Frederick Leighton _particolare
Di cosa abbiamo sofferto. Di cosa soffriremo. Le diverse emozioni della pandemia.
A cura di Cristiana Pirrongelli
Sulla paura
Appare estremamente riduttivo e generico parlare di paura a proposito dell’attuale pandemia e del lockdown conseguente. E’ un’emozione in prima linea ma non certo l’unica. Premetto che l’annosa disputa tra Ledoux e Panksepp se la paura sia da definirsi tale solo se è conscia, elaborata a livello corticale (Ledoux) oppure se è sufficiente che sia esperita a livello sottocorticale per essere definita emozione come negli animali, o negli anencefali, per essere definita emozione conscia di paura, riveste, in questo contesto, importanza secondaria. Ma due parole sulle rispettive posizioni possono essere spese. Per LeDoux, un’esperienza emotiva soggettiva come provare paura, si produce quando diventiamo coscienti che un sistema cerebrale emotivo, quello della difesa attacco-fuga, diventa attivo. Abbiamo bisogno di un sistema di difesa però abbiamo anche bisogno di essere consapevoli della sua attività per definirla, più che emozione, sentimento, affetto, esperienza cosciente di paura. Scrive Panksepp: per LeDoux «l’affetto è una sorta di ripensamento emotivo che emerge quando la fisiologia viene riletta dalle parti della corteccia prefrontale che supportano la memoria di lavoro» (J. Panksepp, L. Biven, 2012, p. 76). Nel corso di questa pandemia certamente avremo provato diversi tipi di paura talora conscia talora no, legata a ciò che ascoltavamo dai bollettini televisivi, dalla presenza di qualcuno che ci tossiva davanti senza mascherina o, per molti agorafobici e claustrofobici, l’esperienza della città vuota o del supermercato e dei luoghi chiusi. Altri tipi di paura dipendenti da ricordi soggettivi della memoria autobiografica (una città deserta prima di un uragano, le file davanti ai panifici come in tempo di guerra) e sensorialità (l’odore dei disinfettanti in chi magari, bambino, ha visitato un familiare malato in ospedale). Per LeDoux l’amigdala ha sempre un ruolo centrale: c’è una via breve che dagli organi sensoriali giunge direttamente all’amigdala, sede, per LeDoux delle reazioni automatiche di attacco e fuga, legate alla difesa e alla sopravvivenza, a reazioni fisiologiche e motorie automatiche. E una seconda via, lunga, che dagli organi sensoriali passa attraverso l’amigdala e giunge alla corteccia prefrontale, dove si attivano varie memorie ma soprattutto quella di lavoro, a breve termine, grazie alla quale il cervello comincia a costruire un significato. Solo quell’emozione, non più grezza ma oggetto di pensiero e riflessione, può dirsi per lui, come dicevamo, un sentimento, un affetto di paura. Panksepp critica con decisione la teoria di LeDoux innanzitutto sul ruolo dell’amigdala senza la quale per LeDoux non si ha sentimento. Cita i casi di pazienti che presentavano un’amigdala completamente danneggiata che potevano ancora fare esperienza di «preoccupazioni, paure e molte altre emozioni» (J. Panksepp, L. Biven, 2012, p. 76). Studi di visualizzazione cerebrale della paura negli esseri umani, per di più, hanno dato dei risultati interessanti sull’amigdala: mentre questa si accende quando i ricercatori trattano delle paure lontane, ipotetiche, mentre quando il pericolo è imminente si accendono invece, le parti inferiori del sistema della paura, in particolare il PAG (grigio periacqueduttale) del mesencefalo. E’ questa regione cerebrale, per Panksepp, che rappresenta «l’epicentro dei sentimenti e dei comportamenti paurosi. E secondo Panksepp la paura, per essere percepita in modo consapevole, non ha bisogno della mediazione della corteccia. E’ direttamente emozione: nel corpo, nei visceri, nella percezione in sé, cosciente del suo attivarsi da questi livelli di base mesencefalici a salire. Questa, così come le altre emozioni di base, rimangono intatte anche in seguito all’asportazione chirurgica della neocorteccia. Pertanto, la neocorteccia non è imprescindibile per la generazione di questi processi emotivi. Anche quest’emozione sottocorticale, più grezza se vogliamo, non “infiocchettata” da riflessioni e da senso (LeDoux)ci avrà pervasi in questi giorni, resi automaticamente più vigili e attenti al contatto con l’altro, favorendo istintivamente e non consapevolmente la tendenza all’isolamento e al distanziamento leggendo la paura negli occhi e nel comportamento degli altri. Panksepp opina inoltre che «c’è una grande quantità di dati che indica che, durante forti stati emotivi, il cervello umano esibisca un’attivazione ridotta delle regioni frontali dorsolaterali», ossia in quelle parti della neocorteccia che sottendono la memoria di lavoro; di contro, «queste aree frontali dorsolaterali sono più attive quando le persone sono coinvolte in compiti cognitivi non emotivi». «Questa parte mediale del cervello è comunemente iperattiva nelle persone depresse» (Ivi, pp. 86-87).
Come scrive Panksepp, LeDoux non avrebbe «preso in considerazione in modo esplicito il fatto che un sistema della paura integrato, con le sue numerose componenti ascendenti e discendenti che connettono l’amigdala con parecchie altre regioni cerebrali, sia sufficiente a generare i sentimenti grezzi della paura», ma «ha preferito l’ipotesi che i sentimenti emotivi emergano dalle regioni superiori della neocorteccia» (Ivi, p. 77).Con questo non si vuole affermare che gli animali siano «“autocoscienti” di ciò che sta accadendo loro al punto da poter avere grandi preoccupazioni sul futuro, cosa che richiederebbe memoria di lavoro». Ciononostante, le esperienze affettive generate dai sistemi neuronali sottocorticali, senza bisogno di rilettura neocorticale, non sono semplici decorazioni come sostiene LeDoux ma corrispondo alle «varie ricompense e punizioni del brain mind, il cervello mente», decisive nel «generare i ricordi affettivi appresi» e fondamentali anche per capire come le emozioni influenzino i processi mentali superiori.
Oltre la paura
Qui vorremmo uscire dalla disputa scientifica, tra emozioni consce e inconsce, sulla quale Ledoux , Panksepp, e altri eminenti neuroscienziati si confrontano da anni. Ci sembra più utile allargare il discorso ad un più ampio ventaglio di emozioni presenti nel periodo del lockdown altrettanto rischiose per la salute mentale rispetto a quanto lo sia la paura. Si, la paura è senz’altro presente in questi mesi ma soprattutto l’ansia: quella pervasiva, la minaccia invisibile, l’agguato. Più che la paura, uno stato di disagio diffuso, di un pericolo non immediato ma incombente, collocabile ora, domani, nel futuro, una minaccia da cui difendersi senza ben sapere quando, come e se ci si riuscirà. Tutto si è fermato in attesa, e in situazione di incertezza. Ci siamo sentiti in larga misura impotenti, abbiamo scoperto d’emblèe il senso del limite, il crollo della nostra onnipotenza, la nostra poca possibilità di controllare l’andamento delle cose. I sessantenni sono diventati “anziani “e hanno immaginato la propria fine. Alcuni se ne sono, con nostro stupore, andati. Lo scenario in questo caso dobbiamo dire che non è stato di guerra né quello di una malattia classica: il nemico è invisibile come in un film (ricordate Cassandra Crossing?). I suoi effetti li abbiamo appresi a poco a poco e abbiamo saputo che può essere letale. Non sappiamo mai se è presente o assente nella persona che abbiamo davanti né parrebbe cortese chiederlo. Siamo stati disaggregati da persone e luoghi che avevamo scelto o imparato a considerare come nostri riferimenti, “oggetti Sé”, direbbe Kohut, che contribuivano alla nostra omeostasi, e chiusi nelle case, riaggregati nelle famiglie. Ma il virus poteva introdursi anche in quel luogo e non ci sarebbero più stati allora ulteriori luoghi in cui rifugiarsi. Il passo successivo è lo spalancarsi delle porte dell’ospedale con la temuta terapia intensiva. Non più porte da chiudere dietro le quali trovare sicurezza. Nessun utero blindato e sicuro in cui regredire. L’invenzione della porta metaforicamente più importante di qualsiasi altra. La porta come confine invalicabile dietro il quale stare al sicuro. Il masso davanti alla caverna. Ma noi siamo uomini moderni e viviamo nel mondo, non più nelle caverne. Una mascherina, un velo di amuchina, due metri di distanza non sono una porta. Il nostro corpo permeabile ad un pericolo invisibile che entra e può impadronirsi di te, trasformarti e portarti subitaneamente via. E, chi più chi meno, abbiamo avuto paura di morire o veder morire. Da qui l’isolamento dietro una porta che, a parer nostro, ha aperto altre porte ad emozioni ancora più gravi della paura e dell’ansia. Al di là dell’annosa disputa sul fatto che gli animali o i bambini anencefali abbiano coscienza (Panksepp) oppure no (LeDoux) delle loro emozioni, tutti abbiamo potuto osservare altre emozioni oltre la paura. Ad esempio la gente ha mostrato un’iniziale reazione di coraggio e spavalderia con sventolio di bandiere, applausi e canzoni. Solidarietà, saluti dai balconi. Perché all’inizio, secondo Jaak Panksepp, la speranza di invertire l’andamento delle cose, soprattutto quelle temute, è ancora presente e ci si attiva per farsi coraggio. E’ il sistema della ricerca che si attiva, per cercare fuori, nel mondo, una rassicurazione, grazie alla memoria implicita del valore omeostatico delle cure parentali: è un richiamo collettivo alla ricerca di meccanismi di rassicurazione che prevedono, tra l’altro, il bisogno di comunicare l’un l’altro, di continuare a vedersi per rassicurarsi, come è accaduto da balcone a balcone. Si è trattato di difese che dal punto di vista analitico chiameremmo di negazione. Ma quando la situazione si protrae nel tempo, quando le rassicurazioni non arrivano chiare e nette, quando l’asse dello stress continua a essere attivato per troppo tempo, è il circuito della sofferenza e della perdita ad attivarsi, oltre quello della paura, ed è tale circuito emozionale a fare i danni più gravi. L’isolamento è già di per sé anti- fisiologico per l’uomo. E questo è confermato dai numerosi dati forniti da neuroscienziati come Jaak Panksepp e confermati da neurofisiologi del calibro di Stephen Porges, autore della teoria polivagale. Ovviamente la resilienza è diversa da individuo a individuo, da comunità a comunità e lo stesso discorso può valere per intere società: dopo una catastrofe, una pandemia, un attentato: c’è chi rimane in perenne stato di instabilità, chi sopravvive e gradualmente si riprende, chi crolla. E tale concetto, di cui parlerà più compiutamente la dottoressa Anatolia Salone in un prossimo articolo, appare quindi un pensiero che dalla psicologia si può favorevolmente estendere alla sociologia. Il massimo comun denominatore dei diversi sistemi emozionali in gioco, fatte salve le citate differenze individuali e sociali, contiene molte e diverse emozioni e sfumature di queste, nonché la loro evoluzione nel tempo. Parlavamo del protrarsi della mancanza di speranza, generata dal lungo periodo di lock down e dalla mancanza di notizie non dico buone, ma almeno obiettive, comunicate con chiarezza e neutralità. L’incertezza, come ci insegna Porges, è fatale per attivare alla lunga il vago dorsale, l’antico sistema di difesa che uomini e anmali mettono in atto nelle situazioni più traumatiche o stressanti. Il rallentamento, il calo dell’umore, l’ipomimia, la difficoltà di respiro, l’astenia, l’abbassarsi delle difese immunitarie e di tutti i parametri vitali sono dietro l’angolo. La perdita dei legami sociali profondi indebolisce il sistema affettivo nell’uomo (e in molti animali), e anche quello immunitario come dicevamo, e la tristezza per la separazione si somma alla paura della propria e altrui perdita riattivando fantasmi di fine, di morte, di solitudine, di impotenza. Nessuno: né uomo né animali nasce da solo e può fare a meno di cure e di presenza fisica. Il remoto, appunto, è remoto (mi riferisco a skype, a face time, a zoom, all’ isolamento fisico se non visivo o acustico) e, alla lunga, il legame si indebolisce. La famiglia, per chi ne ha una, può non corrispondere necessariamente o sufficientemente a quanto serve al nostro benessere nonostante molti abbiano esperimentato con gioia il tempo ritrovato, la casa, i familiari, la cura reciproca. Ma questo può reggere per un po’. I legami creati da un adolescente o da un adulto comprendono molto altro, oltre la famiglia. Alcuni studi di Panksepp mostrano come l’attivazione prolungata del sistema della sofferenza possa indurre disturbi cronici dell’umore e inibire persino l’entusiasmo generato dal sistema della ricerca. Si smette di cercare, appunto. La curiosità, la voglia di esplorare, la ricerca si spengono dando luogo a quadri depressivi nei quali l’anedonia è centrale. Viene in mente il bel titolo di Vita Sackville West : “Ogni passione spenta”.
Quando gli animali e le persone si toccano (via tattile) e creano legami sociali gli oppioidi cerebrali(endorfine), insieme all’ossitocina che rinforza il piacere del legame anche tra madre e neonato, vengono secreti. Vivere in società aumenta la possibilità di sopravvivenza di tutte le specie sociali e ciò potrebbe spiegare in modo evolutivo l’origine di questo sistema che, come gli altri sistemi emotivi, è stato messo in luce da Panksepp come “innato”. Gli esseri umani creano lentamente legami sociali molto profondi già dopo la nascita e quando sono saldi e sicuri, alimentano la salute psicologica degli esseri umani per tutta la vita e probabilmente ne influenzano la capacità di resilienza ad eventi avversi. La separazione genera sentimenti di desolazione e infelicità legati ad una diminuita produzione di oppioidi endogeni e ossitocina, mentre il ricongiungimento genera conforto e sicurezza per aumentata produzione di questi, che sono i neuropeptidi che mediano il sistema della cura. Per inciso, chi ha mantenuto in qualche modo l’abitudine all’allenamento fisico sostenuto, o ha percepito con piacere lo stringersi dei legami familiari, cose che sono in grado di stimolare la produzione di oppioidi endogeni (endorfine) ha avuto certamente dei benefici e ha corso meno il rischio di scivolare in sentimenti depressivi o aneidonici.
Le relazioni sociali positive ed in particolare l’innamoramento, avrebbero una parabola simile alla dinamica della dipendenza da oppiacei: entrambe prevedono una potente reazione iniziale di piacere euforico, seguito da una diminuzione del piacere a causa dell’assuefazione/abitudine. Gli operatori in ambito psicoanalitico e psicoterapeutico, immagino si saranno creati molti dubbi sul separare per ragioni mediche, coppie formatesi recentemente (non ancora “congiunti”) biologicamente protetti nella fase iniziale di un recente innamoramento. Nella fase dell’angoscia di perdita, o di vera e propria separazione viene esperito invece un forte dolore e si attiva l’asse dello stress che tenta attraverso la produzione di ormoni che dall’alto del cervello incitano le ghiandole surrenali a produrre cortisolo per diverse ragioni adattative: il rilascio di questo in seguito allo stress dovuto all’ansia di separazione potrebbe essere spiegato considerando il ruolo dell’ippocampo, dove risiede la memoria episodica e autobiografica con relazioni spaziali. Secondo Panksepp il cervello cerca in questo modo di evocare il ricordo di luoghi più rassicuranti o consolidare tali ricordi. Il cortisolo prodotto in gran quantità, inoltre, tenta di bloccare, inibendola dal basso, la produzione degli ormoni che hanno innescato nel cervello l’attivazione dell’asse dello stress(CRF-ACTH_CORTISOLO) interrompendo la reazione con meccanismo feed-back. Se questo non succede perché la situazione stressante si prolunga o l’individuo è particolarmente vulnerabile, si hanno casi di stress cronici con gravi effetti cerebrali per esaurimento delle sostanze (dopamina, noradrenalina e serotonina) necessarie a far funzionare adeguatamente le nostre emozioni positive. Ed ecco comparire così i fenomeni dello spettro depressivo: tristezza, angoscia di perdita, depressione, panico. Panksepp si spingerebbe a profetizzare, in una situazione come questa, che le conseguenze psicologiche e psichiatriche siano da mettersi in correlazione, più che con la paura, con l’angoscia della perdita: dei contatti sociali, delle prospettive di vita, della speranza: di tutto ciò che ci dà piacere. Si attiva l’asse dello stress, si ipersensibilizza il sistema della sofferenza e una delle manifestazioni più eclatanti della prolungata attivazione saranno gli attacchi di panico.
In ambito psicologico e psichiatrico sono già attivi studi epidemiologici internazionali, per studiare gli esiti di questa pandemia su enormi campioni in tutte le nazioni colpite. In attesa di conoscerne i risultati non possiamo non rilevare la ricomparsa diffusa di una sintomatologia che ha a che fare con il panico. I pazienti predisposti sembrano aver avuto ricadute diffuse anche se questo sarà un dato da verificare su più larga scala e nel tempo. Tre sono gli aspetti tipici del panico e tutti e tre ci riconducono ad una correlazione tra angoscia di perdita, isolamento, solitudine e panico. Il primo di questi è l’agorafobia, che ha a che fare con il sentirsi troppo esposti senza un’adeguata protezione. La necessità di essere accompagnati esprime proprio la necessità di una figura di mediazione tra sé ed il mondo, La sensazione di non respirare ha trovato spiegazione in recenti studi scientifici che hanno dimostrato una importante connessione neuro-evolutiva tra i comportamenti innescati dall’angoscia da separazione (come il pianto) e le funzioni respiratorie (Porges, 2014; Panksepp e Biven, 2014). Questa emozione dipende dall’attività di un particolare circuito cerebrale, presente in tutti i mammiferi e negli uccelli, che promuove comportamenti di protesta e richiamo della madre quando essa si allontana dai suoi cuccioli.
Il disturbo di panico è una complessa situazione clinica che emerge in relazione ad un’esperienza emozionale molto precisa: l’angoscia di restare soli e senza supporto è un imprinting relazionale di sofferenza precoce al di là che prima dell’esordio lo stile relazionale, in modo difensivo, fosse autonomo e indipendente, poco incline a chiedere e difficilmente capace di esprimere i propri bisogni affettivi e relazionali. Se all’esordio il paziente non comprende quanto gli sta accadendo (e per questo si rivolge al pronto soccorso), un percorso psicoterapeutico può portare pian piano all’emergere di un’altra dimensione emotiva: quella legata alla solitudine. In questo periodo molti si sono sentiti soli ed è bene capire che il panico non c’entra con la paura ma con la paura della perdita, della solitudine.
Cosa ci resta
Ora è tempo di dire due parole su altre emozioni e funzioni superiori quali rabbia, terrore, capacità critica. Non essendo noi sociologi, ci limiteremo a scrivere solo poche righe sul rischio di ciò che resterà di tali emozioni, una volta tornati alla normalità. Un politologo e sociologo americano, giornalista e, professore di Scienze Politiche al Brooklyn College, Corey Robin, ha scritto nel 2005 un libro che faceva alcune riflessioni sulla società americana dopo l’11 settembre: “La politica del dominio”. Così scrive: “ “risvegliata dalla sua frivola esistenza dal male, si è di fatto di nuovo resa possibile l’azione morale deliberata”… “Convinti del fatto che non avessimo più principi morali a tenerci uniti dopo l ’11 Settembre molti commentatori parlarono solo della paura credendo che solo la paura potesse trasformare uomini e donne isolati in un popolo unito”… Ma il rischio, ad esempio negli Stati Uniti, è stato quello che la paura e il terrore fossero mantenuti vivi, alimentati da gruppi o forze politiche che hanno capitalizzato su questo.
Invece noi ci auguriamo che questa pandemia favorisca il riemergere di una una capacità riflessiva di come si sia arrivati a certe defaillance, ad esempio in ambito sanitario ed economico, e come cambiare le cose. Credo che il nostro compito di psicoanalisti dovrebbe essere quello di non lasciar deperire una funzione critica, parte di una mente psicoanalitica: un contributo al senso di capacità di pensare e di agency che è giusto donare ad ogni paziente.
Corey Robin “La politica del dominio” , Università Bocconi Editore 2005.
Kohut Heinz.1977. Narcisismo e analisi del Sé. Bollati Boringhieri.
LeDoux J., 1996, The Emotional Brain. The Mysterious Underpinnings of Emotional Life, New York, Simon & Schuster (tr. it. Il cervello emotivo. Alle origini delle emozioni, Milano, Dalai, 2003).
Panksepp J., Biven L., 2012, The Archeology of Mind. Neuroevolutionary Origins Of Human Emotions, New York, W.W. Norton & Company (tr. it. Archeologia della mente. Origini neuroevolutive delle emozioni umane, Milano, Cortina, 2014).
Porges Stephen.2018. Guida alla Teoria Polivagale. G.Fioriti editore.