In occasione del XVII Congresso della S.P.I. è stato conferito il Premio Musatti al neuroscienziato Vittorio Gallese. Nelle motivazioni del Premio si esprime l’auspicio che la collaborazione con il Prof. Gallese sia di aiuto a “attraversare passo dopo passo l’immenso territorio ancora ignoto che separa le scienze biologiche dalle scienze umane e sociali“. Un passo significativo in questa direzione è quello che collega le ricerche neurobiologiche sulle forme primarie dell’intersoggettività con gli studi clinici sul disturbo autistico.
Su questi temi abbiamo rivolto alcune domande a Francesco Barale, che ha una lunga e approfondita frequentazione sia della psicoanalisi che dell’autismo.
Francesco Barale è membro ordinario con Funzioni di Training della SPI, professore ordinario di Psichiatria e direttore del Dipartimento di Scienze del Sistema Nervoso e del Comportamento dell’Università di Pavia.
Assieme a Stefania Ucelli (allora psicoanalista SPI), ha dato vita nella seconda metà degli anni ’90, per studiare l’evoluzione dell’autismo in età adulta, al “Laboratorio Autismo” dell’ Università di Pavia, attualmente diretto da Pierluigi Politi (psicoanalista SPI e professore di Psichiatria); presso di esso sono state osservate da allora più di 400 storie di autismo e, da qualche anno, è attiva una ricerca anche di base, in collaborazione con ricercatori di diverse altre discipline.
Presidente della Fondazione Genitori per l’Autismo, è co-fondatore di “Cascina Rossago”, un’esperienza pilota nell’ambito dell’abilitazione di persone autistiche adulte.
Oltre a varie pubblicazioni scientifiche dedicate ai disturbi dello spettro autistico (reperibili nel sito web “Laboratorio Autismo“) F.Barale è autore, insieme a S. Ucelli, di un lungo testo, molto dettagliato e riccamente documentato, sulla storia nosografica del disturbo autistico: “La debolezza piena. Il disturbo autistico dall’infanzia all’età adulta“. Il testo fa parte diun libro a più voci uscito del 2006 (Autismo. L’umanità nascosta, Einaudi, con scritti di Ballerini, Barale e Ucelli, Gallese, a cura di S. Mistura).
Sempre assieme a V. Gallese e a S. Mistura (e con A. Zamperini e M. Bertani) F. Barale ha curato per Einaudi “Psiche. Dizionario storico di psicologia, psichiatria, psicoanalisi e neuroscienze”, che fin dal titolo indicava il tentativo di fornire una immagine, assieme “enciclopedica” e “storico-dinamica”, del mobile intersecarsi e fecondarsi reciproco di diversi campi disciplinari, al di fuori di ogni impossibile “sintesi”, riduttivismo o imperialismo di singoli punti di vista.
Intervista a cura di M.Ponsi
1 – Come prima domanda ti chiederei di riassumere i punti principali su cui si articolano le conoscenze attuali sull’eziopatogenesi dell’autismo.
E’ davvero difficile “riassumere”, come mi chiedi, le “conoscenze attuali” se non a grandissime linee e per tratti molto generali, dato che si tratta di uno dei campi delle neuroscienze in più rapida e tumultuosa evoluzione. Un’altra premessa sarebbe inoltre necessaria: sarebbe meglio parlare di “autismi”, al plurale, dato che il termine autismo ha finito col comprendere una enorme quantità di condizioni in realtà molto differenti tra loro. Un pochino (ma solo un pochino) la recente nozione “dimensionale” di “spettro” autistico va, del resto, in questa direzione. Fatte queste premesse, possiamo cercare di indicare alcuni punti fermi.
L’autismo (gli autismi) sono condizioni che fondamentalmente esprimono una atipia del neurosviluppo. Non sono solo questo o “nient’altro che questo”, ovviamente, perché a partire da quell’atipia si costruiscono poi le singole storie, le persone e i particolari mondi autistici. Ma là, sta la radice. E’ oramai ben noto che il funzionamento della mente autistica, con le sue particolari caratteristiche (che la ricerca neuropsicologica ha messo in luce nei decenni scorsi e che ora qui non provo neppure a riassumere), corrisponde sia ad assetti atipici del funzionamento di specifiche aree cerebrali che ad assetti atipici delle connessioni e dell’integrazione del funzionamento coerente di diversi distretti cerebrali.
Fin qui non avremmo tuttavia ancora elementi forti per orientarci nel rispondere al tuo quesito, dato che ovviamente non esiste funzionamento mentale che non abbia correlati cerebrali; ciò che per la risposta alla tua domanda è più importante, però, è che gli assetti atipici correlati ai particolari modi di funzionamento della mente autistica non sono interpretabili come meri correlati “funzionali”, ma a loro volta si radicano in atipie nei processi di formazione sinaptica e di organizzazione e riorganizzazione delle reti cerebrali databili ai primissimi mesi di gravidanza.
Le radici dell’autismo, dunque, sono davvero molto antiche, “originarie”, verrebbe da dire. Ci sono oramai numerose, ripetute e consolidate evidenze in questo senso, tant’è che possiamo dichiararci oramai “certi” che le cose stiano così, almeno nei limiti che ha qualsiasi certezza scientifica. Ciò non significa affatto che conosciamo la causa o le cause dell’autismo. Se non altro perché i processi di neuro-organizzazione sono straordinariamente complessi e dinamici; in essi intervengono centinaia di fattori, centinaia di loci genetici, con le loro complessissime interazioni, con le loro mutazioni o polimorfismi spesso del tutto casuali o de novo, ognuno dei quali esprime proteine implicate nelle organizzazioni sinaptiche, e poi con la cascata ancor più complessa di fenomeni che via via a questo livello consegue, dalla genomica alla proteomica alla metabolomica …. cascata nella quale inoltre interviene un importante modulazione da parte di aspetti epigenetici e infine anche ambientali … ma è davvero difficile dare una idea riassuntiva della complessità di eventi in gioco. Vale la pena ricordare che qui stiamo parlando comunque di basi di vulnerabilità; basi necessarie, perché in loro assenza non si può sviluppare autismo. In molti casi queste basi sono anche sufficienti di per sé (quando le alterazioni sono più gravi) perché l’autismo si sviluppi; in altri casi invece sono condizioni di rischio che possono essere squilibrate dall’intervento (secondario) di fattori ambientali di varia natura o da eventi o contesti traumatici anche del tutto banali.
Se vuoi, possiamo riferirci, anche in questo caso, al modello freudiano delle “serie complementari” della lezione 23 delle Lezioni Introduttive, come del resto per quasi tutte le condizioni psichiatriche, per le quali, come sai, quando si affronta la questione della etiopatogenesi ci si trova comunque a ragionare in termini di sistemi dinamici complessi e di movimenti di equilibro e disequilibrio tra fattori di rischio e di protezione di varia natura (a partire da quelli biologici), che attraversano quei sistemi in modi non “lineari”. Basta però mantenere le dovute proporzioni e sapere bene di cosa si stia di volta in volta parlando, per non rischiare di usare quello schema come passe-par-tout generico che consente di dire qualsiasi cosa e giustificare qualsiasi stravaganza (magari immaginando influenze di fantasie materne nei processi neuro-organizzativi dei primi mesi di gravidanza … del resto è stato fatto anche questo …); e per evitare magari di risollevare improbabili “psicogenesi” per una condizione come l’autismo, che clamorosamente non lo consente; ripeto: è oramai assodato che in assenza di quelle particolari atipie di base nessun vero autismo di regola si sviluppa, nemmeno nelle circostanze più sfavorevoli (traumatiche, o di neglect o di carenza di reverie-contenimento …).
Vi sono poi gli autismi “secondari”, per così dire, e quelli sindromici, in cui l’alterazione o la debolezza dei sistemi neurologici in gioco è conseguenza di altre cause e processi, di diversa natura. Insomma, non c’è una risposta unica e, ripeto, gli autismi sono tanti. Ma complessivamente, l‘insieme delle conoscenze che si sono sviluppate negli ultimi decenni rende in qualche modo merito all’originaria intuizione kanneriana (“questi bambini sembrano essere venuti al mondo sprovvisti di quella innata capacità di formare un normale contatto affettivo che è fornita biologicamente”) o anche ad analoghe intuizioni della Mahler (“osservando questi bambini non si può fare a meno di pensare che l’eziologia primaria, l’incapacità primaria di utilizzare, percepire l’agente delle cure materne, che è l’elemento catalizzatore dell’omeostasi, è innata, costituzionale …”).
Bisognerebbe dunque abituarci a pensare agli autismi come a modalità di esistenza e di costruzione del rapporto io/mondo che si sviluppano da basi idiosincrasiche e molto atipiche di esperienza, che riguardano le forme stesse dell’organizzazione percettiva (nel senso forte di Merleau-Ponty, se si vuole). Tutto ciò che si è venuto accumulando nelle conoscenze scientifiche, negli ultimi due decenni almeno, ci porta in sostanza a concludere che qui siamo di fronte a qualcosa che finisce col coinvolgere solo secondariamente ciò che avviene nell’incontro con l’oggetto, ma che innanzitutto riguarda i fondamenti, gli schemi stessi, verrebbe da dire, di quell’incontro e dell’intersoggettività primaria (o le “pre-concezioni”, se proprio vogliamo, anche se non amo queste estrapolazioni tra piani diversi).
Vi è del resto una letteratura che sta descrivendo i modi idiosincrasici in cui il bambino a sviluppo autistico cerca di cavarsela con “ciò che ha a disposizione“ (l’espressione fu di Meltzer); cioè con la debolezza strutturale delle sue competenze interattive e intersoggettive (di intersoggettività “primaria”, alla Trevarthen), con le sue peculiarità percettive, con le difficoltà di riconoscimento mimico, di sintonizzazione affettiva e tonico-posturale, con l’alterazione originaria nei processi imitativi, a partire già da quei fenomeni di imitazione “primaria”, descritti da Andrew Meltzoff alla fine degli anni ’70, e presenti a poche ore dalla nascita, e poi via via con tutta la costellazione di peculiarità e difficoltà descritte dalla neuropsicologia dell’autismo: debole “coerenza centrale” e, viceversa, particolarissime iper-connessioni locali con “iper-focalizzazioni” percettive e di funzione; impaccio nella comprensione ed esecuzione spontanea (“incarnata”) di sequenze intenzionali; difficoltà nell’ambito delle “funzioni esecutive”, e nel formare “forward models” dell’esperienza (“questi bambini sembrano non riuscire a immaginarsi il futuro, a formarsi dei modelli anticipatori dell’esperienza”, scrisse una volta quel geniale clinico che fu la Mahler, che pur non sapeva niente della neuropsicologia delle funzioni esecutive e delle disfunzioni nei circuiti fronto-limbico-cerebellari che sarebbero state messe in luce 30 anni dopo); difficoltà di “teoria della mente”, ecc.
La riflessione sulle forme dell’umano che si sviluppano sulla base di condizioni e caratteristiche di funzionamento tanto particolari potrebbe essere di grande interesse anche per gli psicoanalisti, dato che a partire da quelle condizioni comunque, appunto, dei “mondi” si organizzano, con i loro aspetti interni, le loro dinamiche, le loro psicologie, le loro costruzioni intersoggettive … E poiché anche le persone a sviluppo autistico hanno bisogno, come tutti, di “compagni viventi”, sarebbe bene che questi compagni conoscessero meglio con chi si stanno relazionando, per non sbagliare interlocutore …. Purtroppo sembra invece ancora prevalere, tra di noi, una esigenza di difendere vecchie concezioni indifendibili, che ostacolano sia la comprensione delle condizioni autistiche sia il dialogo con le altre discipline. Di fatto in ambito psicoanalitico è tuttora prevalente (in modi espliciti o impliciti) una concezione dell’autismo come “guscio difensivo”, come arresto a fasi pre-oggettuali dello sviluppo per un eccesso di angosce catastrofiche di origine variamente interna o esterna e/o di inadeguate condizioni relazionali della loro elaborazione. Anche se per la verità sarebbe noto da tempo che gli sviluppi autistici hanno fin dall’inizio caratteristiche peculiari, che non esiste proprio nessuna “fase” dello sviluppo non autistico che assomigli a ciò che si incontra nell’autismo e che non esiste alcuna “fase autistica normale” rispetto alla quale l’autismo possa essere considerato una fissazione o una regressione.
E’ ovvio che in ciò che si sviluppa a partire dalla difficoltà autistica ci sono poi anche le angosce catastrofiche o gli aspetti di chiusura difensiva; ma pensare l’autismo fondamentalmente in questi termini, come una condizione in cui un principino addormentato/terrorizzato chiuso nella sua conchiglia, attende, per risvegliarsi, le condizioni relazionali che gli consentano una maggiore fiducia nell’interazione e nell’interlocuzione umana, significa collocarsi subito fuori strada rispetto alla natura più profonda della condizione autistica e delle sue difficoltà, assumere una attitudine psicologistica inadeguata, in definitiva mettersi anche nelle condizioni di non lavorare bene neppure sugli aspetti psicologici e relazionali, che pure sono molto importanti.
Un ultimo elemento che vorrei ricordare, se non altro perché è un terreno su cui è molto attiva attualmente la ricerca, è lo squilibrio tra sistemi eccitatori e inibitori che sembra presente in molte condizioni autistiche. E’ un aspetto piuttosto importante e non mi cimento qui a segnalare le evidenze e le ipotesi su cui si sta lavorando per cercare di capirlo (anch’esso sembra comunque radicato in problemi di neuro-organizzazione). Tra l’altro questo squilibrio è probabilmente anche in relazione con la drammatica incidenza di epilessia e di condizioni epilettiformi nell’ autismo: si stima che esse sia almeno 50 volte più frequenti nella popolazione autistica che in quella non autistica, anche se il dato è stato a lungo sottostimato per molte ragioni (non ultima perché spesso nell’autismo le condizioni epilettiche o epilettiformi si manifestano tardivamente).
Mi fermerei qui per quel che riguarda l’etiopatogenesi, ben consapevole che non c’è una risposta semplice, ma che comunque alcuni punti fermi ci sono: l’autismo è fondamentalmente un disturbo del neurosviluppo; non è una “fortezza vuota” ma una “debolezza piena”, come l’abbiamo chiamato nel nostro saggio contenuto in Autismo, l’umanità nascosta (Einaudi, 2006), nel senso che l’atipia e la debolezza originarie da cui l’autismo prende le mosse, si riempiono di significati, di vissuti e dinamiche preziosi da comprendere; comprensione tanto più efficace se non scambiamo quei vissuti e quelle dinamiche per le cause. In questo modo, riusciremo a collocarli più adeguatamente nella complessità dei percorsi evolutivi di cui fanno parte.
2 – E sull’evoluzione e il trattamento dell’autismo – anzi: degli autismi – quali sono oggi le conoscenze più accreditate?
Questo è in effetti un tema al quale il nostro Laboratorio Autismo si è particolarmente dedicato; anch’esso è assai difficile da riassumere in modo monolitico. Le evoluzioni degli autismi sono infatti tanto varie quanto gli autismi stessi. Dipendono da innumerevoli fattori di ordine diverso, tra i quali, anche (sia pure in misura assai meno determinante di quanto solitamente si pensi e si speri, particolarmente a lungo termine) gli interventi ricevuti. Molto importante è la presenza o meno di disabilità cognitiva (tradizionalmente stimata presente nel 70-80% dei casi, prima che l’iperinclusione diagnostica recente facesse saltare tutte le stime di prevalenza) e la sua gravità, di epilessia, di altre patologie associate, la presenza oppure no di linguaggio comunicativo (che purtroppo rimane assente in circa la metà dei casi).
Nei primi anni, vi è spesso un periodo più o meno lungo di instabilità, nel quale la vulnerabilità e la fragilità soggiacenti si manifestano solo parzialmente, magari con una acquisizione delle normali tappe evolutive dall’andamento un po’ stentato, “a denti di sega” (ben descritto dai colleghi di Pisa), andamento che esprime la fatica di un sistema fragile che poi magari collassa a seguito di traumi anche banali (una malattia, l’asilo, la nascita di un fratellino, una assenza di qualche giorno dei genitori…). La “nosodromia” (i percorsi di ingresso ed evoluzione) delle condizioni autistiche è un ambito di studio molto importante, così come quello degli indicatori precoci, anche per le implicazioni potenzialmente preventive: è convinzione di molti (e qualche dato a supporto c’è), che interventi precoci, prima che gli assetti autistici si consolidino, finalizzati a sostenere e vitalizzare tutti gli abbozzi di competenza relazionale e intersoggettiva, – e con essi i sentimenti di un Sé in grado di interagire col mondo (e mitigare anche le angosce più o meno catastrofiche del Sé che si accompagnano alle difficoltà) – possano avere una certa efficacia, a prescindere o meno dalla diagnosi.
Negli anni scorsi diversi gruppi (Fein; Sutera; Sigman; Lord) hanno ripetutamente messo in evidenza che una percentuale significativa (tra il 15 e il 30%) di bambini piccoli che hanno ricevuto una diagnosi precoce (che è peraltro tanto più incerta quanto più è precoce) o hanno presentato significative caratteristiche di sviluppo simil-autistico “escono dalla diagnosi” (cioè non possono più essere considerati autistici) all’età di 5 anni. I fattori correlati a queste evoluzioni positive non sono ancora affatto chiari. Si pensa che sia un sottogruppo di soggetti caratterizzato dalla presenza di quegli abbozzi di competenze interattive, intersoggettive, di iniziativa e reciprocità su cui cercano di far leva gli interventi precoci “evolutivi” (e la cui presenza peraltro predice una buona risposta ai trattamenti stessi…). Comunque sia, questo periodo di plasticità è importante.
Una volta invece che la condizione autistica si è consolidata, essa ha una fortissima stabilità nel corso di tutta la vita. Come lapidariamente scrive Fred Volkmar, di Yale, “autism is almost always a life long condition”; “quasi sempre” perché in tutti gli studi di popolazione e in quelli di maggiori dimensione c’è sempre un 5-8% (composto di soggetti che hanno ricevuto trattamenti molto diversi, ma anche nessun trattamento) che a lungo termine esce dalla diagnosi. Sul significato e le caratteristiche di questo 5-8% si è sviluppata una discussione che ora tralascio. Per tutti gli altri, ad alto o a basso funzionamento che siano, dotati oppure no di particolari gift, in possesso oppure no di competenze cognitive e di linguaggio, la vita adulta dovrà comunque confrontarsi con una importante disabilità sociale, che è il nucleo profondo dell’autismo.
Ma il fatto che l’autismo duri in genere tutta la vita, a prescindere dagli interventi, non significa affatto che non ci sia niente da fare. Anzi. C’è tantissimo da fare, perché all’interno di quella stabilità diagnostica e di quella generale disabilità sociale vi è una grande varietà di evoluzioni per aspetti molto importanti: qualità di vita, capacità e competenze acquisite, possibilità di espressione della propria particolare umanità, ecc. Anche sotto questi profili la variabilità clinica è grande (come del resto l’evolutività e la gravità intrinseca di molti casi), e la comprensione delle condizioni che possono intervenire favorevolmente o sfavorevolmente è ancora molto sommaria. Si tratta in ogni caso di capire che, nel momento in cui una condizione autistica si è manifestata, il problema diventa a 360 gradi e richiede una progettualità complessiva, che va dunque ben al di là dei singoli interventi terapeutici o abilitativi. Non c’è del resto alcun tipo di trattamento, di alcun genere, che possa pretendere di presentarsi come risolutivo, o come la “cura” dell’autismo, o anche solo pretendere di essere efficace in assenza di una sua integrazione in una strategia complessiva che riguarda i vari versanti della vita del bambino prima e dell’adolescente e dell’adulto autistico poi.
La letteratura sugli outcome dell’autismo, su ciò che accade ai bambini autistici che diventano grandi, alle persone con autismo nel corso della loro vita è oramai molto estesa e spesso piuttosto confusa e talvolta contraddittoria.
Ne abbiamo parlato e scritto molte volte, per cercare di mettere un po’ di ordine nelle evidenze a disposizione. Se c’è un messaggio semplice e riassuntivo che si può ricavare, semplificando un po’, da quel che complessivamente si sa (e anche dalla nostra esperienza e dalla frequentazione pluridecennale con oramai centinaia di casi) è che a lungo termine, ciò che sembra fare la differenza non è tanto la tipologia del singolo trattamento, quanto la precocità, costanza, coerenza, sistematicità nel tempo, di interventi non generici (cioè consapevoli delle caratteristiche specifiche del funzionamento della mente autistica) condotti in una atmosfera complessiva di tolleranza, sostegno delle capacità interattive e comunicative e all’interno di una progettualità abilitativa a 360 gradi, in grado di coinvolgere i contesti ecologici perché essi siano in grado di modularsi e adattarsi sui bisogni e le specifiche caratteristiche dell’autismo.
Ma del tema centrale dell’organizzazione dei contesti parleremo dopo.
Qui anticipo solo che, se si rispettano questi principi, se trattamenti e contesti sono coerenti e impostati “autism friendly”, come dice la letteratura più recente, vale a dire rispettosi delle caratteristiche, dei modi di funzionamento mentali e dei bisogni delle persone con autismo, l’incontro con l’esperienza autistica può riservare davvero molte sorprese (come anche la nostra esperienza di più di 12 anni di Cascina Rossago ci continua a testimoniare ogni giorno).
Da tempo è stato osservato che gli sviluppi autistici sono davvero molto singolari e che spesso, in contesti favorevoli, proseguono anche molto oltre l’età evolutiva.
In contesti ecologici “autism friendly” è possibile così osservare non solo “isolotti di capacità” (descritti fin dai tempi di Kanner), ma oscillazioni imprevedibili nelle stesse disabilità nucleari, comparsa inaspettata di abilità e competenze che mettono a dura prova qualsiasi modello puramente “deficitario” dell’autismo; a testimonianza, come scrisse una importante studiosa dell’ autismo, C. Lord, “che nell’autismo nulla è statico, nulla è globale, nulla corrisponde a un algoritmo semplice tipo presenza/assenza”, che i giochi nell’autismo non sono mai fatti una volta per tutti e che in esso sono presenti, magari in miscele e proporzioni talvolta assai singolari, tutti gli ingredienti dell’umano.
Anche nei casi più gravi c’è sempre molto da fare e anche nei casi più gravi l’autismo continuamente mostra a chi lo incontra con rispetto e con strumenti (anche di conoscenza) adeguati, assieme alle sue disabilità, possibilità e risorse imprevedibili. I molti modi attraverso i quali, magari a tratti, le persone autistiche districano dalle maglie della loro profonda disabilità non solo competenze inaspettate, ma aspetti straordinari di umanità, affetti e delicati movimenti relazionali (abbiamo cercato di darne una piccola narrazione nel saggio che hai citato) è una continua sorpresa ed è una fortuna per i suoi interlocutori. E pone anche rilevanti questioni all’umanità di tutti.
[ Per una ulteriore e più dettagliata disamina di questi temi v. le diapositive presentate da Barale, Boso e Ucelli in un Seminario Internazionale su Psicoanalisi e Neuroscienze (Brescia, Nov. 2012) e le diapositive presentate da Barale al Convegno dell’Associazione Autismo Toscana (26-28 Marzo 2014) ].
3 – Vorrei adesso chiederti qualche riflessione sul tema più specifico che ci interessa come psicoanalisti. Ne hai parlato a lungo nel libro sopracitato (La debolezza piena. Il disturbo autistico dall’infanzia all’età adulta), dedicando ben 30 pagine all’autismo e alla psicoanalisi (pp. 141-171) e in particolare ai presupposti teorici e epistemologici che hanno a lungo alimentato la resistenza della psicoanalisi a confrontarsi con le evidenze empiriche della ricerca neurocognitiva, neurobiologica e epidemiologica sull’autismo.
A quasi dieci anni di distanza da quelle considerazioni, osservi dei cambiamenti nel pensiero psicoanalitico? In particolare ritieni che sia tuttora presente e diffuso nel pensiero psicoanalitico quel presupposto psicogenetista che sta alla radice della resistenza a confrontarsi con le evidenze empiriche degli studi sull’autismo?
Qualche progresso c’è stato, anche se ancora parziale e lento. Se non altro sollecitato dalla percezione del progressivo isolamento in cui la psicoanalisi si è venuta a trovare in questo ambito. In generale ho tuttavia l’impressione che qui ci si trovi di fronte a qualcosa di non facile da modificare, poco permeabile alle evidenze, una sorta di insieme di assunti molto radicati e diffusi, dal valore quasi identitario, che producono schematismi dogmatici che vanno un po’ avanti per conto loro. Di fatto, le evidenze empiriche degli studi sull’autismo costituiscono un corpus complessivo che da molti anni ha messo completamente fuori gioco qualsiasi psicogenesi; ma esse sono pressoché ignorate in ambito psicoanalitico, anche a livelli inaspettati, persino in riviste dalla illustre tradizione; una oggettiva difficoltà è certamente costituita dal fatto che è difficile, per chi non sia uno specialista della materia, tenersi aggiornato in un campo in così rapida evoluzione. Io stesso del resto ci riesco solo in parte e anche per questa parte non ci riuscirei se non avessi la fortuna di poter contare su giovani collaboratori con competenze multidisciplinari che mi aiutano.
Ma qui c’è qualcos’altro.
Le idee tradizionali sull’ autismo sono intrecciate radicalmente a presupposti che, sia pure largamente infondati, hanno informato 60 anni di “psichiatria psicoanalitica” (basti pensare al paradigma “haeckeliano” delle forme della psicopatologia come “ricapitolazione” per fissazione-regressione diforme e fasi primitive dello sviluppo …. fatto proprio da Abraham e Freud … del resto il termine stesso ‘autismo’, mutuato da Bleuler, nasce proprio in riferimento esplicito ad una presunta “fase autistica” dello sviluppo).
La mia impressione è che, salvo lodevoli eccezioni, in ambito psicoanalitico riesca a filtrare in genere solo quella piccola parte di informazioni che viene sentita come più o meno compatibile con gli assunti di fondo della tradizione psicoanalitica stessa. Quel poco che filtra viene poi troppo spesso rapidamente “assimilato” e re-interpretato (talvolta anche in modi un po’ fantasiosi) per renderlo coerente con le idee tradizionali. Il resto rimane fuori, automaticamente ignorato; con risultati talvolta sconcertanti. Ad esempio: l’ipotesi di una disfunzione dei sistemi dei neuroni specchio (tema di indubbio interesse nell’ambito dell’autismo, ma anche all’origine di molteplici controversie) e, più recentemente, di una disfunzione delle strutture soggiacenti a quelle che D. Stern aveva chiamato “vitality forms”, è stata reinterpretata tout court come conseguenza e correlato di un difettoso “rispecchiamento materno”.
Lo stesso destino che qualche anno fa avevano subito i dati (molto meno popolari) sull’atipia dei circuiti fronto-limbico-cerebellari, presumibilmente all’origine dei problemi di funzioni esecutive, e quelli sulla dismaturazione di certe strutture indispensabili per la “coerenza centrale”, globalmente comunque ri-descritti (su una autorevole rivista francese), a dispetto del quadro complessivo delle evidenze, come i “correlati” di una insufficienza in quella funzione di “metronomo” e organizzatore che avrebbe dovuto essere esercitata dalla reverie materna … insomma…
Questo modo di procedere, che non si cura molto dei vincoli e tanto meno dell’insieme delle evidenze empiriche, che seleziona e liberamente re-interpreta (usando spesso in modo generico concetti generali e passe-par-tout come quelli di complessità, plasticità e così via), procedendo per salti da un piano all’altro, “assomiglia” solamente a un confronto con la ricerca scientifica non psicoanalitica; ma non ne esprime in realtà un interesse autentico. E in definitiva isola sempre più la psicoanalisi.
Non sempre è così, per fortuna…
4 – Non c’è dunque da sorprendersi se in un approccio al disturbo autistico che tiene conto delle evidenze empiriche il trattamento psicoanalitico non occupi un posto di rilievo.
Cito direttamente dal vostro testo del 2006 (nota a p. 254) :
“<…> Ci limitiamo qui a osservare che capita ancora di leggere, con un certo raccapriccio, di lunghissime e intensissime terapie condotte secondo uno stile “interpretativo-simbolico” (di fantasmi, oggetti interni e così via) con bambini la cui capacità di organizzazione coerente già dell’esperienza più immediata nonché di orientamento nell’interazione umana e di comprensione dello stesso linguaggio simbolico sono assai precarie, se non assenti”
Puoi specificare i punti critici delle terapie psicoanalitiche dell’autismo?
La tua domanda è opportuna e spero di mitigare alcuni fraintendimenti originati da quelle pagine. Le quali non erano una generica “critica alla psicoanalisi”, ma un tentativo di riflessione su quale fosse la collocazione possibile della psicoanalisi all’interno di un quadro di conoscenze che è cambiato, di cui è necessario prendere atto e che impone mutamenti di atteggiamenti e di concetti. In sostanza: che ne è della psicoanalisi, in quest’ambito, una volta appurato che l’autismo è cosa ben diversa e molto più complicata di quel presunto arresto a fasi pre-oggettuali dello sviluppo per ragioni psicologiche che molti colleghi, purtroppo, ancora pensano che sia ? e una volta appurato, di conseguenza, che le analisi non possono essere più pensate come terapie di carattere “etiologico”, in grado di agire sulle ragioni del presunto blocco evolutivo e di rimetterne in moto le possibilità? Dunque la questione non è se essere “pro o contro” la psicoanalisi nell’autismo, ma di capire quale può essere il ragionevole contributo della psicoanalisi nel quadro mutato. I “tifosi” fanno, a lungo termine, un pessimo servizio anche alla psicoanalisi stessa. E, in ogni caso, amicus Plato sed magis ….
Del resto, per far solo un esempio, uno dei più importanti pionieri del rinnovamento delle idee e delle conoscenze sull’autismo nei decenni scorsi, D. Cohen, professore di Psichiatria infantile a Yale e autore, assieme al suo allievo F. Volkmar, di quel Handbook of Autism che è il testo base delle conoscenze indispensabili per qualsiasi discorso attuale sull’autismo, è stato psicoanalista, membro dell’IPA fino alla sua morte, nel 2001. E, in un congresso che fu una delle sue ultime apparizioni pubbliche, mi ricordo una intensa relazione di sua moglie, anche lei una collega, dedicata proprio all’utilità di psicoterapie analitiche in alcuni casi di autismo in cui esse erano clinicamente ragionevoli e possibili, alle loro caratteristiche (certo lontane da qualsiasi stile interpretativo-simbolico) e alla loro collocazione all’interno comunque di una presa in carico globale.
La citazione che riporti dal nostro testo mi pare peraltro chiara su quali fossero, quando abbiamo scritto quel saggio, gli obiettivi critici del nostro discorso.
Lo stile di trattamento che quella citazione indica, per fortuna sempre più raro, anche se ancora presente (e un tempo piuttosto diffuso), nasceva da un impasto di idee errate: un fraintendimento di fondo sulla natura dell’autismo e sulle sue manifestazioni, un altrettanto grave fraintendimento del problema comunicativo e di linguaggio che in esso è presente (di fatto pressoché identificato con una sorta di mutismo psicogeno), una idealizzazione dello strumento psicoanalitico e, all’interno di essa, dell’interpretazione (spesso verbale, simbolica e relativa a “fantasie” o “oggetti interni”), l’idea che la psicoanalisi fosse proprio “la terapia” dell’autismo, in grado di agire sulle sue “cause psicologiche”, mitigando a poco a poco, fino a risolverle, le angosce catastrofiche all’origine della “chiusura” …. che questa “terapia” fosse la sola via d’uscita e l’unica fonte di speranza, che dovesse diventare il centro della vita del bambino e della sua famiglia e che intorno al suo primato tutto il resto dovesse ruotare…. e talvolta essere sacrificato.
Tu sai che abbiamo raccolto oramai centinaia e centinaia di storie di ex bambini autistici diventati adulti. Una parte considerevole di essi aveva ricevuto trattamenti psicoanalitici o ad ispirazione psicoanalitica, che erano quelli di gran lunga prevalenti fino agli anni ‘90.nNe abbiamo sentite davvero di tutti i colori.
Per fortuna, anche in questo caso, non sempre era così; anzi, spesso non era affatto così.
In quello stesso paragrafo infatti, ricorderai, annotavamo che non solo molti colleghi lavoravano con passione umana e dedizione clinica, ma che una evoluzione verso atteggiamenti meno fondamentalisti, in alcuni casi molto interessante (facevamo anche nomi ed esempi), era da tempo già in atto anche nel modo psicoanalitico, magari anche se non sempre pienamente sostenuta da un aggiornamento critico di conoscenze. In quelle pagine segnalavamo anche come, sia pure con fatica, in molti colleghi si fosse fatta strada una sempre maggiore consapevolezza che le dimensioni a cui il lavorare psicoanalitico si rivolgeva (gli aspetti interni, le angosce, i vissuti, la paziente tessitura e attivazione di possibilità di pensiero, di gioco, di interazione umana, ecc.) erano qualcosa di prezioso, ma comunque solo un segmento di un problema molto più complesso e dalle radici complesse, i cui altri versanti andavano rispettati e, se possibile, conosciuti. Se non altro per non prendere fischi per fiaschi e lucciole per lanterne. Che sui fenomeni autistici, inoltre, quasi sempre le modalità tecniche di intervento tradizionali erano inutili, spesso dannose; che, in sostanza, andava ripensato il tutto. Ma per ripensare il tutto andavano, intanto, ripensate appunto le concezioni di fondo che erano all’origine di molti fraintendimenti.
Ciò che ci interessava in sostanza era smantellare le false credenze. Siamo convinti che quella del ripensamento critico sia la strada per ritarare e ricollocare meglio eventuale ruolo e funzione anche degli interventi psicoanalitici.
L’effetto di quei fraintendimenti è stato infatti complessivamente davvero disastroso. Non solo perché ha limitato e rallentato la comprensione dell’autismo (e la sensibilità all’importanza di altri piani di intervento), ma anche perché ha contribuito a produrre delle vere formazioni reattive diffuse e generalizzate, talvolta violente, alla psicoanalisi e a tutto ciò che vagamente la ricordasse. A chi conosce il mondo dell’autismo è ben nota la infelice reputazione che hanno in esso la psicoanalisi e gli psicoanalisti. Per non parlare delle associazioni di genitori e di advocacy, che in pressoché tutto il mondo hanno polemizzato diffusamente contro la tradizione psicoanalitica, facendo di tutta l’erba un fascio, senza andar tanto per il sottile, in modi spesso anche ingenerosi.
Ma credo sia comunque utile che gli psicoanalisti riflettano anche su cosa possono averci messo loro, di sbagliato, nell’alimentare questo fenomeno di diffusa ostilità, che certo ha anch’esso origini molteplici, che vanno oltre all’abbaglio psicogenetista.
Il paradosso è che attualmente la situazione è capovolta. Scomparsa la psicogenesi (a cui non crede più nessuno, salvo che in piccole enclaves sempre più isolate dalla comunità scientifica internazionale), il segmento mancante dalle attuali descrizioni degli sviluppi autistici, come ebbero a sottolineare qualche anno fa due studiosi non psicoanalisti, J. Boucher e R. Hobson, è semmai proprio quello psicodinamico, la psicodinamica degli sviluppi autistici (cioè di quei singolari sviluppi umani che avvengono a partire da quelle particolari pre-condizioni). A mio parere anche questa affermazione è un po’ ingenerosa, dato che il patrimonio di insight sull’esperienza interna autistica e la sua fenomenologia che ci hanno lasciato i grandi clinici psicoanalisti del passato (Mahler, Tustin, Meltzer ecc.) è comunque prezioso, una volta districato dai lacci dei fraintendimenti etiologici e da molte cose errate e non più sostenibili (mi permetto di rimandare al nostro saggio per tutto ciò).
Ma, nel frattempo, nella situazione di debolezza della psicoanalisi, in parte dovuta ai suoi stessi errori, il comportamentismo ha inondato il mondo dei trattamenti. E chi nei decenni scorsi, come è capitato a noi, si è mosso nel mondo dell’autismo continuando a ribadire la centralità della dimensione relazionale, degli affetti, della comunicazione, dell’esperienza soggettiva sia nella progettazione di interventi e contesti che nella comprensione complessiva del fenomeno, è stato a lungo visto con sospetto, come una sorta di portatore (più o meno sano) dell’insidioso virus psicoanalitico; salvo poi, da qualche anno, assistere con una certa sorpresa al risorgere di questi temi (comunicazione, desideri, relazione, ecc.), declinati in un registro fortemente pragmatico, all’interno del comportamentismo “di terza generazione”, che a suo modo se ne è appropriato.
5 – Sembra dunque che l’apporto della psicoanalisi al trattamento dei disturbi autistici non debba essere quello di proporsi come una specifica tecnica terapeutica ma piuttosto come una competenza nell’ascolto e nella comprensione dell’esperienza autistica.
In quali condizioni ecologiche è utilizzabile questa eredità psicoanalitica?
Vi sono diverse esperienze e modelli di intervento che hanno fatto tesoro di ciò che la psicoanalisi ha comunque consentito nella comprensione dell’esperienza interna autistica, integrandolo “implicitamente” nelle strategie di intervento.
Ad esempio alcuni fra i metodi di trattamento precoce cosiddetti “evolutivi” (quelli a grandi linee centrati non sulla mera modifica/aggiustamento dall’esterno dei comportamenti, ma sull’attivazione “dall’interno” delle competenze interattive, intersoggettive, di reciprocità, ecc.), ai quali anche le recenti Linee Guida dell’Istituto Superiore di Sanità hanno riconosciuto efficacia. Pur situandosi al di fuori da qualsiasi ipotesi psicogenetista e accogliendo pienamente i dati della ricerca recente, alcuni di tali metodi riconoscono più o meno esplicitamente l’eredità psicoanalitica, sia sul piano della comprensione di alcuni aspetti importanti dell’esperienza autistica, sia, soprattutto, nell’impostazione delle pratiche, fortemente centrate sugli aspetti affettivi e relazionali. L’esempio più noto è il metodo DIR, o “floortime”, di S.Greenspan.
Certo, non si tratta di trattamenti psicoanalitici sensu strictu, ma di modalità di intervento fondamentalmente abilitativo e interattivo, condotte in contesti il più possibile naturalistici ed ecologici, che cercano in maniera sistematica, utilizzando tutte le conoscenze a disposizione sulle peculiarità di funzionamento della mente autistica e nel rispetto delle sue difficoltà e delle sue caratteristiche, di attivare, sostenere, far crescere, riconoscere, ampliare gli abbozzi e le potenzialità di reciprocità, intersoggettività, partecipazione e condivisione affettiva ed emozionale, scambio, riconoscimento di stati mentali, capacità di pensiero su di sé e gli altri, l’esperienza di sé come agente ed efficacemente interagente nel mondo interpersonale ….
Queste modalità di intervento potrebbero ulteriormente entrare in fertile interscambio con la psicoanalisi.
Immagino tuttavia che non ti stupirà apprendere che questi metodi evolutivi non solo non sono stati accolti e sostenuti con favore dentro il mondo psicoanalitico, ma che molti colleghi hanno continuato a storcere il naso di fronte ad essi, a diffidare di questi “metalli impuri” troppo pragmatici, potenziali inquinatori della purezza del metodo e della teoria. Vecchia storia, questa, che drammaticamente (e masochisticamente) si ripete anche in questo campo.
6 – Nell’attenzione che nel vostro approccio viene prestata al contesto ecologico e alla soggettività autistica si ritrovano elementi propri sia della tradizione della psichiatria dinamica e di comunità sia del tipo di ascolto e di comprensione propri del metodo psicoanalitico.
Ritieni che una formazione all’ascolto di tipo psicoanalitico possa essere utile a coloro che si occupano di pazienti autistici?
Certo che sì! Ti potrei rispondere descrivendoti come nella storia e nella costruzione del metodo di lavoro di Cascina Rossago ci sia stata quella convergenza di tradizioni cui accenni e la rilevanza che ha avuto in esse la formazione psicoanalitica di coloro che l’hanno ideata. Cascina Rossago del resto è diretta da una persona (Stefania Ucelli) che prima di dedicarsi a tempo pieno all’autismo ha fatto per tantissimi anni la psicoanalista.
Ma queste possono essere ancora delle cose esterne.
Prendiamo allora come esempio il tema cardine delle caratteristiche che definiscono un “buon contesto” per l’autismo. Come è stato tante volte scritto, un buon contesto per l’autismo deve tener conto delle caratteristiche precipue (e dei conseguenti bisogni) del funzionamento della mente autistica: problemi di coerenza centrale, di difficoltà nel costruire “modelli anticipatori” dell’esperienza, bisogno di sameness, difficoltà di chaining intenzionale, di comprensione della comunicazione, di riconoscimento degli stati mentali ecc. Da queste caratteristiche discende la necessità di contesti caratterizzati da una forte coerenza e prevedibilità, organizzazione, ritmicità, attenzione costante alla comunicazione, semplicità e insieme ricchezza di stimoli comprensibili; contesti nei quali l’evidenza del mondo interpersonale, la reciprocità, in generale il senso di ciò che accade, non siano considerati come qualcosa che automaticamente si realizza per virtù di un fondamento comune di “evidenza naturale”, ma come qualcosa che va viceversa specificamente alimentato, con attenzione e cura (l’autismo è una forma di vita che si organizza a partire da una debole o assente “evidenza naturale”, per prendere il termine di Blankenburg, del mondo interumano). Una continua acquisizione, comunque incerta, interminabile in un certo senso, sui cui presupposti occorre costantemente lavorare.
Rimando al nostro testo, per chiarire meglio questi aspetti e le loro ragioni; che, peraltro, poi sono le stesse ragioni che ci hanno indotto a puntare, per il nostro progetto, su una situazione agricola, una farm community o fattoria sociale; scelta che è stata compiuta non per motivi “estetici” (o almeno non solo …), ma proprio perché il contesto non urbano facilita la realizzazione di quelle condizioni di base. Bene. Ma coerenza, organizzazione, prevedibilità eccetera non sono solo degli aspetti “esterni”, organizzativi …. anche un collegio o una colonia penale o un carcere possono essere molto ben “organizzati”: è innanzitutto e prima di tutto una questione di coerenza “interna”, di atmosfera affettiva, della funzione di holding (per usare un termine famigliare agli psicoanalisti) e del sentimento di coerenza di fondo e prevedibilità “buona” che quel contenitore collettivo riesce a garantire. E’ qui che conoscenza dell’autismo, delle sue caratteristiche specifiche e dei suoi bisogni, riflessione ed esperienza sui gruppi e le comunità, ascolto e formazione psicoanalitica si raccordano. Ecco così che la quotidiana riunione di staff, dove può sembrare che venga condotta una classica “analisi funzionale” degli impasse e dei comportamenti problema, può diventare il punto d’avvio di un sistematico lavoro per sviluppare, nell’équipe e in équipe, una trama di significati condivisi, costantemente in elaborazione, una sorta di matrice di pensiero e di affetti, di “teoria della mente” condivisa delle esperienze delle persone autistiche, che consente di pensarle (e anche a loro poi di pensarsi, reciprocamente) non solo come “emettitori” di comportamenti da modificare, ma come “soggetti”, con una esperienza, una storia, uno stile personologico. Questa trama è parte fondamentale e vitale, appunto, della costruzione della “organizzazione” e della coerenza (affettiva) di fondo del contesto.
Potrei farti diversi altri esempi di come ascolto e formazione psicoanalitici arricchiscono, rendono “pensante” e sostanziano un lavoro come quello che viene svolto a Cascina Rossago, con persone che per più della metà sono non verbali (e che certo non potrebbero trarre alcun giovamento da strumenti psicoanalitici tradizionali). Analoghe considerazioni potrebbero essere fatte per altri cardini del nostro modello di lavoro: il “principio ecologico”, il “fare assieme”. Nel nostro sito abbiamo cercato di descrivere in modo sintetico questi cardini su cui si innestano le attività quotidiane e anche i vari laboratori (www.cascinarossago.net). Ma il discorso si estenderebbe davvero troppo.
Rimando chi fosse interessato ai nostri scritti; oppure può venire a trovarci.
7 – Da più parti si sostiene che un dialogo autentico fra clinica (psicoanalitica) e ricerca – intendo ‘ricerca’ in tutte le declinazioni possibili, dalla ricerca sugli esiti e i processi dei trattamenti analitici, alla ricerca psicologica sullo sviluppo, alla ricerca neuroscientifica – non sarà possibile fintantoché la psicoanalisi rivendicherà uno statuto di scienza sui generis, o speciale.
Nel vostro testo ci sono parole precise in tal senso, anche se riferite alla questione-autismo: ad esempio quando osservate, citando Hobson, che solo una psicoanalisi “cauta e autocritica“, capace di rinunciare alle sue pretese “imperiali” di teoria generale dell’autismo, potrà dialogare con le neuroscienze (p.168); oppure quando osservate che “solo quando la psicoanalisi si sarà resa conto che ha molto da dire su come si sono costruite e organizzate dall’interno le storie umane autistiche, ma assai poco sul perché si sono organizzate in quel modo; solo quando essa si incuriosirà veramente di ciò che è ai suoi limiti, ai suoi margini e alle sue interfacce, sarà possibile un dialogo fecondo nella clinica e nella ricerca” (p.171); e infine quando osservate, a proposito della psicodinamica dello sviluppo autistico, che ciò ritarda la possibilità di elaborare il “pezzo mancante delle descrizioni contemporanee dell’autismo” (p.143).
Questa premessa mi introduce alla seguente domanda:
Ritieni che le raccomandazioni a favore di una psicoanalisi “cauta e autocritica“, capace di rinunciare alle sue pretese “imperiali” possano essere valide anche al di là della questione-autismo?
In altre parole, ritieni che la vicenda dell’autismo sia paradigmatica di un ritardo più generale dello sviluppo della nostra disciplina, che potrà meglio dialogare con le altre discipline che si occupano del mentale a condizione che si occupi soprattutto del come si costruiscono e si organizzano le storie delle persone piuttosto che del perché si sono organizzate in un certo modo?
Si. Il caso dell’autismo è davvero paradigmatico per tutte le questioni a cui accenni.
Diciamo che è un caso particolarmente clamoroso, ma le questioni generali che pone sono proprio quelle che indichi.