di leggere in pubblico (cosa che deve fare per il suo lavoro) e che talvolta prende la forma di attacchi di panico.
E’ sposato: la moglie, che conosce dai tempi dell’adolescenza, sembra svolgere la funzione di un contatto protettivo.
E’ padre di un bambino di pochi anni.
Ha avuto il primo attacco di panico intorno ai 20 anni, in coincidenza dell’approssimarsi della conclusione degli studi universitari e della morte per tumore di un amico.
M. è un bell’uomo: il viso aperto e sorridente, solo a tratti dallo sguardo sfuggevole, non sembra segnato dalla dimensione di paura ed angoscia che caratterizza il suo mondo emotivo.
Le sue comunicazioni verbali, relative a possibilità di collegamenti (associazioni) e pensabilità sono estremamente carenti: è il corpo che parla, o meglio, è ciò che è più attinente al corpo che trova la possibilità di definizione verbale.
A questo punto forse qualcuno si potrebbe chiedere se le notazioni basate su percezioni sensoriali registrino unicamente un qualcosa che è estraneo alla psicoanalisi.
Per rispondere a questo ipotetico quesito, ricorro al pensiero della Bucci per la quale scopo del trattamento psicoanalitico è favorire connessioni tra esperienze sub- simboliche (ricche di elementi sensoriali) e simboliche, naturalmente con tutta la difficoltà che quest’operazione comporta :difficoltà anche legata (a mio parere) alla disponibilità che deve avere l’analista a “individuare le strategie che aiutano i pazienti a cambiare invece che preoccuparsi di aderire a un dato ideale analitico” (Gabbard & Westen,2003) e, aggiungerei anche, utilizzando le parole di Phil Mollon nella sua introduzione al libro “Il recupero dei ricordi di abuso”, curato da Sandler e Fonagy, che “uno dei vantaggi di una discussione sul recupero dei ricordi è che la psicologia cognitiva e la psicoanalisi sono forzatamente condotte ad uno scambio potenzialmente produttivo”.
Per tornare a M., quasi subito ho proposto al paziente l’uso del lettino nonostante il ritmo rarefatto delle sedute sin dall’inizio definito dal paziente come condizione non trattabile: ritengo di aver pensato utile, per questa persona così recettiva sul piano della sensorialità, il ridimensionamento degli stimoli esterni favorito dal ‘lettino’ nel tentativo di traghettarlo da possibilità percettive a possibilità di comprensione forse intendendo anche riconnetterlo con la dimensione originaria del suo sentire, difendendolo da ulteriori stimolazioni.
Qualche cenno alla storia del paziente, naturalmente ad elementi scelti, funzionali allo sviluppo dell’interrogativo contenuto nel titolo di questa mia proposta.
Nato in un paese del Sud Italia, M. mantiene un contatto costante con l’ambiente di origine dove vivono ancora i due genitori ed il fratello, minore di tre anni, che abita con loro.
Riferisce fobia per gli uccelli, anche se morti, presente da quando aveva pochi anni e terrori notturni fino alla maggiore età (e comunque ancora non del tutto scomparsi).
Racconta di notti trascorse, da bambino, piangendo davanti alla porta chiusa della camera da letto dei genitori, terrorizzato all’idea di dover dormire da solo.
Di quelle notti ricorda i singhiozzi che hanno lasciato la sensazione con la quale, ora, talvolta, si sveglia.
M. porta in seduta sensazioni estremamente forti, per esempio sensazioni olfattive che trovano sia lui che me incapaci di trasformarle (per esempio l’odore di cadavere ed i miei inutili tentativi di avviare possibilità di discorso e di pensiero).
I sogni propongono immagini di mare, di immersioni, di presenze umane incombenti e sentori di svenimento che lo svegliano (una delle sue rare associazioni è relativa all’episodio di uno svenimento avvenuto quando, intorno ai 20 anni, andando di notte in bagno, a casa dei suoi, per fare pipì, ha visto del sangue nel water ed è caduto a terra svenuto venendo poi a sapere che il sangue trovato in bagno era quello delle mestruazioni della madre).
Racconta da subito di quando il nonno se lo metteva a sedere sulle ginocchia e lo ‘stimolava analmente’, delle masturbazioni di gruppo con gli amici, dei rapporti sessuali che aveva , passivamente, con il cugino più grande e di quelli che lo vedevano attivo con il cugino più piccolo intorno all’epoca ,forse, di fine infanzia ed inizio adolescenza.
Spesso, relativamente alla quantità di materiale portato, riferisce sogni con chiari riferimenti alla terapia: 1) era nel mio studio. Ad un signore che si affaccia alla porta, l’analista dice che deve aspettare perché non è la sua ora. 2) un mostro spinge la porta della stanza in cui ci troviamo. Commenta: “non è che stiamo smuovendo troppo?”.
Ad un anno dall’inizio dei nostri incontri, M. manifesta due sintomi: una chiazza di alopecia e il lichen a livello del prepuzio, che, costringendo il glande, gli procura dolore nell’atto sessuale.
Cerco di pensare al “sintomo somatico come una prima espressione sub- simbolica, di un contenuto che non ha trovato….nessuna possibilità di espressione e non come effetto di una difesa contro l’emergenza di quel contenuto” (Solano,2008) e spero che la preoccupazione del paziente per il sintomo somatico possa “funzionare come un tentativo di connessione tra la computazione implicita, sub- simbolica, del sistema di elaborazione viscero- sensoriale e i contenuti interpersonali dello schema emozionale” (Solano,2008) , ma sono preoccupata.
Ho paura (e non solo per il paziente).
M. negli ultimi minuti di una seduta di questo periodo porta il seguente sogno: “sono in seduta, dormo, mi alzo continuando a dormire. L’analista si spaventa come si è spaventata mia moglie quando è successo una notte, tempo fa.
Nella seduta successiva si chiede fino a quando riuscirà a sostenere il lavoro della terapia.
Al ritorno dalle vacanze estive (2008) trascorse piacevolmente, appare come un’altra persona per la possibilità che ha di parlare in modo estremamente fluido.
Il lichen , come espressione sintomatologica sembra essersi fermato e nella chiazza di alopecia sono ricomparsi i capelli.
All’inizio di dicembre si colloca “il sogno della rana” e nella seduta successiva prospetta la conclusione della terapia.
Sono accadute cose, non sa come, dice: ora può leggere in pubblico, non ha crisi di panico.
Va via lasciandomi l’immagine – sogno di lui che ha le sue mani in bocca e si sente oppresso.
Alla ripresa delle sedute con l’inizio del nuovo anno, M. non si presenta.
Se pensate possibile lasciare da parte tutte le obiezioni relative a quello che ho fatto o, soprattutto a quello che non ho fatto lavorando con questo paziente, possiamo provare a valutare l’applicabilità della proposta contenuta nella prima parte del mio lavoro, al materiale clinico che vi ho presentato.
Lavorando con M. avevo l’idea che gran parte della sua vita di bambino sottoposto a stimoli eccessivi, quindi traumatici, di varia natura, si fosse svolta in uno stato dissociato della mente, dove la registrazione degli eventi stressanti avveniva e rimaneva ai livelli cerebrali inferiori (circuiti sottocorticali talamo- amigdolei che riverberano l’informazione emotiva).
E’ noto che pazienti con storie di trauma infantile hanno un asse ipotalamo- pituitario- surrenale (HPA) che rimane tendenzialmente iperattivo e che la riflessione e l’analisi degli stati affettivi e del loro significato dovrebbe favorire il controllo prefrontale dell’iperattività dell’amigdala (Gabbard 2007), promuovendo il coinvolgimento dei livelli corticali superiori attraverso il processo integrativo centrale della via cortico- ippocampale).
Cosa è accaduto, o meglio, cosa non è accaduto nel lavoro con M.?
Ho ascoltato il racconto del sogno della rana con grande partecipazione: l’emozione del paziente nel propormelo (ha assunto sul lettino la posizione della rana; con voce infantile ha gridato ‘l’acqua è calda!’) ha favorito in me una forte condivisione.
Tentando di riemergere da tale stato ho segnalato al paziente proposte insature di utilizzo del sogno:
– “senza pelle, il massimo dell’esposizione…..”
– “una grande eccitazione può favorire la sensazione di una tensione urente diffusa…”
– “non c’è la testa per capire e contenere, ma il corpo,ugualmente, non è risparmiato dalla sofferenza….”
M. associa un pene senza pelle ( penso di avere indotto io, con le mie parole, tale associazione : un bambino dalla superficie urente identificato con un grande pene: rana- bambino- pene).
Nella seduta successiva, come vi ho già anticipato, M. palesa la volontà di conclusione. Vuol vedere se riesce ad andare avanti da solo.
Mi sento spiazzata. Gli propongo di darci un tempo per concludere.
I temi di quest’ultima seduta sono quelli cui accennavo: una presenza femminile costrittiva (madre- analista) e l’immagine delle sue mani che chiudono la sua bocca quasi a soffocare.
Temo che il paziente non sia passato, per usare le parole di Gaddini, da un’angoscia di non integrazione ad un’angoscia di integrazione a seguito di movimenti verso la maturazione e differenziazione, e mi chiedo dove sia ora e quale è stato il luogo della sua mente dove non l’ho raggiunto e incontrato.
M. A. Ficacci