Il rapporto tra psicoanalisi e neuroscienze è di grande attualità. Giunge, dunque, molto puntuale la sollecitazione di Felice Cimatti a considerare i presupposti e le implicazioni epistemologiche del dialogo tra le due discipline. Una riflessione critica su tali questioni è di particolare importanza per gli psicoanalisti, se è vero – come anch’io penso – che, al di là dei singoli argomenti tecnici di questo dialogo, la posta in gioco “ora come ai tempi di Freud, è quella dell’autonomia e della specifica razionalità scientifica, e di metodo, della psicoanalisi” rispetto alle altre scienze (Cimatti, 2007).
Disciplina relativamente giovane, avendo appena compiuto il primo secolo di vita, la psicoanalisi è nata e ha trovato il suo spazio all’incrocio tra diverse pratiche e diversi campi del sapere. Il Freud neurologo clinico e ricercatore neurobiologo, cimentandosi con i problemi posti dall’isteria, si trovò a sperimentare nuovi metodi terapeutici e a formulare nuove ipotesi che, al di là delle sue stesse intenzioni di partenza, lo portarono a organizzare, passo dopo passo, un dispositivo di cura e di conoscenza inedito, da cui derivarono scoperte non più riconducibili all’interno delle discipline esistenti, ma tali da configurare un nuovo campo, idoneo a contenere e far sviluppare l’esplorazione del nuovo oggetto scientifico così individuato: la realtà psichica inconscia.
E’ indicativo ricordare, in proposito, che il nome psicoanalisi fu inizialmente dato da Freud al nuovo trattamento delle nevrosi (la talking cure) e solo più tardi, nel corso degli anni, egli ne ampliò il significato per designare anche il metodo di indagine, coincidente con la cura, e l’insieme delle nuove conoscenze così ottenute. Ciò testimonia la gradualità del percorso freudiano prima del consapevole approdo alla messa in forma della psicoanalisi come scienza autonoma: “scienza empirica”, in quanto “si attiene ai dati di fatto del proprio campo di lavoro” e “procede a tentoni avvalendosi dell’esperienza”, sempre “disposta a dare una nuova sistemazione alle proprie teorie oppure a modificarle”, così come avviene nelle altre scienze quali “la fisica e la chimica”. (Freud, 1922, 457).
Non è stato facile per Freud accantonare il progetto di ricondurre nell’ambito della neurobiologia le sorprendenti esperienze e le teorie che andava sviluppando. All’esigenza di trasformare lo strumentario concettuale e linguistico di cui disponeva, per adeguarlo al nuovo campo teorico-clinico, si aggiungeva la difficoltà di definire e far riconoscere il posto della nuova disciplina nel contesto culturale e scientifico dell’epoca. Possiamo oggi constatare che egli riuscì, sia pure con fatica, a svincolare la psicoanalisi dal riduzionismo fisico-chimico di stampo positivistico, che dominava l’orizzonte della sua formazione di medico e ricercatore, senza perciò situarla tra le “scienze dello spirito” (Geistenwissenschaften) contrapposte alle “scienze della natura” (Naturwissenschaften), nella prospettiva dualistica sostenuta dallo storicismo.
Come è dimostrabile anche con precisi riferimenti testuali (Assoun, 1981), per affermare e preservare la specificità della neonata disciplina Freud poté far leva sull’epistemologia del suo contemporaneo Ernst Mach, che riconosceva a ciascuna scienza uno statuto “speciale” (Spezialwissenschaff), in base alla peculiarità dei fenomeni selezionati come oggetti di indagine, ritagliandoli dal continuum psicofisico dell’esperienza umana. Questa concezione pluralistica del sapere (a prescindere da altri aspetti del pensiero machiano) anticipava un punto di vista ben rappresentato nell’epistemologia contemporanea, dove si ammette che ogni scienza costruisce un proprio campo operativo e osservativo all’interno del quale certi fatti, e non altri, prendono forma diventando pensabili e comunicabili (Borutti, 1999).
Ho ricordato sommariamente lo sviluppo del pensiero di Freud fino all’affermazione − in seguito mai revocata − dell’autonomia e specificità scientifica della psicoanalisi, perché c’è oggi chi sostiene che sia giunto il momento non solo di ravvivare il dialogo tra psicoanalisi e neuroscienze, ma anche di procedere verso la riunificazione delle due discipline, realizzando così quello che sarebbe un presunto auspicio trasmesso ai posteri dallo stesso Freud.
Esemplare al riguardo è la posizione di Kandel (1999), che a buon diritto Cimatti qualifica “assimilatrice”, per come l’autore delinea le condizioni di partenza e i possibili esiti di un dialogo che, nonostante le rassicurazioni anti-riduzionistiche (p.519), avrebbe quale dichiarato obiettivo finale “una disciplina unificata” comprendente “neurobiologia, psicologia cognitiva e psicoanalisi” (p.522).
Cimatti evidenzia nitidamente le premesse, esplicite e implicite, in base alle quali il magnanimo premio Nobel offre asilo, nella sua erigenda casa comune, ad una psicoanalisi giudicata in grave crisi e a rischio di esaurimento della sua originaria vitalità. In particolare, Kandel rimprovera alla psicoanalisi di non aver sviluppato “metodi obiettivi” per verificare la fondatezza scientifica delle sue “brillanti idee”.
Dando per scontato un criterio universale di scientificità, a cui tutte le discipline dovrebbero adeguarsi (secondo un modello neopositivistico da tempo e da più parti criticato come insostenibile), la specificità dei fatti clinici sui quali la psicoanalisi fonda le sue ipotesi e con i quali continuamente le mette alla prova, secondo quanto prefigurato da Freud, non viene neppure presa in considerazione. Per Kandel – che sembra riecheggiare i giudizi espressi alcuni anni fa da Grunbaum − il setting clinico che costituisce il campo di lavoro specifico della psicoanalisi, sarebbe un terreno “contaminato” dalla soggettività, da cui non possono derivare prove attendibili della teoria, ma tutt’al più contributi euristici da verificare altrove con l’acquisizione di dati “obiettivi”. Rifiutare di integrarsi in questo paradigma equivarrebbe per la psicoanalisi, secondo Kandel, a scegliere di definirsi come disciplina “ermeneutica” invece che “scientifica”, destinandosi a rimanere una sorta di “filosofia della mente” (p.507).
Ma se i fatti di cui la psicoanalisi si occupa e a cui le sue teorie specificamente si riferiscono sono quelli che accadono nel campo bipersonale e intersoggettivo della seduta analitica, l’analista può fungere da osservatore attendibile proprio in quanto è anche soggetto partecipe dell’esperienza. La soggettività, che nell’ottica positivistica è guardata con sospetto, come fonte di irrimediabile contaminazione dei dati, in psicoanalisi rappresenta invece una dimensione costitutiva dell’oggetto di indagine.
Riproporre una netta dicotomia epistemologica tra soggettivo e oggettivo significa non tenere conto delle modalità con cui si realizzano concretamente le varie procedure empiriche e conoscitive delle varie scienze. In ciascun ambito il polo soggettivo e quello oggettivo dell’esperienza si articolano diversamente, ma sono entrambi implicati nelle varie forme di oggettivazione (Borutti, cit.) che rendono accessibili a una comunità gli oggetti di ricerca e di studio così individuati.
intersoggettivaL’antinomia oggettivo/soggettivo, come altre analoghe (spiegazione/ comprensione, causa/motivo, nomotetico/idiografico, ecc.), rimanda al dualismo tra scienze della natura e dello spirito, oggi declinato in forma di contrapposizione tra la scienza tout-court e l’ermeneutica. La forzata collocazione nell’uno o nell’altro di questi campi opposti sarebbe mutilante per la psicoanalisi, così come per le altre scienze dette umane proprio perché si occupano di quell’animale culturale, pensante e parlante, che è l’uomo. Possiamo oggi ancor meglio apprezzare la lungimiranza di Freud nel sottrarsi a questo rischio, nonostante alcuni brani della sua opera, enucleati dal contesto, sembrino talvolta prestarsi a qualche fraintendimento.
Ad esempio, quando Freud afferma, a più riprese, di considerare la psicoanalisi una “scienza naturale”, il contesto dimostra che non intende perciò contrapporla alle “scienze dello spirito”, bensì alle forme di conoscenza non scientifiche, il cui prototipo è rappresentato, in accordo con Mach, dalla filosofia e dalle visioni del mondo che essa elabora. In uno dei suoi ultimi scritti, parlando in termini generali della psicologia come disciplina che studia la vita psichica umana, nell’ambito della quale la psicoanalisi ha sviluppato la sua specificità di “psicologia del profondo”, egli ribadisce: “Anche la psicologia è una scienza naturale. Che altro mai dovrebbe essere?” (Freud, 1938a, 641, corsivo mio).
Il nodo cruciale sul quale Freud ha invece cambiato idea strada facendo, fino a maturare le posizioni più sopra ricordate, si può riassumere nella questione: che tipo di scienza naturale è la psicoanalisi? Ad un certo punto del suo percorso egli è giunto a pensare che la psicoanalisi può essere una scienza naturale adeguata al suo oggetto specifico senza aver bisogno, come credeva all’inizio, di “rappresentare i processi psichici come stati quantitativamente determinati di particelle materiali identificabili” (Freud, 1895, 201). E da un’attenta lettura dei suoi scritti non si evince affatto l’intenzione di considerare questa svolta del suo pensiero solo un provvisorio ripiego, come vorrebbero suggerire, con citazioni ad hoc, Kandel e i fautori della tendenza “assimilatrice”.
Senza dilungarmi più del necessario in dettagliati raffronti testuali, mi limito a sottolineare che gli attributi di “provvisorietà” e “incompiutezza” dei suoi costrutti teorici fondamentali non sono, per Freud, un segno di particolare debolezza della psicoanalisi, bensì una caratteristica che essa condivide con le altre scienze naturali e che può tollerare “nell’attesa che una determinazione più precisa […] emerga dal lavoro futuro” (Freud, 1922, 457).
Ma quale “lavoro futuro”? Forse proprio quello dei neurobiologi, come ritiene Kandel? Vale la pena di soffermarsi su un passo freudiano che Kandel riporta in esergo all’inizio del suo articolo e che spesso si ritrova citato anche da altri autori con analoghi intenti.
“Dobbiamo rammentare […] che tutte le nozioni psicologiche che noi andiamo via via formulando dovranno un giorno essere basate su un sostrato organico.” (Freud, 1914, 448).
A prescindere dall’ovvia esigenza di tener conto delle date, per non animare contraddizioni fittizie tra enunciati che appartengono a fasi diverse del pensiero freudiano (come pure non di rado avviene), in questo caso l’effetto suggestivo della citazione dipende dall’occultare il contesto dello stesso saggio da cui è tratta (Introduzione al narcisismo).
Una breve ricognizione, anche limitata alle parti contigue del testo, aiuta a chiarire il senso della frase in una direzione ben diversa da quella suggerita e, a prima vista, plausibile. Freud sta qui espressamente avventurandosi in “considerazioni di natura biologica” (ivi, 448), prendendo spunto anche da ipotesi sui “processi chimici” che starebbero alla base delle funzioni sessuali per dare forma alla sua teoria delle pulsioni, non ancora sufficientemente corroborata dall’esperienza analitica. Sono queste “nozioni psicologiche”, riferite a presunte “sostanze chimiche”, quelle per cui egli rinvia ai futuri progressi della biologia. Per ciò che riguarda la realtà psichica, le aspettative di Freud vanno esattamente nella direzione opposta, cioè di trovare più solidi fondamenti psicologici per ipotesi provvisoriamente appoggiate su speculazioni biologiche. Riporto un paio di frasi che mi sembrano dissipare ogni equivoco in proposito, tratte dal paragrafo immediatamente successivo a quello da cui proviene la citazione di Kandel.
“Proprio perché in genere mi sforzo di tener lontano dalla psicologia tutto ciò che è estraneo alla sua natura, incluso il pensiero biologico, desidero a questo punto ammettere espressamente che l’ipotesi […] − e cioè la teoria della libido − non poggia che in misura minima su basi psicologiche e ha invece nella biologia il suo supporto essenziale. Sarò quindi coerente abbastanza da lasciar cadere questa ipotesi sulle pulsioni nel caso in cui il lavoro psicoanalitico me ne indicasse una migliore.” (Freud, 1914, 449, corsivi miei).
La tesi secondo cui Freud decise di abbandonare il suo originario intento di ricondurre lo psichico al neurologico solo perché le neuroscienze dell’epoca non erano ancora abbastanza evolute si ritrova anche negli scritti di Mark Solms. Neuroscienziato e insieme psicoanalista, fondatore della rivista Neuro-Psychoanalysis, anch’egli parte da condivisibili proposte di dialogo tra le due discipline, alla luce dei progressi verificatisi in entrambe, ma giunge poi a esprimere posizioni “assimilatrici” analoghe a quelle di Kandel, sia pure seguendo un percorso un po’ differente.
Il passaggio decisivo consisterebbe nello “stabilire i correlati neurologici dei concetti metapsicologici che sono a fondamento delle teorie psicoanalitiche” (Solms e Turnbull, 2002, trad.it. 2004, p.350). A tal fine viene utilizzata la nozione-ponte di “apparato mentale”, entità astratta unitaria a cui sia la psicoanalisi che le neuroscienze farebbero riferimento, ciascuna dal proprio punto di vista. Se gli enunciati teorici delle due discipline riguardano “esattamente la stessa cosa” (ivi, p.327), allora è legittimo − se non doveroso − procedere a un’integrazione che consentirebbe di “controllare” la validità delle teorie psicoanalitiche, formulate in base a osservazioni “soggettive”, e quindi “inaffidabili”, con le ben più solide teorie fondate sulle descrizioni “oggettive” delle neuroscienze, che rappresenterebbero oggi “il tipo più affidabile di conoscenze a nostra disposizione a proposito delle leggi che governano un dato aspetto dell’apparato mentale” (ivi, p.329). Sarebbe così “finalmente alla nostra portata la possibilità di studiare, riportandola a unità fisiche misurabili, la vita interna della mente” (ivi, p.350).
Questo ragionamento − che culmina riportando in auge, quasi negli identici termini, le prime ipotesi di lavoro che Freud aveva accantonato insieme al suo Progetto del 1895 − contiene alcuni salti logici piuttosto ardui da seguire, in parte già ben evidenziati da Cimatti (le cui argomentazioni hanno forse, a mio avviso, l’unico limite di riprendere senza confutarla la dicotomia tra scienze “soggettive” e scienze “oggettive”, propria di quello stesso impianto di pensiero che egli critica).
L’apparato psichico, costruzione teorica elaborata da Freud con esplicita consapevolezza del suo carattere finzionale, di modello utile a rappresentare (con analogie spaziali, ottiche, energetiche, ecc.) i processi psichici inconsci ipotizzati per comprendere determinati fenomeni coscienti (Petrella, 1988), viene reificato e identificato arbitrariamente con la medesima entità a cui i neurobiologi si riferiscono per organizzare i dati empirici dell’attività cerebrale.
Nello stesso tempo si fa appello a un presunto senso comune, secondo il quale “[noi] comprendiamo che cosa si provi a essere un apparato mentale” (Solms e Turnbull, cit., p.326). Ma questa asserzione produce un effetto francamente bizzarro, non minore di quello che susciteremmo dicendo di sapere che cosa si prova a essere un cervello. Infatti sia “la mente” che “il cervello” − come oggetti scientifici − corrispondono a diverse forme di oggettivazione, nel pensiero e nel linguaggio, dell’esperienza umana che ciascuno di noi può vivere e conoscere soggettivamente in quanto persona.
Circa il peso che l’ultimo Freud attribuiva ai futuri progressi delle neuroscienze in rapporto allo specifico campo della psicoanalisi, mi sembra significativo ricordare alcune sue enunciazioni contenute nel Compendio.
Dopo aver constatato che all’epoca non era nota “una relazione diretta” tra cervello e vita psichica cosciente, egli così proseguiva.
“Ma se pure una tale relazione esistesse, al massimo potrebbe fornire un’esatta localizzazione dei processi della coscienza, comunque non potrebbe aiutarci a comprenderli meglio.” (Freud, 1938a, 572).
La svolta fondamentale operata dalla psicoanalisi consiste nel cercare una “miglior comprensione” dei fenomeni psichici coscienti non già ricorrendo a “presunti processi concomitanti di natura somatica” (ivi, p.585), bensì postulando l’esistenza di una dimensione inconscia della vita psichica, di cui si possono indagare le modalità di funzionamento e gli effetti sull’esperienza consapevole.
Con le parole seguenti termina un altro scritto freudiano dello stesso anno (Alcune lezioni elementari di psicoanalisi), rimasto incompiuto.
“ A causa della particolare natura della nostra conoscenza [psicoanalitica], il nostro lavoro scientifico nell’ambito della psicologia consisterà nel tradurre i processi inconsci in processi consci, così da colmare le lacune della nostra percezione cosciente…” (Freud, 1938b, 644).
D’altronde, l’interesse per un confronto attuale tra psicoanalisi e neuroscienze non viene affatto sminuito riconoscendo la specificità delle due discipline e l’irriducibilità degli oggetti e dei metodi propri di ciascuna. Il pluralismo dei punti di vista è, anzi, una fonte di arricchimento delle conoscenze sull’uomo che esse cercano di estendere.
La globalità di tali conoscenze, in continua evoluzione, rappresenta un sapere comune all’interno del quale ogni disciplina ritaglia e sviluppa il proprio ambito. E non c’è dubbio che, tra le regioni confinanti con la psicoanalisi, le neuroscienze occupino − oggi come ai tempi di Freud − un posto di particolare rilievo.
Ciò è ancor più vero se si tiene presente che il campo dell’esperienza psicoanalitica coincide con una pratica terapeutica, nella quale uno specifico metodo − che è insieme di indagine e di cura − viene impiegato a beneficio di una persona, non già del suo apparato psichico o del suo cervello.
La cura psicoanalitica ha avuto origine e deve continuamente aggiornare le proprie indicazioni (nel senso clinico del termine) in rapporto alle altre forme di cura disponibili e potenzialmente efficaci per gli stessi disturbi, tra cui quelle basate sulle conoscenze neurobiologiche, come la somministrazione di psicofarmaci.
Inoltre, la stessa applicazione del metodo analitico presuppone nel paziente l’integrità di alcune funzioni fisiche e psichiche di base: integrità che non sempre può essere data per scontata e la cui verifica richiede l’impiego (da parte dello stesso analista o di altre figure professionali) di metodi e nozioni provenienti da diverse discipline, quali la psichiatria e la neurologia. Ad esempio, sarebbe assurdo in teoria e deleterio in pratica cercare un’interpretazione psicoanalitica per il mutismo di un paziente colpito da afasia o da spasmo dei muscoli fonatori.
Il libro di Rizzolatti e Sinigaglia sui “neuroni specchio” (citato da Cimatti) rappresenta bene una linea di ricerca neuroscientifica consapevole delle proprie potenzialità ma anche dei propri limiti, con la quale gli psicoanalisti hanno più motivi di interesse a dialogare. E non è paradossale che in questo libro non si parli quasi per nulla di psicoanalisi. Lo sfondo di sapere condiviso sulla vita psichica umana a cui gli autori si riferiscono per attribuire un senso ai puri dati del funzionamento cerebrale è quello tracciato dalla fenomenologia, più che dal cognitivismo: uno sfondo rispetto al quale anche la psicoanalisi definisce la propria specificità (Ricoeur, 1965).
Una dimostrazione di come possa essere produttivo il dialogo impostato sul rispetto delle reciproche differenze si trova in un altro libro recente: Autismo. L’umanità nascosta (2006). In questa pregevole opera, che riesamina da più punti di vista il complesso argomento, Vittorio Gallese (neuroscienziato del medesimo gruppo di Rizzolatti) ipotizza che alla base dell’autismo − o quanto meno di alcune sue forme − ci sia un deficit di quei meccanismi di “consonanza intenzionale” con il comportamento altrui che richiedono il buon funzionamento di determinati circuiti neuronali. Nello stesso volume Francesco Barale e Stefania Ucelli (psicoanalisti e psichiatri) indicano chiaramente, all’interno di una riflessione ad ampio raggio, come una simile ipotesi solleciti a ripensare meglio anche il ruolo teorico e clinico della psicoanalisi nell’approccio multidisciplinare a questo enigmatico disturbo.
Bibliografia
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