Michela Nacci e Emilio Mazza
A PROPOSITO DI… NOI/ALTRI
PSICHE INCONTRA MICHELA NACCI E EMILIO MAZZA
In occasione della pubblicazione di“Paese che vai. I caratteri nazionali tra teoria e senso comune”, di Emilio Mazza e Michela Nacci, parliamo di “Effeminati o virili? Gli Altri, Noi e i caratteri nazionali”, pubblicato dagli stessi autori in “Noi/Altri”, numero 2/2020 della rivista Psiche.
a cura di Anatolia Salone
“L’Inglese, nella sua orgogliosa rozzezza, denuncia Immanuel Kant, disprezza tutto quello che viene da fuori, è arrogante ‘contro ogni altro’; al contrario, il Tedesco ‘è l’uomo per tutti i paesi’ e ‘non è legato con passione alla sua patria’. È un cosmopolita privo di orgoglio nazionale (Kant, 1798, 332-333). La contrapposizione Noi/Altri trova un’applicazione esemplare nella teoria dei caratteri nazionali. Noi, che apparteniamo a una certa nazione, abbiamo grandi qualità fisiche e morali; gli Altri, quelli che vivono in una nazione diversa, non fanno che accumulare difetti… Così, la teoria dei caratteri nazionali fa delle nazioni altrettanti individui unitari perfettamente uniformi, ognuno dei quali esprime un carattere particolare, come le specie animali secondo la fisiognomica antica”.
Da questo passaggio, estratto dal lavoro pubblicato sul numero di Psiche dedicato alle complesse declinazioni del rapporto Noi/Altri, si evince quanto estesamente e su quali livelli di riflessione possa declinarsi ciò che la saggezza popolare ha tradotto nel detto “Paese che vai, gente che trovi”.
Non è da tutti partire dal common sense per affrontare un problema che è al centro del dibattito filosofico da più di duemila anni e che ha coinvolto molti dei più importanti pensatori dall’antichità ad oggi, da Cicerone a Kant, da Zenone a Voltaire.
Ci sono riusciti Emilio Mazza, docente di Culture del turismo all’Università IULM di Milano, e Michela Nacci, docente di Storia delle dottrine politiche all’Università di Firenze, i quali hanno messo al centro della ricerca comune il tema dei caratteri nazionali, con la recente pubblicazione del volume “Paese che vai. I caratteri nazionali fra teoria e senso comune”,edito da Marsilio.
Chiediamo direttamente agli autori di accompagnarci nella storia e nelle storie che fanno da sfondo e rendono quanto mai viva ed interessante la lettura.
Prof.ssa Nacci, l’uomo definisce la propria identità attraverso la costruzione di un delicato equilibrio tra sé e altro da sé. Nel vostro lavoro chiarite quanto questo si estenda ai gruppi e alle nazioni, condizionandone la storia. Quale è stato il percorso che ha condotto all’interesse per lo specifico ambito dei caratteri nazionali?
Michela Nacci: Sono arrivata al carattere nazionale attraverso un autore un tempo ritenuto minore e oggi molto rivalutato: Gustave de Beaumont. Beaumont è il migliore amico di un autore la cui altezza è invece indiscussa: Alexis de Tocqueville. Beaumont polemizza con una certa corrente dei cui componenti non fa i nomi: una corrente che vedrebbe il mondo guidato da un ferreo fatalismo. Sono partita alla ricerca, e ho trovato che la polemica si svolge con i sostenitori del carattere nazionale: gli Inglesi – sostiene Beaumont – affermano che il carattere nazionale degli Irlandesi li fa oziosi, ubriaconi e mendaci. Con questa scusa, li opprimono e li depredano: l’effetto di questo dominio è che gli Irlandesi sono oziosi, ubriaconi e mendaci.
Ma al carattere sono arrivata anche per un’altra strada. Ho dovuto (e devo) svolgere un corso generale di storia del pensiero politico che inizia con Platone e termina con Hannah Arendt. Nel farlo mi sono resa conto della grande quantità di autori in cui è presente il carattere nazionale: Aristotele, Hume, Rousseau, De Maistre, Hegel, Tocqueville, insomma i nomi che si trovano nel libro. In genere l’idea di carattere viene collegata con Montesquieu: al massimo, si ricorda che Hume ha detto la sua sull’argomento. Invece, è eccezionale che un autore non parli del carattere delle nazioni, non il contrario. A fronte di questa presenza quasi costante, gli studi sull’argomento sono scarsissimi, per non dire inesistenti. Da qui l’idea di affrontare il tema.
Certo, l’altro serve a definire chi sono io, e soprattutto chi siamo noi: se esiste qualcuno che non appartiene al nostro gruppo e che, anche se non ci minaccia direttamente, è diverso da noi per qualche caratteristica (colore della pelle, lingua, religione, modo di vestirsi, abitudini alimentari), la sua differenza ci stupisce, ci sfida, ci offende: lo giudichiamo diverso e quindi inferiore. Questo ha l’effetto di compattarci, di farci trovare una coesione che altrimenti non avremmo, che in genere non abbiamo. Ha anche l’effetto di farci sentire più simili gli uni agli altri: certo, in Italia si parlano dialetti che a volte non riescono a comunicare fra loro, ma rispetto alle lingue straniere tutti parliamo l’italiano. Qui siamo già arrivati al gruppo, e cos’altro è la nazione se non un grande gruppo dotato di un certo grado di omogeneità al suo interno? Ma la nazione ha una sua specificità, non è solo un’estensione dell’io: nella nazione si parla una lingua (o se ne parlano più d’una), si professa una religione (o più di una), esiste una tradizione comune o più tradizioni, l’economia si basa su alcune attività in particolare, e lo stesso vale per gli scambi. Inoltre, una nazione ha certe istituzioni che la governano e ha determinate abitudini che sono riconoscibili, abitudini materiali e immateriali che comprendono il trattamento della salma dei defunti, il cucinare con l’olio piuttosto che con il burro, il tenere il capo coperto o scoperto a seconda delle circostanze. Tutte queste caratteristiche possiamo riconoscerle come nostre (e ritenerle “naturali”) oppure proprie di altri (e ritenerle straniere e strane). Quando assegniamo a tutto un popolo le stesse caratteristiche, quando affermiamo che queste sono diverse dalle nostre, e associamo alle caratteristiche nostre e degli stranieri un valore (positivo o negativo), facciamo uso del carattere nazionale. Certo, non tutte le utilizzazioni dell’idea di carattere sono uguali: se dico che nella nazione francese tutti gli uomini sono effeminati, e che questo accade sempre, sto usando un’idea essenzialista di carattere; quando vedo anche differenze all’interno della nazione italiana e cerco di spiegarle con il clima, il suolo, ma anche con la storia e l’economia, sto usando lo strumento del carattere in modo più leggero, più flessibile, lo ritengo modificabile nel corso del tempo. La teoria del carattere nazionale comprende entrambe le versioni.
I greci usavano la lingua parlata, che rappresentava il trait d’union di un popolo che invece dell’indipendenza politica tra le città aveva fatto la sua base identitaria, quale parametro per definire l’estraneità, culturale e nazionale. Barbaro originariamente è un vocabolo onomatopeico che indica coloro che “balbettano” il greco, che non sono in grado di pronunciarlo bene, ma diventa presto un modo per segnalare l’estraneità, l’impossibilità di integrazione. Se oggi esistono lingue e linguaggi considerati universali che favoriscono la condivisione e l’integrazione, quali pensa siano gli elementi che viceversa hanno assunto la funzione di differenziare, anche a costo di escludere?
Michela Nacci: La lingua oggi sarà anche universale, ma non tutti la parlano. Io credo poco a questa versione della globalizzazione con il significato di universalizzazione e cosmopolitismo. Del resto, i nazionalismi esistono ancora, più forti che mai. Oggi le differenze sono date dalle stesse cose di sempre: lingua, razza, clima, suolo, religione, istituzioni, costumi. Questi elementi sono proprio i componenti del carattere nazionale. In più, oggi assistiamo a migrazioni di etnie: qualcuno interpreta queste come culture, ossia offre una versione attuale dei caratteri: monadi chiuse all’esterno e identiche all’interno.
Prof. Mazza, nel lavoro pubblicato su Psiche ponete il focus su Effeminatezza e Virilità come uno dei tratti su cui definire un carattere nazionale. Può spiegarci quanto questo specifico punto di vista si sia radicato nel tempo e quanto ha condizionato il rapporto tra popoli?
Emilio Mazza: “Effeminatezza e Virilità” voleva alludere con un’immagine tradizionale (gli Asiatici dal punto di vista dei Greci) a una storia che porta dalla Grecia antica all’Europa contemporanea, e che scandisce gli scritti dei filosofi Europei: in molti – più di quanti ci aspetteremmo e più di quanti ne abbiamo considerati in Paese che vai – hanno discusso dell’esistenza e, soprattutto, delle cause dei caratteri nazionali. In questa storia gli “effeminati” sono indolenti e inclini a farsi comandare, perché pigri e timidi, anche se spesso colti e geniali, e i “virili” sono operosi e fieri della propria libertà, coraggiosi e guerrieri, anche se spesso incolti e rozzi, con alcune eccezioni importanti soprattutto nell’Europa moderna. È la grande distinzione tra popoli del Nord e popoli del Sud. Così, “effeminati” e “virili” li ritroviamo anche oggi, nemmeno troppo nascosti dietro paesi bollati come dissipatori e i paesi che si sono autodefiniti “frugali”. Se escludiamo le virtù concomitanti di raffinatezza e cultura, siamo sempre pronti a trovare un altro più “effeminato” di noi. Per natura più molle, vigliacco e inattivo.
Riprendendo un passaggio dell’articolo, non resta che chiedersi: se ancora oggi il carattere nazionale è ancora presente, sotto quale forma lo è? Che funzione svolge?
Emilio Mazza: A volte preferiamo parlare di “cultura”, che va sempre promossa, di “identità”, che va sempre difesa, o di “radici”, che vanno sempre cercate, ma sullo sfondo c’è l’idea di “carattere”, che per Hume come per Bateson non costituiva un problema, una volta circoscritta la sua portata legittima (non bisogna mai dire “tutti”). “Lui è padrone assoluto della vita e dei beni dei suoi sudditi, che sono tutti schiavi, con l’eccezione di quattro famiglie”. Chi è lui? Putin secondo Biden? No, è lo Zar secondo le Lettere Persiane, dove Montesquieu aggiunge: “considerato il clima terribile della Moscovia, non si crederebbe mai che l’esilio possa essere una pena; eppure, quando un grande cade in disgrazia, viene mandato in Siberia” (c’è un saggio di Rolando Minuti su L’immagine della Russia in Montesquieu). Lo Zar, Lenin, Stalin, Andropov e Gorbaciov, Eltsin e Putin: è la barbarie perenne del dispotismo orientale che dipende da un clima che rende schiavi? Niente affatto. Il clima russo è freddo, dice ancora Montesquieu nello Spirito delle Leggi, tanto che se vogliamo far provare un sentimento a un Russo dobbiamo scorticarlo. In Russia la libertà non vale niente, ma il dispotismo ha cause particolari che, “forse”, la riporteranno sempre alla sciagura che voleva fuggire. La Russia, che è una nazione d’Europa, vorrebbe uscire dal suo dispotismo e non può.
È sempre stata una questione complicata quella del carattere nazionale, soprattutto quando, dopo averne accettato l’esistenza, cerchiamo di capirne le cause. È come la religione (pagana) secondo Hume, che “sembrava svanire come una nuvola ogni volta che le si andava vicino per esaminarla pezzo a pezzo”. La mia inclinazione è negarne l’esistenza per rivendicare l’irriducibilità degli individui, insieme a Weber, Von Mises e Baroja. Si tratta di un mito, di una fallacia dannosa. Eppure Hume, Tocqueville, Bateson mi invitano a non cedere all’inclinazione. Qualcosa come il carattere esiste, anche se non è facile definirlo e trovarne le cause (il tipo di governo, le classi al potere, la ricchezza e la povertà, le relazioni all’interno della stessa nazione e con le nazioni vicine, la religione, la conformazione del territorio ecc.). Forse è proprio questa una delle caratteristiche del carattere: quando proviamo ad argomentare in favore delle nostre osservazioni sui popoli rischiamo, se tutto va bene, di ritrovarci tra luoghi comuni e verità simili a oroscopi. L’idea di carattere sembra riprendere vita in tempi di conflitto e disagio, di fronte al nemico o a chi non conosciamo. Più che utile è spesso dannosa, ma non per questo scompare. Possiamo farne a meno? Vorremmo. Possiamo liberarcene? Forse no. Possiamo educarci a ricorrervi il meno possibile, dopo aver cercato di dare un fondamento a questo ricorso. Solitamente, se ci liberiamo dai pregiudizi, incontriamo soltanto individui, ma questo non significa che gli individui incontrati, che sono cittadini di una determinata nazione, non abbiano caratteristiche diverse da altri cittadini di altre nazioni. Per questo, alla fine mi piace Orwell. Mentre denuncia il fatto che pensiamo spesso le nazioni come individui, e facciamo osservazioni evidentemente assurde come “la Germania è per natura infida”, per poi scoprirle infondate, riconosce che l’abitudine a queste generalizzazioni è qualcosa di persistente. Osserva un’“intermittenza” nel nostro atteggiamento. Sostiene che le caratteristiche nazionali “non sono facili da fissare e quando vengano fissate spesso si rivelano banalità o sembrano non avere nessuna connessione tra loro”; ma, aggiunge, “quando ritorni in Inghilterra da un qualsiasi paese straniero hai immediatamente la sensazione di respirare un’aria diversa”. In ogni caso, la credenza che assomigliamo ai nostri antenati può essere irragionevole ma esiste e influenza la nostra condotta: “i miti in cui si crede tendono a diventare veri, perché creano un tipo, una ‘persona’, alla quale l’individuo medio farà di tutto per assomigliare”.
Quale aspetto del libro recentemente pubblicato ritenete sia particolarmente interessante, magari anche in relazione ad un vostro specifico interesse?
Michela Nacci: Mi sembra di particolare interesse cercare di capire perché fino a una certa data (grossomodo fine Ottocento) tutti usano l’idea di carattere per definire gli altri popoli, e poi, quasi all’improvviso, nessuno lo fa più: oggi ci si vergogna perfino a pronunciare il termine, e carattere, le pochissime volte in cui è usato, viene sempre posto fra virgolette. Il cosiddetto carattere. Nel libro si avanzano alcune spiegazioni: soprattutto, il determinismo e il naturalismo implicati da quell’idea, che sembravano minacciare la libertà dell’individuo e della nazione e sottoporre all’impero della natura qualcosa che – essendo tipica degli esseri umani e delle loro attività più elevate – doveva restarne immune. Sono sempre affascinata da questo problema: com’è che per secoli si crede una tesi vera, e poi all’improvviso non più? L’idea di carattere non ha posto problemi per secoli (salvo la disputa sulle sue cause e i suoi effetti, ma si trattava di temi interni all’idea), e poi di colpo risulta addirittura innominabile. Credo valga la pena di affrontare il problema, che non si pone solo per il carattere ma per molte altre idee.
Emilio Mazza: I cambiamenti, come quello tra fine Settecento e Ottocento e tra fine Ottocento e Novecento. E le continuità, i travestimenti dell’idea di carattere. E poi le contradizioni, le ambiguità, le argomentazioni ingannevoli o consolatorie (proclamare che i caratteri non dovrebbero esercitare un’azione, perché questa è spesso dannosa, non implica che non la esercitino). La paura del determinismo; la paura di ridurre le nostre libertà illimitate accettando l’influenza di un qualcosa come il carattere nazionale (regionale, municipale e perfino professionale), proprio mentre non esitiamo ad ammettere altre influenze e, quando parliamo degli altri, a servirci di spiegazioni come “i Russi, gli Americani, i Milanesi, i Romani ecc.”. La riduzione del carattere a pregiudizio (nel caso migliore a stereotipo) o a nazionalismo, che spesso è un altro modo per liberarsene. In breve, i diversi modi di eludere la questione. L’influenza del carattere non è sempre e ovunque la stessa. Più i cittadini di un paese sono liberi meno hanno un carattere nazionale. Così, ci sono popoli quasi senza carattere, per esempio gli Inglesi (non è una sorpresa). Chi lo diceva? Lo scozzese Hume nel 1748; lo stesso scozzese che nel 1752, come suddito britannico, dichiarava di pregare per il commercio della Spagna e perfino della Francia; che nel 1764, da Parigi, si professava cittadino del mondo; e che nel 1770, da Edimburgo, vedeva nell’Inglese una bestia corrotta, incapace di godere di un governo perfettamente libero. Del resto, lo diceva lui stesso, i caratteri nazionali possono cambiare moltissimo. Un po’ come le nostre opinioni.