John William Waterhouse, Boreas – 1903
A cura di Stefano Tugnoli
Definizione
Quando si parla di depressione è utile distinguere un termine più generico che si riferisce ad un’ esperienza affettiva che può limitarsi ad uno stato d’animo di tristezza anche momentaneo da una vera e propria sindrome depressiva. Questa è una condizione psicopatologica caratterizzata da sintomi ben precisi che includono anche altri elementi del vissuto soggettivo e del comportamento (il concetto di “sindrome” rimanda alla presenza di un gruppo di sintomi che definiscono un quadro clinico specifico).
La condizione depressiva si descrive dunque come uno stato di sofferenza soggettiva che rimanda a specifiche modalità di funzionamento psichico in cui convergono, variamente intrecciati, sintomi emotivo-affettivi (umore depresso, perdita di interesse e delle possibilità di piacere, sentimenti di impotenza e disperazione, colpa , vergogna, inutilità, indegnità, inferiorità), sintomi cognitivi (pensieri a contenuto negativo su di sé, una visione negativa del mondo e della vita, aspettative negative sul futuro, idee di suicidio), rallentamento psicomotorio, sintomi neurovegetativi (come insonnia e riduzione dell’appetito) e fisici (soprattutto dolori, astenia, disturbi gastrointestinali). Siamo nell’ambito dei cosiddetti “disturbi dell’umore”, area della psicopatologia caratterizzata primariamente da una compromissione della qualità del vissuto affettivo: il termine “umore” rimanda, infatti, allo sfondo emotivo dell’esperienza, a quella dimensione della vita psichica che colora di segno positivo o negativo il senso che l’individuo attribuisce a se stesso e al proprio rapporto con la realtà.
Sul piano epidemiologico, la depressione ha una grossa rilevanza in tutto il mondo, è sempre più diffusa ed è il disturbo psichiatrico più comune: dal 10% al 20% della popolazione adulta viene colpito dal disturbo depressivo nel corso della vita (Gabrielli, 2009; Altamura et al., 2006). Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, oggi circa 300 milioni di persone soffrono di depressione, patologia che, in base alle stime, entro il 2020 sarà la seconda più comune causa di disabilità per malattia (Siracusano, Niolu, 2007).
Per quanto riguarda le cause della depressione, dobbiamo considerare una complessità di fattori che comprendono: la predisposizione genetica, gli eventi di vita e la dimensione psicologica della soggettività nelle sue varie articolazioni cognitive e affettive.
La psicoanalisi, che ha come specifico oggetto d’indagine la realtà psichica, individua le radici della depressione nelle profondità dell’inconscio e nel mondo interno.
Dal punto di vista della psicoanalisi dello sviluppo la depressione è intesa anche come dimensione dello psichico che attiene alle vicende evolutive di ogni individuo.
Dalla nascita in poi il bambino incontra molteplici momenti di dolore emotivo che, nel caso di uno sviluppo sufficientemente sano, sono funzionali alla crescita.
Quando le cose non vanno per il meglio, quando l’ambiente non è sufficientemente in grado di rispondere ai bisogni del bambino (che a sua volta può essere particolarmente vulnerabile o predisposto) le vicende depressive infantili possono assumere valenze patogenetiche, tracciando linee di fragilità strutturale nella psiche dell’individuo. In questi casi può svilupparsi una vera e propria depressione infantile, oppure tali fragilità possono rimanere silenti per molto tempo, rivelandosi solo nella vita adulta in occasione di particolari difficoltà.
Ciò che può rendere patologica questa situazione non è soltanto la presenza di uno stato d’animo depressivo, ma il fatto che questo vada a delinearsi con particolari qualità, intensità e durata nel tempo: la depressione diventa malattia quando finisce per occupare in modo pervasivo la vita psichica dell’individuo determinando importanti limitazioni, impedimenti o significative alterazioni a livello relazionale, lavorativo e sociale.
L’intensità del male depressivo può andare da livelli relativamente lievi o moderati, che fanno soffrire ma che non impediscono di lavorare e di avere una vita di relazione (sono le cosiddette “depressioni nevrotiche”), sino a situazioni cliniche molto gravi e disabilitanti, che determinano una frattura nella continuità del corso dell’esistenza, la compromissione del contatto con la realtà e la comparsa di pensieri deliranti di colpa, di rovina o ipocondriaci (in questi casi si parla di “depressione psicotica”).
La depressione in psicoanalisi
Freud in Lutto e Melanconia (1917) delinea con estrema precisione le dinamiche intrapsichiche inconsce che determinano l’insorgenza della depressione, confrontandole con quelle che caratterizzano l’esperienza del lutto.
Egli nota che il dolore del lutto permane per un certo tempo, almeno fino a quando il soggetto non è in grado di accettare realisticamente la perdita e di rivolgere la sua affettività ad altri oggetti, ad altre persone o cose, concrete o astratte che siano (questo processo è ciò che viene chiamato comunemente “elaborazione del lutto”) . In alcune persone il lavoro psichico del lutto si rivela impossibile: l’Io è pieno di colpa e senso d’ indegnità e s’instaura una depressione.
Freud intuisce che ciò che appare come autoaccusa e senso di colpa in realtà è un rimprovero colpevolizzante diretto all’oggetto (interiorizzato) d’amore perduto, rimprovero che si ritorce sull’Io del soggetto che è inconsciamente identificato con l’oggetto.
La manovra difensiva si rivela tuttavia perniciosa a causa dell’intensa ambivalenza che caratterizza la relazione oggettuale.
L’oggetto perduto, con cui l’Io del soggetto s’ identifica, fu tanto amato ma anche molto odiato, e quella ostilità che, insieme all’amore, inizialmente era orientata verso l’oggetto, ora investe quella parte dell’Io che si è identificata con esso: “l’ombra dell’oggetto ricade sull’Io”.
Il carico di odio ritorna quindi sull’Io come autoaccusa e senso di colpa in un circolo vizioso che, in casi estremi, può portare al suicidio.
L’affetto depressivo
Nella sua forma più elementare l’affetto depressivo corrisponde ad un vissuto d’impotenza (helplessness) cioè all’essere inermi e disperati di fronte ad una situazione che è intervenuta e che non si può cambiare (Bibring, 1953); un fatto compiuto e sentito come irrevocabile che ha introdotto un cambiamento negativo della propria condizione. L’evento “chiave” che può innescare l’affetto depressivo è la perdita, la perdita di qualcuno/qualcosa che si ritiene necessario per il mantenimento del benessere psichico. Allo stesso tempo questo cambiamento si denota anche come perdita di uno stato del Sé, come un venir meno della stabilità interiore e del sentimento del proprio valore, della propria capacità. L’affetto depressivo implica sempre quindi un calo dell’autostima e un impoverimento del Sé: chi è depresso si sente scarico, svuotato, non crede più in se stesso e può ritenersi un fallito.
Ma perché l’autostima sia compromessa, e si produca così l’affetto depressivo, è necessaria anche la presenza di altri fattori.
Bleichmar (1996, 1997), riprendendo Freud (1926), evidenzia come oltre alla perdita oggettuale, debba sussistere anche la mancata accettazione della perdita e il permanere del desiderio nei confronti dell’oggetto perduto, desiderio destinato a rimanere insoddisfatto per sempre perché la propria aspirazione al ricongiungimento con esso rimarrà sempre tale.
Infine, perché si determini una compromissione dell’autostima e si configuri un’esperienza depressiva, è necessaria la presenza dell’aggressività, un’aggressività diretta contro se stessi che, sia pur con rilievi e significati diversi, ritroviamo in tutte le forme di depressione (Bleichmar,1996, 1997). Questo aspetto, peraltro, è ciò che differenzia la depressione dalla semplice tristezza, condizione che non ferisce il sentimento di sé, non implica un calo di autostima e non toglie la speranza.
Fatte queste premesse sul nucleo costitutivo di ogni esperienza depressiva (l’affetto depressivo), va precisato che parlare di “depressione” non significa riferirsi ad un’unica condizione clinica: la psicoanalisi contemporanea affronta il problema considerando le eterogenee configurazioni del mondo interiore che sta dietro le quinte della sofferenza, i livelli di funzionamento mentale e di organizzazione strutturale della personalità che sottendono diverse espressioni cliniche della depressione.
Senso di colpa e senso di vergogna
La depressione può caratterizzarsi per la presenza di un senso di colpa che opprime la coscienza dell’individuo con autoaccuse, recriminazioni, rimorsi. E’ come se la persona depressa sente di aver fatto qualcosa di contrario ai propri princìpi o di lesivo del bene degli altri, soprattutto delle persone che gli sono affettivamente più vicine.
A volte nell’esperienza depressiva non vi è tanto il sentimento di colpa quanto piuttosto un animo mortificato, travolto da un senso di sconfitta e di fallimento: sono qui in primo piano la vergogna, l’umiliazione e l’autosvalutazione legati al non essersi dimostrati all’altezza delle proprie aspettative, incapaci di raggiungere o confermare ciò che da se stessi si pretendeva.
Sono circostanze nelle quali risulta centrale una fragilità narcisistica a causa della quale, ogni volta che la realtà non corrisponde alle aspettative, gli equilibri affettivi si dimostrano precari e vulnerabili, nel segno del fallimento e della delusione verso se stessi.
Il soggetto vede compromessa l’immagine di sé e sperimenta traumaticamente l’impossibilità di corrispondere ad un proprio ideale e di disporre sempre e comunque dell’attenzione, dell’approvazione e dell’ammirazione dell’altro (Battacchi, Codispoti, 1992; Chasseguet Smirgel, 1975; Lewin, 1971; Nathanson, 1987). A questo livello l’esperienza depressiva può essere vissuta come un insulto, come uno scarto intollerabile tra un concetto idealizzato di sé e l’evidenza delle cose che lo smentiscono. La rabbia narcisistica (Kohut, 1978) suscitata dalla vergogna e dall’umiliazione può dominare il campo e può anche tradursi in comportamenti autodistruttivi.
Altre volte le difficoltà narcisistiche sono alla base di depressioni croniche che opacizzano la vita di chi si sente sistematicamente incapace, inadeguato, inferiore, impossibilitato a realizzare ciò che desidera. L’individuo avverte un’insufficienza fondamentale nel suo essere, soggiogato da un ideale di sé eccessivamente pretenzioso che lo pone drammaticamente in rapporto con i suoi limiti (Pasche, 1963). Egli si sente schiacciato da uno scarto tra desiderio e realtà mai completamente colmabile, nell’incapacità di corrispondere a ideali infantili smisurati che non si sono mai ridimensionati con lo sviluppo, con il riconoscimento del limite umano, con l’accettazione delle inevitabili frustrazioni della vita.
La fragilità costitutiva del sentimento di sè può talvolta portare a cercare affannosamente i rifornimenti per l’autostima soprattutto nel mondo esterno, nelle situazioni di vita e nelle relazioni.
È questo il caso di individui che mostrano una difficoltà “strutturale” nel dare continuità al senso del proprio valore in assenza di conferme e di riconoscimenti provenienti dall’esterno. Si parla in questi casi di “depressione anaclitica” (Blatt, 1974) (il termine “anaclitico” fa riferimento all’appoggiarsi su qualcuno/qualcosa), caratterizzata prevalentemente da angoscia di abbandono e senso di isolamento, da un pervasivo bisogno di essere amati “nutriti” e protetti da persone o situazioni particolarmente investite sul piano affettivo.
Esistono infine forme depressive particolarmente radicate nel carattere degli individui.
Kernberg (1988), a questo proposito, parla di “disturbo di personalità depressivo-masochistico”, segnalando la stretta commistione tra depressione e aspetti del carattere che rimandano al “masochismo morale”, concetto introdotto da Freud (1924) per descrivere un assetto caratteriale centrato su un senso di colpa inconscio che porta l’individuo a ricercare situazioni punitive, procurandosi una sofferenza psicologica che, sia pur inconsciamente, gli appare come necessaria, mentre agli occhi degli altri risulta assurda e incomprensibile.
In questi soggetti prevale l’idea di poter essere amati solo mortificando se stessi, di riuscire ad evitare la perdita dell’amore con la sofferenza con il risultato di essere trascinati nella perdita di sé (Bieber, 1980). Il masochista morale “è un depresso che continua a sperare” (McWilliams, 1994) mantenendo a tutti i costi una relazione con l’oggetto, anche se a prezzo della propria infelicità.
Un ultimo aspetto da considerare, in questa breve e inevitabilmente parziale ricognizione della depressione, riguarda il fatto che non sempre l’affettività, il funzionamento cognitivo e il comportamento del soggetto presentano i tratti ben riconoscibili della “sindrome depressiva”.
Ci sono circostanze in cui l’affetto depressivo “non trova le parole” e si esprime nel corpo, con somatizzazioni di vario genere che rientrano nella configurazione della cosiddetta “depressione mascherata”: non si osserva il tipico abbassamento del tono dell’umore, mentre prevalgono i sintomi somatici, come dolori diffusi, disturbi gastrointestinali, cefalea, insonnia, stanchezza persistente o altri sintomi fisici. L’espressione nel corpo del disagio depressivo risulta particolarmente importante nei bambini – che ancora non dispongono di adeguati mezzi verbali e di capacità cognitive che consentano di dar voce alle loro emozioni – e negli adolescenti o negli anziani, per i quali il corpo, anche se per motivi molto diversi, assume nel vissuto soggettivo un’importanza centrale .
Talvolta è invece un ricorrente stato di agitazione a mascherare un sottostante assetto depressivo: il sentimento di incapacità e fragilità intrinseco alla depressione fa sì che ogni cosa, ogni impegno, scelta o relazione, possa diventare una minaccia al proprio equilibrio. L’allerta permanente che ne consegue si manifesta con una sintomatologia ansiosa, in apparente assenza di depressione; nella pratica clinica sono frequenti i casi di ansia che, ad un esame più approfondito, si precisano in realtà anche come disturbi depressivi (depressione agitata).
Infine la depressione può presentarsi insieme alla patofobia, con il convincimento angoscioso, più o meno tenace, di essere affetti da qualche malattia fisica, grave o mortale, in assenza di una corrispondente patologia organica riscontrabile nella realtà.
Spesso questa condizione si accompagna al corteo dei diversi sintomi che caratterizzano il quadro clinico tipico della depressione, ma a volte appare essenzialmente come angoscia ipocondriaca, come terrore di fronte alla malattia di cui ci si crede portatori, come una “depressione senza affetto depressivo” (Asch, 1966).
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Giugno 2014