H.Bosch, La pietra della follia, 1494
Diagnosi Psicoanalitica
A cura di L. IANNOTTA
L’etimologia del termine “diagnosi” (letteralmente: conoscenza in progress) rimanda al processo (dia) per mezzo del quale si arriva alla conoscenza (gnosis), nel nostro caso l’identificazione del funzionamento psichico di un’individuo e, allo stesso tempo, al nome che si attribuisce a tale funzionamento.
Dopo secoli in cui la malattia mentale soggiaceva ad una visione magica, religiosa o alla demonologia, si è arrivati nel corso del XIX secolo sempre di più a considerare la follia come espressione di una malattia e una grande mole di ricerche degli psichiatri intenti a definire i quadri morbosi sono confluite negli scritti dello psichiatra Emil Kraepelin (1856-1926) e Sigmund Freud (1856-1939).
Si sono così prodotti tre distinti approcci alla salute mentale:
– l’approccio psicoanalitico si basa essenzialmente sulla conoscenza idiografica, ossia si concentra sulle peculiarità di un singolo individuo (idios), sulla sua specificità e irripetibilità e fa riferimento al proprio corpus teorico. Questo approccio, che si basa su rappresentazioni e processi consci e inconsci, considera le specifiche entità morbose come deviazioni quantitative di un continuum relativo alla personalità, alla percezione, alla cognizione, all’umore, e ad altre caratteristiche derivanti dalla teorizzazione di Sigmund Freud e degli psicoanalisti che si riconoscono nel suo modello e nelle sue dirette evoluzioni;
– la tradizione psichiatrica, che persegue l’obiettivo di associare la diagnosi alla prognosi e ad uno specifico trattamento. Questa tipologia di diagnosi si basa sulla conoscenza nomotetica, ossia identifica un gruppo di criteri e implica che, per fare la diagnosi, quegli specifici criteri debbano essere soddisfatti. Il disturbo è inteso come un insieme di tratti o caratteristiche stabili, le categorie diagnostiche sono differenziate qualitativamente, separate tra loro e mutuamente esclusive;
– la psicometria che attraverso test, questionari e interviste valuta il soggetto tenendo conto di una serie di dimensioni che intendono approdare alla misurazione del funzionamento della personalità; queste dimensioni non hanno l’obiettivo di considerare il caso specifico ma tendono alla conoscenza nomotetica, ossia l’individuazione di leggi (nomos) e ricorrenze che accomunano il funzionamento delle persone nelle diverse situazioni.
Lo psicoanalista Fausto Petrella in “Nosologia e psicoanalisi” (1989) dimostra come Freud (1892-1897), pur lasciando trasparire un interesse specifico per la nosologia, abbia ben presto mostrato l’incompatibilità che si genera tra l’istanza classificatoria e descrittiva della psichiatria e la concezione dinamica e mobile del funzionamento mentale che lui stesso andava elaborando.
A partire da un quadro osservativo e relazionale del tutto inedito ed estraneo alla psichiatria, Freud (1915-17) arriva ad affermare che la psichiatria cerca di caratterizzare il sintomo con una qualità essenziale ma che non ha la capacità di andare oltre. D’altra parte, si va sempre più convincendo che i sintomi altro non sono che manifestazioni ingigantite di fenomeni presenti nella vita psichica di ognuno.
A questo proposito, Westen, Gabbard e Blagov (2006) hanno evidenziato che Freud (1892-97) inizialmente, ha proposto un modello di sindromi discrete e solo successivamente ha maturato la convinzione che non era possibile comprendere i sintomi dei pazienti, isolati da ciò che viene definito carattere, o struttura di personalità. Si passa così dalla nevrosi sintomatica, intesa come sacca di patologia relativamente isolata, al concetto di nevrosi di carattere, ossia una patologia che pervade tutta la personalità.
Pertanto, Freud (1915-17) iscrive il tema della diagnosi nel modello psicoanalitico del funzionamento della mente e afferma di non voler semplicemente descrivere e classificare i fenomeni, ma concepirli come indizi di un gioco di forze che si svolge nella psiche, come espressione di tendenze orientate verso un fine che operano insieme, o l’una contro l’altra per arrivare ad una concezione dinamica dei fenomeni psichici. La diagnosi in psicoanalisi è dunque imprescindibile dal modello complesso della teoria psicoanalitica e include diversi livelli: dinamico (considera i processi mentali come risultato dell’interazione di forze che possono essere in conflitto tra loro), economico (considera la quantità e l’intensità di tali forze); topografico o strutturale (l’apparato psichico è considerato uno strumento composito, si tende a stabilire in quali parti si compiono i diversi processi psichici); evolutivo o genetico (valuta il continuum del ciclo di vita a partire dall’infanzia); adattativo (tiene conto del contesto sociale e ambientale con cui l’individuo interagisce, a cui si adatta o che si adopera per modificarlo).
Il livello evolutivo acquista una particolare rilevanza dal momento che Freud concepiva l’idea che la matrice della salute e della malattia psichica è rintracciabile nell’esperienza infantile e che è questa esperienza che viene riattualizzata nella relazione con lo psicoanalista (transfert). La struttura e il funzionamento psichico, e in particolare la dimensione inconscia, emergeranno man mano all’interno della relazione grazie allo specifico setting previsto dal metodo psicoanalitico.
È questa la cornice che permette a Freud (data) e ai primi psicoanalisti di individuare tre grandi classi di patologie psichiche: a) la Nevrosi che raggruppa l’isteria di conversione (corrisponde grosso modo agli attuali disturbi somatoformi), l’isteria di angoscia (fobie) e la nevrosi ossessiva; b) le Nevrosi narcisistiche: forme melanconiche (depressive) non psicotiche; c) la Psicosi: schizofrenia, paranoia e psicosi maniaco-depressiva/disturbi bipolari. Le patologie collocate all’interno di queste tre macrocategorie si differenziano in base ai loro punti di “fissazione”, alle diverse fasi dello sviluppo psicosessuale e dell’Io, ai meccanismi di difesa e alle angosce prevalenti (Ponsi, 2009).
Sul piano descrittivo e organizzativo della vita psichica sono stati individuati tre livelli che caratterizzano la diagnosi psicoanalitica. Il livello delle difese: le caratteristiche, la frequenza e l’intensità; il livello psico-genetico, che tende alla descrizione delle relazioni tra processi psichici, stadi di sviluppo e relative funzioni; il livello della struttura della personalità relativo all’organizzazione complessiva e alle modalità precipue, relativamente stabili, con cui un soggetto si pone in relazione con gli oggetti del suo mondo esperienziale (Sarno, Caretti, 1999).
In questo modello della diagnosi, concepito come processo dimensionale, l’assunto è che esista un continuum salute-malattia, che la sofferenza abbia un suo significato che viene deformato o occultato dal sintomo, che quell’individuo va visto rispetto alla sua storia e al contesto e solo tenendo conto di queste diverse estensioni si può arrivare ad una comprensione integrata di quella persona e del suo funzionamento. Si differenzia così il processo del diagnosticare dalla diagnosi come “verdetto”, superando il concetto di staticità sia in termini categoriali che temporali (Westen, Gabbard, Blagov, 2006). Rossi Monti (2008) ha posto il problema di che cosa ci si attende dalla diagnosi e che uso se ne fa. Dopo aver dichiarato che la diagnosi che addormenta ogni ulteriore possibilità di conoscenza si pone come ostacolo nella relazione terapeutica, ha indicato la assoluta necessità di difendere ad ogni costo la differenza dell’approccio «clinico» dall’approccio «cinico», dove la ‘l’ comporta una enorme differenza (2008, p. 797). Ma proprio l’approccio clinico alla diagnosi ha determinato una concezione così complessa che, con Petrella (1989), dobbiamo convenire che non si può arrivare ad una tavola schematica che integri tutte le posizioni psicoanalitiche che considerano le diverse sfaccettature del processo e della denominazione diagnostica.
È utile, per concludere, richiamare un saggio scritto da Melanie Klein alla fine della sua vita (1960), e pubblicato postumo, in cui sintetizza il suo pensiero sul tema di cui si era occupata per tutta la vita: che cosa determina la salute mentale? Klein argomenta che, considerando la “natura articolata e complessa della mente”, alla base della salute mentale c’è una buona integrazione della personalità. Le caratteristiche di una personalità integrata, quindi in buona salute, sono: maturità emotiva, forza di carattere, capacità di trattare i conflitti emotivi, equilibrio tra mondo interno e adattamento alla realtà, coesione delle diverse parti della personalità. Melanie Klein specifica che la salute mentale poggia sulla interazione tra le due forze fondamentali della vita psichica, ossia gli impulsi d’amore e di odio, interazione nella quale deve essere la capacità di amare ad essere predominante (Klein, 1960).
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