Cristina Alberini
Collaborazione tra Psicoanalisi, Psicoterapia e Neuroscienze
per cambiare l’approccio clinico alla salute mentale
Introduzione alla serata con C.Alberini ( prof. Antonio Imbasciati )
Molti di voi hanno già conosciuto la prof. Alberini. La sua duplice formazione, di biologa ricercatrice in laboratorio e di psicoanalista-psicoterapeuta, costituisce un corredo prezioso per tutti gli psicoanalisti. Già lo scorso anno potemmo sentire i suoi studi sulla memoria: in particolare ci parlò del consolidamento e del riconsolidamento della memoria a seguito di nuove esperienze. L’argomento destò subito interesse di tutti, centrandosi su quanto riguarda la memoria di eventi traumatici.
Le ricerche dell’Alberini si svolgono sugli animali: ratti, posti in ambienti dei quali fanno esperienza (costretti a un certo tipo di esperienza determinata dai dispositivi della gabbia in cui sono immessi) ne mostrano apprendimento con i loro relativi comportamenti. Successive ripetizioni dell’esperimento ne mostrano la relativa memoria. Si è constatato che una memoria, inizialmente in stato labile, viene stabilizzata, “consolidata”, da una successiva esperienza trasformandosi in una memoria a lungo termine. La trasformazione è determinata dal fatto che il DNA del genoma, sotto gli stimoli afferenziali, produce catene proteiche che stabiliscono nuove sinapsi, cioè nuove reti neurali. Il particolare che ha subito interessato gli psicoanalisti è il fatto che la nuova esperienza, per poter “consolidare” la precedente, cioè produrre nuove sinapsi, deve essere del giusto livello emozionale; né troppo basso, né troppo alto. Tale livello è misurato biochimicamente.
Questo nucleo conclusivo interessa gli psicoanalisti in quanto trova omologazione in ciò che sappiamo e sperimentiamo coi pazienti, in particolare in riferimento alle loro memorie traumatiche: ciò che fa cambiare quello che ricordano quando viene rievocato nell’incontro analitico, dipende dal momento emozionale che si verifica nella relazione con l’analista.
Sotteso a quanto sopra schematizzato, c’è il concetto, da tutte le ricerche sulla memoria animale e umana confermato, che la memoria cambia in continuazione, e che essa dipende dal continuo cambiamento (rinnovo o estinzione) delle reti neurali che si formano ad ogni esperienza. Ciò ricorda in particolare il concetto di “mappatura” che ci descrive Damasio (cfr. “Il sé viene dalla mente”, 2010). “Noi siamo la nostra memoria”, “senza memoria non esisteremmo”, ha ripetuto (e ripeterà) la prof. Alberini.
Il tema risulta particolarmente stimolante per tutti gli analisti: le memorie traumatiche cambiano, lungo il percorso psicoanalitico, non solo nella nitidezza di una loro rievocazione con l’analista, ma soprattutto nei relativi e diversi connotati emotivi che vengono ad accompagnarvisi, cioè a connotarla. Sappiamo che eventi di questo tipo segnano l’effetto mutativo di una analisi e che dipendono dal “momento di incontro” emozionale che si verifica (o si è verificato) con l’analista, o meglio “tra” analista e analizzando. Ciò ricorda il “giusto livello emozionale” che consolida, o non consolida, o riconsolida la sua memoria. Ma, se si traspone tale scoperta dal ratto all’uomo, i problemi e gli interrogativi si moltiplicano.
Innanzitutto, raramente è individuabile nell’uomo una memoria che si riferisca a un circoscrivibile fatto traumatico che venga ad essere ricordato da un paziente come si può osservare circoscritto nella risposta comportamentale del ratto nella gabbia. Ci sono inoltre i “traumi cumulativi”, e comunque, se nel ratto la memoria dell’evento è segnalata da un comportamento semplice, nell’uomo abbiamo sempre a che fare con lo scarto tra ciò che ci dice – memoria dichiarativa filtrata dal momento funzionale della sua coscienza, ovvero il “ricordo” di cui noi veniamo a conoscenza dalle parole del paziente – e ciò che intuiamo essere una memoria “dentro” il paziente, che egli non riesce a esprimere, e che noi “sentiamo” essere molto più ricca, articolata con tante altre memorie-ricordi e con tanta memoria (al singolare) che diamo per scontato essere affettiva. E’ in funzione di questa che noi disponiamo del nostro equipaggiamento psicoanalitico per entrare in empatia con il paziente. E sappiamo che è tale “empatia” che segna l’effetto mutativo.
Tutto questo non avviene solo per quanto riguarda il trauma. Ogni “cosa” che ci comunichi o trasmetta il paziente è collegata a un oceano di memorie, del paziente e nostre, le quali sono sostanzialmente affettive, in un continuum tra coscienza e inconscio. Tale affettività – siamo soliti dire che ciò che fa cambiare il paziente è un buon passaggio di affetti tra analista e analizzando – è una memoria implicita. La qualità della relazione è suscettibile di cambiare gli “schemi” con cui lavora la mente del paziente (schemi che potremmo equiparare agli I.W.M. della Teoria dell’Attaccamento). Siamo poco abituati ad avere presente che la memoria implicita non riguarda semplicemente la motricità, ma tutte le modalità interiori con cui opera la mente di un individuo, ovvero il cervello di quella persona così come ha imparato a funzionare in quelle esperienze che lo hanno costruito; come si evince dallo sviluppo neuropsichico del neonato e del bimbo. La memoria, prima di riguardare fatti, immagini, eventi che possono essere ricordati e riferiti, è innanzi tutto memoria di funzioni, e di funzioni “emozionali” come sappiamo dalle neuroscienze, cioè di funzioni affettive, secondo il tipo di funzionalità che ogni persona ha acquisito come propria struttura affettiva. E’ questa la struttura mentale del singolo paziente che l’analista dovrebbe modificare, usando la propria struttura affettiva. Spesso però dimentichiamo che quanto denominiamo struttura affettiva è anch’essa struttura funzionale neurale (acquisita e specifica del singolo individuo) e che, come tale, deve avere una traccia mnestica, data da un determinato insieme di reti neurali: la traccia mnestica degli affetti intesa, non come riferita al ricordo di avere provato in passato un certo affetto, bensì come memoria della capacità di poter funzionare affettivamente (diversamente da persona a persona) attivando ogni affetto a seconda delle circostanze in cui questo può svilupparsi. Tale traccia è data dalle reti neurali che si sono formate in quella persona e che costituiscono la sua individuale struttura affettiva.
Ciò che facciamo in analisi è allora “consolidamento” della memoria, non di eventi in quanto diventano suscettibili di essere rievocati, bensì un cambiamento delle tracce mnestiche (neurali) che contrassegnano il funzionamento affettivo che caratterizza quel paziente. Il momento di incontro relazionale a effetto mutativo è la nuova esperienza affettiva, che modifica le reti neurali del paziente in quanti vi aggiunge (integra?) le tracce dei nuovi affetti sperimentati in analisi. E’ questo il “giusto livello emozionale” che può essere omologato al consolidamento di memoria del ratto?
Per noi umani, quanto più complesso è? E quanto non esprimibile in parole di un determinato evento. Eppure lascia traccia: traccia mnestica da esplorare. Qui allora si colloca un confronto e credo una integrazione tra psicoanalisi e neuroscienze.
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v. anche
Center of Neural Science (NYU)
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Qualche necessaria precisazione sul caso clinico.
Il caso clinico presentato durante la serata comporta insormontabili problemi di confidenzialità a farne una relazione completa. Si forniscono qui di seguito gli elementi minimi divulgabili, per consentire di comprendere alcuni riferimenti utilizzati dalla prof.ssa Alberini e dai colleghi che sono poi intervenuti nella discussione.
Il paziente è un insegnante di mezza età, che ha chiesto l’analisi per curare una importante ciclotimia, che rende molto faticosa la sua vita e le sue relazioni. La sua esperienza nella famiglia originaria era stata caratterizzata dalle lamentazioni della madre, poiché il padre pretendeva in modo tirannico che lei dedicasse una gran quantità di tempo ad una impresina familiare, incurante che ci fosse anche una casa da mandare avanti. La donna era giunta ad attribuire a questa prepotenza lo sviluppo di un tumore, tenuto nascosto al paziente, per il quale si era dovuta operare. Nel corso dell’analisi tale racconto era stato “una invariante, la fotografia di un accaduto irrimediabile”.
La seduta presentata viene dopo un fine settimana in cui il paziente ha goduto di momenti molto sereni con la moglie, il figlio ed una attività hobbistica che lo appassiona. Dopo il racconto di queste buone esperienze, il paziente scivola verso la premonizione che non gli sarà possibile conciliare l’ambizione di essere un ottimo insegnante con l’attrazione che sente verso un pullulare maniacale di iniziative, che lo condurranno all’inevitabile breakdown depressivo. La comparsa della premonizione è segnata dall’apparizione, nel materiale della seduta, dello “sguardo severo di un alunno” del paziente.
Grazie al lavoro di immedesimazione dell’analista con la parte onnipotente del paziente, che a questi viene delicatamente restituita, è possibile far emergere un ritratto nuovo ed inedito della madre, una donna sempre in attività sua sponte, convinta in tal modo di poter “appianare tutto”, e convinta che, se a qualcuno pareva impossibile ottenere una certa cosa da qualcun altro, era perché non aveva voglia di fare la fatica di provare ad ottenerla. Il nuovo ritratto fornisce un nuovo contesto allo sviluppo del paziente, caratterizzato dalla “guerra delle onnipotenze” tra i genitori.
Il recupero del ricordo consente l’interruzione del loop ciclotimico.
Quel che segue è un ampio resoconto redatto dal dott. Giuseppe Sabucco sul Seminario tenuto dalla prof. Alberini a commento del caso proposto. In corsivo virgolettato sono i verbatim della prof. Alberini, e le immagini una sua gentile concessione
E’ un argomento che interessa moltissimo l’Autrice cosa le Neuroscienze possono dire su cosa succede nella stanza d’analisi con il paziente, come nel caso di questa sera. Fornirà la sua lettura in quanto psicoanalista: ha fatto un training psicoanalitico, ha visto pazienti e ne vede ancora, anche se non molti perché il suo lavoro principale si svolge in laboratorio. Perciò l’argomento di questa sera non sarà tanto “leggere il materiale” di una seduta, ma cosa succede quando si legga il materiale clinico dal suo punto di vista. Questo sarà necessariamente particolare, poiché il suo training da psicoanalista è arrivato dopo tanti anni di studio basato dapprima sulla Biologia e poi sulle Neuroscienze, perciò non è stato un training come quasi tutti gli psicoanalisti fanno venendo da Medicina o da Psicologia. Le sue “letture” sono perciò diverse, e le differenze che porterà stasera saranno basate anche sul fatto che il suo training è stato un training diverso.
L’Autrice immagina che ci sarà chi è incuriosito, chi è scettico e chi sta in mezzo. Per lei è ovvio che sia così, perché le teorie psicoanalitiche “mancano della conoscenza di come funziona la mente”. La chiama mente, non cervello, per sottolineare che non c’è dicotomia. Anche se spesso si parla di “cervello” nelle Neuroscienze, quello che succede nel cervello e nel corpo di una persona si esprime nella sua mente. E’ un tutt’uno. “Queste conoscenze possono – e lo faranno – cambiare sia le teorie che le pratiche cliniche”. Sicuramente ci vorrà tempo e nuovi programmi di training per gli psicoanalisti di nuova generazione per avere una conoscenza integrata. Oggi c’è troppo entusiasmo, o troppo poco entusiasmo e troppe critiche. Bisogna invece andare al materiale e vedere che cosa ci insegnano le discipline neuroscientifiche per avere una visione integrata di come funziona la mente. Leggiamo perciò il caso clinico.
Il primo punto importante sta nel fatto che la lamentela della madre del paziente circa la tirannia del padre ha costituito “una invariante nel corso dell’analisi, la fotografia di un accaduto irrimediabile”. Una “fotografia che non cambia” nel materiale clinico è l’espressione di un trauma. Nel laboratorio dell’Autrice ci si occupa della memoria, di come si formano le memorie, come vengono ricordate e rielaborate in nuove situazioni, delle modalità biologiche di come questo accada. I meccanismi che stanno alla base delle memorie funzionano in modo diverso nelle diverse fasi dello sviluppo. Una memoria fotografica è molto spesso legata ad una fase infantile, non perché è una memoria di qualcosa che accade durante lo sviluppo, ma perché durante lo sviluppo c’è una predisposizione ad assorbire le esperienze in modo diverso e tali esperienze possono diventare traumatiche: molte esperienze possono diventare traumatiche. Chi arriva a fare un percorso psicoanalitico, è un po’ più cosciente che ci sono questi traumi.
Vediamo alcuni dati sperimentali per avere un po’ più di conoscenza di come funzionano le memorie.
Un primo punto è che le memorie sono di diverso tipo, non c’è una memoria; quando si parla di memoria in generale ci si riferisce ad informazioni e processi che vengono trattenuti nel tempo, ma le memorie sono di diverso tipo. Ci sono memorie a breve termine e memorie a lungo termine. In genere nella stanza d’analisi parliamo di memorie a lungo termine, ma le memorie a breve termine esistono ed operano molto bene nel momento. Le diverse memorie utilizzano quelli che vengono chiamati diversi Sistemi di memoria.
Un secondo punto è che le memorie sono molto dinamiche. La concezione più sbagliata che si possa avere è che il cervello sia un organo statico, con una serie di immagazzinamenti statici; non è che, quando con il paziente nella stanza d’analisi rievochiamo memorie, queste siano sempre vere, siano sempre quelle, e siano state prodotte da un singolo evento: esse sono sempre “elaborazioni che sono accadute nel tempo”. Questo è il motivo per cui l’approccio psicoterapeutico funziona: l’approccio con l’analista fa sì che le esperienze ricordate vengano rielaborate in un modo diverso, e soprattutto con una carica emotiva diversa.
Le memorie di cui si parla nella stanza d’analisi sono memorie di tipo episodico, o anche semantico. Ma queste non sono l’unico tipo di memorie. “Ci sono tantissime memorie che fanno e costruiscono la nostra identità: noi siamo le nostre memorie”. E’ intuitivo: noi siamo chi siamo per le nostre esperienze, per quello che abbiamo imparato e trattenuto come memorie.
Parliamo allora delle memorie episodiche, cioè di quel che è accaduto al paziente di questa sera quando ha vissuto una certa esperienza; per esempio quando si è accorto che la madre è stata operata. Questo è chiaramente un episodio traumatico, ma inserito dentro al trauma precedente descritto nell’introduzione del caso: i racconti che sono fotografici, statici. “Le memorie normali cambiano continuamente, le memorie traumatiche no”.
Sono molte le memorie traumatiche che vengono formate durante l’infanzia, perché durante l’infanzia si creano gli schemi mentali. Il cervello, durante il suo sviluppo, crea connessioni che sono gli schemi mentali; e questo avviene sulla base di esperienze che sono ripetute. “La ripetizione crea gli schemi mentali”. Quando questi sono formati stanno lì, e funzionano; e non è che sono statici, il cervello cambia continuamente; tuttavia gli schemi mentali sono molto rappresentati nel cervello, c’è una sovra-rappresentazione, ed è per questo che diventano schematici; e questi sono i nodi che guidano le azioni, i pensieri, le decisioni.
Da qui bisogna entrare nell’inconscio. Gli schemi mentali non sono tutti coscienti. Molti si formano senza essere espressi nel mondo cosciente. Quelli che vengono espressi nel mondo cosciente sono solo alcuni modi di riprodurre o di rappresentare le esperienze. Per esempio, le esperienze emotive hanno rappresentazione anche nelle parti del cervello che non sono verbali, per cui non possono essere espresse in modo esplicito: sono trattenute in modo implicito. Queste parti del cervello, queste reti (network) implicite ed esplicite, pur essendo diverse tra loro, sono in reciproco contatto, si “parlano”. Da qui deriva la possibilità di avere una ri-costruzione di rappresentazioni implicite che poi diventano esplicite. Per esempio, uno stato interno di sofferenza non legato ad una rappresentazione esplicita, come succede spessissimo durante lo sviluppo, poiché il cervello non è ancora sviluppato per esprimersi in modo esplicito (non c’è linguaggio, non c’è elaborazione cognitiva), è tuttavia legato a delle esperienze che “ci sono”: quelle ripetute, tutti i giorni, sempre con la stessa mamma. La mamma è compare infatti attraverso tutto il caso di questa sera. Il padre non si vede. Certo c’è un padre, ma dal punto di vista dell’Autrice la rappresentazione principale di questo caso sono le esperienze vissute con la madre. Una parte di esse sono esplicite, ma tante sono implicite.
Nella parte delle memorie a lungo termine, che sono processate in modo diverso da quelle a breve termine, abbiamo le memorie esplicite, o dichiarative, e quelle implicite, o non dichiarative.
E’ nelle memorie esplicite che rientrano le memorie episodiche, gli avvenimenti autobiografici, ma anche le memorie semantiche, i concetti che vengono formulati in modo generale: per esempio, se incontriamo un cane di una razza che non abbiamo mai visto prima, pure sappiamo che è un cane. Come lo sappiamo? Perché tante memorie episodiche iniziali ci hanno formato lo schema del cane. Le memorie semantiche sono rappresentate in modo diverso, in regioni del cervello diverse da quelle episodiche, e sono il frutto dell’elaborazione di tante di queste ultime. A lungo andare, tutte le memorie episodiche del paziente hanno creato le sue memorie semantiche.
Le memorie implicite (o non dichiarative) sono le memorie procedurali (quelle connesse al “fare le cose”), ma anche le memorie emotive: ci sono risposte emotive che non diventano esplicite, sono risposte immediate che non sappiamo perché si sono formate, perché esistono e si manifestano in questo modo.
Le memorie esplicite (o dichiarative) utilizzano il Lobo Temporale Mediale, in particolare la regione chiamata Ippocampo, molto studiata nei modelli animali. Ora sappiamo abbastanza sui meccanismi che avvengono nell’Ippocampo, e che sono alla base della formazione delle memorie di lungo termine esplicite e dichiarative. Delle esperienze attivano l’Ippocampo, quest’ultimo “parla” con delle regioni corticali e crea tali memorie, per esempio quel che è successo al nostro paziente quando era piccolo e che lui ci racconta. Ce lo può raccontare perché il suo Ippocampo ha elaborato ed immagazzinato con le cortecce una serie di rappresentazioni dinamiche. Queste memorie sono sicuramente cambiate nel tempo, ma non la parte traumatica delle memorie: quella è rimasta invariata e ripetitiva.
Le memorie di tipo semantico, quelle che hanno a che fare con le idee generali, gli schemi generali di conoscenza, sono invece rappresentate in aree cerebrali diverse. Studi di imaging hanno mostrato che quando queste memorie semantiche vengono ricordate nell’Uomo, si attivano soprattutto regioni corticali: Corteccia Prefrontale, ma anche regioni parietali.
Vi sono molte aree in diretta connessione: la Corteccia Prefrontale, che è molto importante per formare le memorie episodiche, è a contatto con l’Ippocampo e con l’Amigdala.
L’Amigdala è un’altra regione molto importante per il processamento delle emozioni. Le memorie episodiche diventano a lungo termine se c’è un’emozione. “Se non c’è un’emozione legata a un’esperienza, la memoria a lungo termine non si forma”. Quando noi rievochiamo le memorie del paziente nella stanza d’analisi, esse sono collegate ad una serie di emozioni che fanno parte dell’esperienza originaria e delle successive elaborazioni avvenute negli anni.
Un altro processo in corso di studio è quello del riconsolidamento della memoria. Questo succede quando le memorie vengono ricordate.
Il paziente è in seduta e ricorda. Cosa succede in quel momento? “Le memorie ricordate possono ridiventare labili”. Ciò avviene “per un certo intervallo di tempo”, poi ci sarà una ri-stabilizzazione, ma in questo intervallo di tempo “le memorie labili possono essere cambiate”. Possiamo “appiccicare loro un’emozione diversa”. Questo è ciò che succede nella stanza dell’analista, ed ha a che fare con il ruolo del transfert. L’analista, utilizzando il transfert, ripropone le memorie al paziente.
Quando il paziente riconsolida le sue memorie, le riconsolida generalmente con un’emozione cambiata, ma questo non accade quando le memorie sono traumatiche. Cosa si può fare quando le memorie sono traumatiche? Tutte le memorie che vengono ricordate nella stanza dell’analista possono diventare labili: non tutte lo fanno, ma tutte possono ridiventare labili. Alcuni studi suggeriscono che le memorie vengono cambiate perché si cambia la valenza emotiva. Se noi cerchiamo di segregare la parte emotiva rispetto a quella di contenuto, che sono processate da parti diverse del cervello, vediamo che è la parte emotiva che fa diventare labili le memorie: quando tocchiamo l’Amigdala le memorie diventano labili, quando tocchiamo l’Ippocampo no. Quindi, la rappresentazione fattuale non è granché sensibile ai cambiamenti, una volta che le memorie sono ricordate.
Queste sono “good news” per il nostro lavoro di psicoanalisti, anche se non riguardano tutte le memorie. Quando non valgono queste “buone notizie”? Non valgono per le memorie traumatiche, perché queste hanno una qualità diversa, si sono formate in modo diverso, probabilmente utilizzano meccanismi diversi, anche se non lo sappiamo ancora con certezza. Poi non si ha riconsolidamento nelle memorie semantiche, che sono remote: le memorie semantiche sembrano non riconsolidare, almeno finora non si è visto che lo possano fare.
Una nuova memoria è inizialmente in uno stato labile. In seguito si consolida, e ci vuole tempo per consolidare. C’è una fase iniziale di consolidamento, che è quella più fragile, e poi c’è un’altra fase, di diversa natura, che ha a che fare con il cambiamento di distribuzione della traccia di memoria; alcune aree del cervello inizialmente coinvolte vengono meno ed altre prendono il sopravvento: da ippocampali le aree interessate diventano solitamente più corticali. Questa è un’altra fase del consolidamento in cui si può lavorare sulle memorie, perché finché non sono completamente consolidate, e quindi semantiche e non più capaci di diventare labili se ricordate, abbiamo tante finestre temporali da poter utilizzare, e più ce ne sono, più abbiamo la possibilità di individuare dei modi per intervenire.
Poi c’è il riconsolidamento quando le memorie vengono ricordate, se possono ridiventare labili (e non lo diventano se semantiche, troppo remote, o se traumatiche e processate con modalità diverse). “C’è stata molta discussione sul riconsolidamento in psicoanalisi. Psicoanalisti ne hanno scritto proponendo l’idea che il riconsolidamento sia una spiegazione di quello che avviene nella stanza d’analisi tra paziente ed analista, per spiegare il working through, il processo. In realtà non penso che questo sia corretto. Da un lato c’è troppo entusiasmo a cercare di spiegare tutto con una scoperta in Neuroscienze che può dare alcune spiegazioni, e dall’altro troppo scetticismo, per il quale le Neuroscienze sono riduttive, il cervello è un’altra cosa e la mente non ha nulla a che fare col cervello”.
Possiamo pensare, nei casi psicoanalitici, di avere processi attivi e processi inattivi, cioè memorie che sono allo stato attivato e memorie che sono in uno stato inattivato. Quando sono allo stato attivato sono al lavoro, e lì possiamo intervenire. Un approccio, quindi, è quello di far riattivare le memorie che sono importanti nei nostri casi.
Perché le memorie riconsolidano? Ci sono due ipotesi.
– Le memorie diventano fragili, se ricordate, per consentire la possibilità di un cambiamento. Tutte le nostre memorie vengono continuamente aggiornate, e questo intervallo di tempo è quello che fa sì che la memoria possa arricchirsi di nuove associazioni. “Nella stanza dell’analista il paziente richiama le sue memorie; c’è uno scambio, che non è solo di parole: uno scambio emotivo, corporale, psichico che viene associato e riassociato con le memorie ricordate”.
– Il riconsolidamento può partecipare a questo updating, in parte, ma, e questa è la seconda ipotesi, contribuisce soprattutto a mantenere le memorie più vive e molto più a lungo nel tempo; serve cioè a rafforzare la memoria.
Quest’ultimo è un punto molto importante, perché se pensiamo di far ricordare le memorie al nostro paziente e, tramite il transfert, fargliele associare in un modo emotivamente diverso, c’è anche la possibilità che lui le riconsolidi rafforzandole immutate. Questo vale soprattutto per i traumi che vengono ricordati e continuano ad essere rafforzati tramite il riconsolidamento nello stesso modo. Quindi “gli interventi devono essere fatti in uno stato emotivo controllato, nei momenti in cui c’è la percezione che il paziente possa elaborare in modo non da rafforzare i traumi, ma da rielaborarli con un’emozione che sia più adatta”.
Discussione del caso clinico.
Naturalmente la prof. Alberini propone di cominciare dai ricordi. C’è un riferimento al tumore per il quale la madre responsabilizzava il padre, che l’avrebbe sottoposta a troppo lavoro, a troppo stress. Questo è decisamente un trauma per il paziente, perché la madre incolpa indirettamente anche lui di non averla protetta. Il trauma del paziente è il trauma irrisolto della relazione con la madre: è colpa sua, non è stato un bravo figlio, non sarà adeguato con nessuno. “Bisogna guardare ai temi ricorrenti, perché ci danno una descrizione di come sia lo schema mentale del paziente: cosa abbia imparato durante la fase iniziale dell’infanzia, durante lo sviluppo, che ha creato i suoi schemi mentali”. Questo è quel che il paziente ripete: non può sperimentarsi realmente capace, realmente apprezzato. Questo diventa anche lo schema comportamentale al quale deve attenersi: non può fare le cose per bene, non può essere capace. Questi sono gli schemi mentali che si è formato da bambino con la mamma, e con la madre deve essere inconsciamente molto arrabbiato.
Viene fatto notare (dott. Mattana) che il caso sembra smentire l’ipotesi diffusa che il trauma venga conservato nella memoria implicita, dal momento che elementi salienti qui son conservati nella memoria esplicita o dichiarativa, come accade da una certa età della vita in poi.
La prof. Alberini risponde che, anche se non è così vero, è solo dopo il periodo dell’amnesia infantile che generalmente si formano e vengono espresse le memorie esplicite o dichiarative. Nel caso del paziente noi assistiamo a un continuo: le esperienze con la madre sono iniziate dal giorno zero, sono terminate quando lei se ne è andata, e dopo ci saranno state le memorie delle elaborazioni di quel che è stato. Non possiamo dire che c’è un trauma, un episodio traumatico, ma un rapporto difficile in cui la madre ha fatto del figlio il responsabile delle sue difficoltà di vita. “Le cose vanno di pari passo, e le parti implicite sono solitamente ancora più estese di quelle esplicite. Noi vediamo solo la punta dell’iceberg: c’è una parte esplicita, e c’è una enorme parte implicita”. Si tratta di cogliere la possibilità di riscrivere, in parte, memorie che non spariranno; avere la possibilità di fare nuove rappresentazioni che, in parallelo con le vecchie rappresentazioni, diano un grado di libertà in più a tutti quelli che fanno psicoanalisi, per avere esperienze diverse.
Si obietta (dott. De Masi) che l’affermazione che la psicoanalisi non sia in grado di spiegare il funzionamento della mente contrasta con la scoperta originale degli psicoanalisti che la mente per crescere ha bisogno di un’altra mente, e che la mente del bambino cresce, si distorce o si blocca all’interno di questo continuo dialogo emotivo.
L’Autrice concorda che dalla psicoanalisi venga l’elaborazione più sofisticata dei processi mentali, ma quello che voleva indicare è che la conoscenza del come questi processi succedano è una domanda che necessita ancora di una risposta soddisfacente, e che l’integrazione tra neuroscienze, psicoanalisi e psichiatria potrà apportare una serie di risposte. “Le neuroscienze non sono riduttive. Parte delle neuroscienze, studiando i meccanismi, si pongono domande ben complesse su comportamenti complessi. Per esempio, quali sono i meccanismi dell’inconscio”.
Viene chiesto (d.ssa Barbieri) se le immagini invarianti, i racconti che non cambiano, si verifichino solo riguardo a qualcosa di traumatico, o se il fenomeno possa riguardare anche esperienze positive. Forse tutti abbiamo ricordi “invarianti” di momenti felici. In tal caso queste memorie sarebbero episodiche, ma a lungo termine e per di più invarianti: si può parlare di memorie semantiche in tal caso?
Ci sono memorie episodiche a lungo termine, dalle quali viene fatto un estratto che costituisce una memoria semantica. Dei momenti felici ci può essere una parte che è una rappresentazione semantica, ma non è questo il punto. Le esperienze felici sono a lungo termine quando sono state un’emozione importante. Torniamo allo sviluppo, quando maturano i sistemi di memoria, e le memorie emotive maturano prima dei sistemi di memoria espliciti.
Le emozioni sono estremamente importanti durante lo sviluppo per creare gli schemi mentali, e le memorie felici sono legate ad un’emozione forte. “Non lo posso dimostrare, ma la mia spiegazione sulla base delle attuali conoscenze è che una memoria emotiva estremamente importante, vissuta da bambina, rimane a lungo termine ed invariata perché ha la stessa valenza nel caso delle emozioni così forti, sia che siano negative o positive”. Per questo si legge a volte in letteratura che durante lo sviluppo, nei bambini, ci siano più memorie fotografiche. Abbiamo più memorie fotografiche relative all’infanzia, ma non successivamente.
Viene chiesto (d.ssa Rapezzi) quali siano le condizioni di contesto emotivo nelle quali una memoria traumatica diventi labile, e quindi modificabile, e quali quelle in cui essa si riconsolidi immutata, perché sembra che ci siano entrambe le possibilità.
Nella risposta la prof Alberini utilizza un grafico ad U rovesciata, che illustra come funzionano le ritenzioni delle memorie rispetto al livello di stress che le ha generate (ciò vale non solo per le memorie, ma anche per funzioni cognitive più complesse).
Se il livello di stress è molto basso (vedi sotto), non si forma e non si mantiene nessuna memoria a lungo termine. C’è bisogno di un certo livello di stress – con stress si indicano tutti i diversi tipi di emozione, eccitamento e motivazione – che crei un gradiente emotivo lungo il quale le memorie si fissano sempre di più ed in modo più dettagliato. Si arriva poi ad un livello ottimale, oltre il quale lo stress ha un effetto negativo sulle memorie, e ci sono infatti deficit di memorie quando ci sono traumi potenti, o troppo ripetuti.
La prof. Alberini torna a sottolineare che le memorie traumatiche hanno una diversa qualità è che utilizzano regioni diverse, e probabilmente meccanismi diversi. Inoltre, la ripetizione del trauma è fondamentale per fare sì che la curva della risposta mnestica deficitaria, descritta sulla destra del grafico precedente (“High Stress, Anxiety”), si rialzi,descrivendo l’instaurarsi di una memoria traumatica che non cambia, o ha molta difficoltà a cambiare. Questo si può riprodurre nel modello animale.
Nella diapositiva, più alte sono le colonnine, più memoria mostra l’animale. I due cluster di colonnine centrali rappresentano l’esito di due controlli effettuati sugli animali da esperimento dopo il primo shock traumatico, ottenuto mediante la somministrazione di scosse elettriche di intensità diverse, da lievi (colonnine blu, 0,6 milliAmpere) a forti, sicuramente traumatiche (colonnine verdi, 3,0 mA). In questi due gruppi centrali si ripete lo schema a U rovesciata del profilo di memoria in accordo allo stress somministrato, e lo shock forte esita in una memoria deficitaria (colonnine verdi). Nel cluster di colonnine a destra del grafico si può vedere che il gruppo di animali che ha avuto un forte stress all’inizio, dopo che è stato sottoposto ad un secondo shock, crea delle memorie molto elevate (colonnina verde), che in seguito non riusciranno più ad estinguersi.
E’ interessante che, al fine di scatenare l’elaborazione inestinguibile della rappresentazione, il secondo trauma, deve essere inaspettato, inatteso (“unpredictable”). Se i traumi sono ripetuti nello stesso modo, nello stesso contesto, ma sono prevedibili, sono meno traumatici.
Le memorie di tipo traumatico sono diverse, qualitativamente diverse, e non possiamo trattarle come le altre memorie, e il modo con cui farlo è ancora da chiarire.
Si chiede di approfondira (d.ssa Bernetti) l’osservazione della prof. Alberini circa il proprio training psicoanalitico, che sarebbe stato diverso da quello di un allievo proveniente da Medicina o Psicologia, proprio in virtù degli interessi neuroscientifici dell’autrice.
La differenza indicata riguarda il modo di “leggere” le teorie psicoanalitiche, i diversi orientamenti clinici e le tecniche proposte, poiché a tutto il materiale di studio incontrato durante il training l’Autrice ha sempre associato la parte neuroscientifica. Anche leggendo il caso di stasera non ha potuto togliersi dalla mente l’Amigdala ed i circuiti di elaborazione della paura e della rabbia che sono stati creati nel paziente, e vengono riattivati, gli schemi mentali che si sono prodotti, e come funzionano.
Si può assumere (d.ssa Ambrosiano) che l’elemento più trasformativo comparso nel materiale clinico sia l’apparizione dello “sguardo severo di un alunno”, se inteso come lo sguardo severo del paziente stesso verso la madre traumatica, sguardo di cui egli non è finora riuscito ad appropriarsi. Esso è “in memoria”, poiché è chiaramente ricordato, ma è distante dal paziente. L’integrazione di questa posizione, che non è la rabbia, non è il SuperIo o uno degli elementi estremi con cui ci siamo finora confrontati, come potrebbe essere descritta nei termini propri della concezione dell’autrice? Che elementi, o aspetti della memoria potrebbe implicare?
La natura ripetitiva delle memorie implicate suggerisce, tuttavia, di pensare che anche lo sguardo dell’alunno, che viene percepito in senso critico, partecipi allo schema di incapacità e di insufficienza appreso dal paziente nella relazione traumatica con la madre.
Il discorso della prof. Alberini sembra indicare un approccio mentale di complementarietà tra pensiero psicoanalitico e pensiero neuroscientifico. Viene allora la curiosità (d.ssa Colombi) di sapere che posto abbiano avuto nella sua formazione autori come Ferenczi, relativamente al concetto di incorporazione, che l’autrice ha usato a proposito dell’incorporazione degli schemi mentali, o come Kahn, a proposito della ripetitività e del suo potere traumatico; o ancora il posto del concetto di dissociazione, in relazione ai suoi possibili correlati neuro scientifici.
“Penso che la psicoanalisi, dal punto di vista di teorie, di spiegazioni, di possibilità di interpretazione, sia molto più avanzata. Le neuroscienze sono molto meno avanzate da questo punto di vista. Cercano di spiegare i meccanismi”. L’esperienza delle memorie ricorrenti, ripetute, e sempre immutate viene dalla descrizione clinica psicoanalitica, e poi psichiatrica. Per esempio, i Post Traumatic Stress Disorder. Poi questo viene riprodotto negli studi neuroscientifici.
La questione dello “sguardo severo dell’alunno” richiama nuovo interesse (dott. Marinetti) perché rimanda a una dimensione (fino a qui effettivamente innominata nell’incontro), che è quella del desiderio. Nelle diverse buone esperienze del weekend precedente le sedute riportate si era espresso più di un desiderio, e una lettura possibile è che quando il paziente cerca di sottrarsi allo sguardo severo, dopo si attiva la colpa, poiché tradisce le aspettative della madre, i comandi del padre, e si riattiva il circuito descritto dalla prof. Alberini. Lo sguardo severo non può essere integrato perché non nasce da una identificazione attiva del paziente, ma è qualcosa che gli è stato “inoculato dentro”.
Anche la prof. Alberini pensa che quello sguardo esemplifica qualcosa che è stato introdotto nel paziente, e ne distorce il funzionamento; costituisce anche un esempio del perché lui replichi la stessa situazione: se gli si pone davanti qualcuno che non pensa male di lui, lui non potrà non pensare il contrario. E’ una rappresentazione interna sviluppata dall’inizio.
Si pone la questione (dott. Jaffè) del collegamento tra esperienza traumatica e memoria traumatica. In analisi si incontrano storie di avvenimenti traumatici, ma che non hanno lasciato quasi nessun segno nella vita successiva, senza che questo implichi l’intervento di meccanismi di difesa. Invece, si incontrano piccoli eventi traumatici che hanno segnato il percorso successivo. Forse ciò implica una dialettica tra esperienza reale ed esperienza emotiva.
Si tratta di una domanda importante, e la risposta è: bisogna tenere conto dell’individualità. Ciascuno dei colleghi presenti stasera ha avuto uno sviluppo diverso, e diversi avvenimenti, in sé rilevanti, ma che non hanno avuto “un riscontro essenziale” perché non erano importanti a quel punto del percorso, non saranno ugualmente significativi. Il cervello sviluppa le funzioni in momenti diversi, e c’è molto sviluppo postnatale. Se prendiamo per esempio la funzione della visione, la corteccia visiva si sviluppa in modo normale se può sperimentare la vista entro determinati “periodi critici” (niente esperienze visive lì, niente funzione della visione poi; e ciò è dimostrato anche per altre funzioni sensoriali). La prof. Alberini è convinta che nell’apprendimento sia la stessa cosa, anche se non è stato ancora dimostrato definitivamente. Il sistema emotivo “apprende”, non c’è solo l’apprendimento esplicito; c’è molto apprendimento implicito, molta emozione, molta costruzione di “rappresentazioni interne”. Tutti questi sistemi maturano in “periodo critici”, analogamente alla vista. La parte emotiva si sviluppa prima della parte esplicita, cognitiva, secondo i suoi tempi. Come interagisce poi con tutte le altre? Quando arriva sulla scena la parte cognitiva, Ippocampo/Corteccia, e interagisce con quella emotiva, cosa succede? Che fine fanno le esperienze precedenti, che sono state responsabili dello sviluppo? Non è pensabile che sviluppo e individuo siano legati da una relazione lineare biunivoca: è più credibile che ci siano esperienze che modificano lo sviluppo del cervello, creano l’individualità, e con essa la suscettibilità individuale.
Qualcuno chiede se si possono trarre consigli dalle conoscenze neurobiologiche circa il timing degli interventi terapeutici.
Se un paziente arriva con ripetute esperienze di perdite importanti – per esempio, ha perso la madre e un nonno amato da piccolo – è bene cercare di capire quanto lo stato emotivo possa essere disturbato dal ricordo di queste memorie. Lasciare che il paziente guidi e dica quando le memorie possono essere ricordate e quanto lo possono essere. I sistemi emotivi sono quelli dove ha presa il lavoro analitico, e riattivarli quando sono estremamente attivi e potenti può esitare in effetti incontrollabili, e dare risultati opposti a quelli desiderati. Le tecniche improntate al richiamo dei traumi non sono sempre da seguire.
L’attenzione congiunta allo stato emotivo del paziente, al ricordo delle sue memorie, e alle condizioni dell’intervento in seduta, è usato dalla prof. Alberini come una ‘bussola’ tecnica in senso stringente: se un intervento riferito al trauma suscita un’emozione molto elevata ed il paziente sta male, la professoressa non interrompe la seduta al cinquantesimo minuto. Il trauma, lasciato inelaborato, non farà altro che peggiorare. La possibilità di una successiva seduta a breve termine, nelle analisi, non è una giustificazione sufficiente. Il paziente molto angosciato riconsoliderà un’emozione che magari non ha peggiorato il trauma, ma non faciliterà la terapia, e questo è un passo indietro.
L’Autrice si chiede se questo non abbia a che fare anche con la durata lunghissima di alcuni trattamenti. “E’ certo che l’analisi deve essere un processo lungo, … e la ragione per cui deve essere un processo lungo è che gli schemi mentali, formati durante lo sviluppo, sono ‘overexpressed’ [sovra-rappresentati]. La plasticità è una parte di questi, e bisogna cambiare questa plasticità, ma anche formare in parte altri schemi, e i meccanismi di formazione di questi schemi sono molto più lunghi. Sicuramente ci vuole tempo, ma a volte il perché dei tempi prolungati è che si va un po’ indietro e un po’ avanti …. A volte bisogna lasciare stare, e prendere strade che non sono quelle dirette, ma trasversali. A un certo punto riusciremo a capire che il paziente è pronto: ce lo suggerisce, non c’è dubbio, e in modo ripetuto”.
Gli argomenti della serata ricordano la frase degli albori della psicoanalisi, che in seguito è stata un po’ abbandonata: il paziente soffre di reminiscenze. Si chiede (dott. Calvi) se negli studi della professoressa Alberini è stato preso in considerazione il concetto di “fantasia traumatica”, e che il paziente non sia solo colui che assorbe gli eventi, ma in qualche modo il coautore di una situazione traumatica.
Nella concezione dell’Autrice, le fantasie sono collegate ad un modo protettivo di rappresentare le esperienze. Le fantasie possono essere legate a un trauma e diventare parte di un trauma, ma possono essere anche un modo per tentare di dare una spiegazione conscia a qualcosa che non ha una spiegazione. “La fantasia non è la causa, e nemmeno la rappresentazione iniziale di un’esperienza, ma è un meccanismo di difesa, e anche protettivo. Attenzione! Tutte queste risposte ai traumi sono comunque meccanismi di protezione, dal punto di vista biologico: noi dobbiamo ricordare esperienze negative per non rifarle, in teoria”. Ricordare un evento che avrebbe potuto ucciderci, e ricordarlo per tutta la vita, è una questione di sopravvivenza. Naturalmente ci sono anche risposte maladattative.
Si propone (d.ssa Saottini) un collegamento tra la dimensione traumatica di cui si sta parlando e la concezione psicoanalitica di coazione a ripetere, che non è solo l’incorporazione di un modello che procede in automatico. Nel caso presentato stasera si può pensare che, dopo le buone esperienze vitalizzanti del fine settimana, il paziente ricerchi coattivamente la madre nello “sguardo severo di un alunno”, poiché quello con la madre sembra un legame irrinunciabile. Dal punto di vista neurobiologico, come si potrebbe interpretare questa ricerca attiva della dimensione traumatica?
La prof. Alberini obietta che la relazione con la madre è proprio uno degli schemi mentali incorporati, ed in tal senso è irrinunciabile, almeno fino a quando non possa essere modificato dalla terapia. La ricerca attiva dello “sguardo severo” non è qualcos’altro rispetto alla ripetizione di uno schema mentale che si è creato, è semplicemente la sua implementazione.
L’intervento di un ospite alla serata (prof. Sitia, Biologia Molecolare, Università S. Raffaele, Milano) introduce l’osservazione che il diagramma ad U rovesciata, che la prof. Alberini ha mostrato a proposito delle dinamiche della memoria, è assolutamente identico alla curva che noi vediamo nel comportamento delle singole cellule. Se prendiamo le cellule del sangue, per esempio, a sinistra del diagramma abbiamo l’aplasia midollare, una condizione senza stress: senza segnali, senza traumi, non abbiamo linfociti. Poi c’è la porzione ottimale della curva, in cui le cose funzionano bene. Poi, sulla destra, prima della catastrofe, abbiamo la leucemia. Quello che si sta cercando di fare adesso, esattamente come viene descritto per la memoria, è di ‘spostare’ un poco la curva verso sinistra: le cellule già leucemiche muoiono, mentre le altre cellule rimangono nell’area della curva che consente loro una sopravvivenza normale. L’analogia è fenomenale, e si può estendere ad una concettualizzazione comune: che per le cellule, come per gli esseri umani, non vi siano propriamente traumi, positivi o negativi, ma solo “segnali”: senza segnali c’è la depressione, come l’aplasia midollare; con troppi segnali c’è la “morte apoptotica”, la catastrofe; subito prima, si è in un’area di pericolo, che per la biologia del sangue è una leucemia, e per la mente sono le situazioni traumatiche descritte.
Il discorso fatto questa sera fa pensare (dott. Sabucco) che le ricerche neurobiologiche un cambiamento perlomeno lo abbiano confermato, ed è quello relativo alla concezione dell’intenzionalità nelle motivazioni dei pazienti. Un tempo era frequente il pensare che “il paziente scinde, il paziente dissocia, il paziente denega”. Dopo queste ricerche ci si sente più confortati nell’idea, peraltro già ben presente in psicoanalisi, che il paziente è stato scisso nel suo sviluppo, è stato dissociato, gli è stata denegata qualche possibilità di pensiero.